HomeArticoliJon Fosse e il Nobel. Un drammaturgo è sempre sconosciuto

Jon Fosse e il Nobel. Un drammaturgo è sempre sconosciuto

Con l’assegnazione del Nobel per la letteratura a Jon Fosse arriva un segnale importante alla cultura italiana ancora incapace di riconoscere le arti teatrali al pari delle altre. 

Foto Photograph by David Levene/Eyevine

«Per le sue opere teatrali e la prosa innovativa che danno voce all’indicibile», con questa scarna ma affilata motivazione l’Accademia Svedese ha annunciato l’assegnazione del Premio Nobel a Jon Fosse, uno scrittore sessantaquattrenne praticamente sconosciuto al pubblico italiano non teatrale, ovvero quasi tutto. Un drammaturgo aveva già vinto di recente, Peter Handke nel 2019, ma in questo caso è proprio nella motivazione la specificità che colpisce: il teatro è al centro, anzi è il primo argomento trattato. Viene da pensare allora quanto nell’apparato culturale italiano – ancora e sempre centrato sul primato del libro – le arti dal vivo dedicate al contemporaneo siano assenti da qualsiasi forma di dibattito non specialistico.

Questo premio assegnato a un drammaturgo, tra i più rappresentati nelle nostre scene e fuori (e prossimo ad arrivare in libreria con altri tre volumi di L’altro nome. Settologia, la sua opera fuori formato divisa in sette capitoli e scritta senza punti) è un segnale importante e puntuale. La motivazione del Nobel a Fosse andrebbe inviata a chi in Italia compila le rassegne stampa culturali dedicando alla scena teatrale meno del 1%, agli editori e direttori di giornali che estromettono ormai da decenni il racconto del teatro (se non in piccoli spazi), a chi ancora non ha capito quanto la parola diventi viva e vitale in quel campo di forze che è lo spazio scenico.

Ieri nel pomeriggio di Fahrenheit, sulle frequenze di Radio Tre, Loredana Lipperini, dopo aver interloquito con Elisabetta Sgarbi e Rodolfo Di Giammarco – i critici teatrali non esistono però vengono chiamati di corsa in casi come questo – spiega come rispetto ad altre trasmissioni fatte negli anni sul Nobel alla letteratura, stavolta siano arrivati pochi messaggi da ascoltatori e ascoltatrici, perché Jon Fosse è poco conosciuto dal pubblico italiano. Eppure c’è un altro pubblico appassionato, quello di platea, che ha apprezzato le messinscene dei testi dell’autore norvegese dirette da importanti registi, ma anche da giovani e outsider (qui trovate alcuni spettacoli raccontati in questi anni). Esiste insomma un pubblico che si è emozionato dei silenzi tra i dialoghi rarefatti, di quelle pause in cui le parole sembrano non avere peso, e poi di quei personaggi isolati, chiusi tra una natura maligna in cui perdersi e un’interiorità irrisolta, come irrisolte sono le relazioni. In un’intervista proprio con Di Giammarco di quasi vent’anni fa Fosse raccontava del bisogno di vedere il mare durante la scrittura. Tutto questo la cultura italiana lo apprezzerebbe se pensasse al teatro come un luogo di confronto, come un sistema da raccontare quotidianamente e non solo quando improvvisamente, grazie a un Nobel, si affaccia tra gli argomenti di massa. E invece basta sfogliare gli inserti o le pagine culturali dei giornali per accorgersi di quanto le arti sceniche siano poco considerate, soprattutto nella critica e nel dibattito che ne deriva. Attenzione, non manca l’informazione, le interviste ai soliti grandi registi o attori, ma manca il racconto costante del sistema. E quando per strane connessioni astrali nasce un dibattito, si veda quello attivato da Cordelli su La Lettura, non può che avvenire in modo scomposto perché in quelle pagine manca qualcuno in grado di avere gli occhi e la presa sul panorama teatrale contemporaneo.

D’altronde basta ascoltare una delle rassegne stampa più importanti per la cultura italiana, quella di Radio Tre: non c’è traccia di recensioni teatrali o di articoli relativi a politiche  e dibattiti teatrali. Eppure di cose ne accadono, cito ad esempio le storie della capitale con l’Eliseo chiuso per il fallimento dell’impresa di Luca Barbareschi, il Valle in restauro tardivo e il Teatro di Roma ancora in attesa di una direzione; quando due anni fa ci fu un durissimo e assurdo sciopero al Teatro India provammo a cercare una sponda con la rassegna stampa di Radio Tre, niente, nessuna risposta, non ne parlarono, né con i nostri articoli e né con altri. Non basta insomma neanche che un Teatro Nazionale veda una delle proprie sale chiudere al pubblico, interrompendo gli spettacoli, per raggiungere un dibattito radiofonico del genere. Poi di certo è encomiabile il lavoro fatto dalla terza rete sul teatro in generale, nelle varie trasmissioni di informazione e approfondimento dedicate, ma appunto è il dibattito quotidiano aggiunto alle altre arti a mancare, perché è quello che permette di affrancarsi dalla nicchia specialistica.

La realtà è evidente: in Italia un artista non viene considerato fin quando non scrive un romanzo (oppure finché non va in televisione per qualche coincidenza, ma per andare in televisione spesso ci vuole comunque un romanzo di successo), è questo l’unico passepartout per l’apice della piramide culturale. La cultura teatrale e performativa viene – a causa di un fraintendimento vecchio centinaia di anni – considerata come qualcosa di specialistico invece che appartenente all’orizzonte del quotidiano. Accadeva già con i letterati del Cinque e Seicento che vedevano i comici della Commedia dell’Arte come degli impostori, dei guitti incapaci di eguagliare la bella scrittura in punta di penna; non si rendevano conto che quei corpi in scena erano protagonisti dell’arte dell’epoca al pari delle loro novelle.

Sarebbe insomma l’ora di far cadere gli steccati, sarebbe ora che le direzioni dei grandi festival di letteratura ed editoria invitassero drammaturghi e drammaturghe (anche quelli giovani), che sui giornali facessero riflettere, sul mondo e la sua complessità, artisti della coreografia e della parola agita che hanno dimostrato caratura filosofica. Sarebbe ora insomma di provare a riconoscere chi, nel buio di uno spazio, si fa creatore di mondi evanescenti, al pari di uno scrittore; perché il palcoscenico è il suo romanzo infinito.

Andrea Pocosgnich

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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