Marco Paolini, a trent’anni dal suo resoconto politico, realizza un progetto collettivo che coinvolge centotrenta teatri nel raccontare la strage del Vajont e un Paese che, a distanza di sessant’anni, continua a farsi colpevole. Alla Sala Assoli di Napoli, raccontano Luca Iervolino e Massimo Ruccio.
“Come sarà uno spettacolo teatrale dopo ben trent’anni?”. Vai a cercare su YouTube Vajont 9 ottobre ’63 – Orazione civile in diretta RAI del ’97, e la curiosità spinge a fissarsi prima sui volti del folto pubblico di una generazione fa seduto in cerchio, poi la curiosità lascia spazio all’attenzione e sul fondo dello schermo appare la diga. Lo spettacolo, scritto da Marco Paolini e da Gabriele Vacis, fu allestito proprio nel bacino della diga. Dopodiché arrivano le parole di Paolini pronunciate col suono di un metallo pesante della cadenza veneta e con una notevole capacità affabulatoria. Trascorsi tutti questi anni, col cadere del sessantesimo anniversario dalla tragedia, Paolini, con il comitato La Fabbrica del Mondo, realizza un vasto progetto di racconto collettivo che coinvolge l’intero Paese in centotrenta teatri. Vajonts23 è, come l’immagina l’attore e autore di Belluno, «un coro, una partitura suonata, eseguita, narrata, detta, […] non un esercizio solo di memoria, ma una maniera di affrontare la prossima grave crisi idrica». In Campania, Casa del Contemporaneo è una delle realtà teatrali che hanno aderito al coro, previsto il 9 ottobre; in Sala Assoli, l’attore Luca Iervolino e il divulgatore scientifico Massimo Ruccio prestano le voci al racconto. “Come sarà raccontare una vicenda avvenuta sessant’anni fa?”. Questa in realtà è una questione complicata, vuoi perché viviamo in un Paese che ha difficoltà a raccontare la propria storia, vuoi perché in fin dei conti sessant’anni sono un nulla, soprattutto perché somigliano all’oggi.
Quello di Paolini è stato definito un “teatro di verità”. Non di realtà. Giusto. Di realtà ce ne sono anche troppe, e manipolarle è facile; ma la verità, una, a negarla si è farabutti. Eppure c’è chi ha il potere di negarla, e allora fare del teatro un teatro di verità è un necessario peccato di tracotanza. Prima che il racconto inizi, viene proiettato il volto serio e gentile di Padre Alex Zanotelli, da anni residente nel quartiere Sanità, che si slancia, col calore che è noto a chiunque, in un accorato appello di sensibilizzazione sull’importanza dell’acqua come bene comune, come fondamento di ogni diritto alla vita, e in un avvertimento contro la sua privatizzazione. Fu a causa della smania modernizzatrice e rapace della società elettrica privata SADE che venne progettata l’enorme diga. La società fu fondata dall’ imprenditore Giuseppe Volpi, fascista prima e opportunista politico poi: le attribuzioni non sono un capriccio di forma, bensì un monito che ricordi (oltre alla doverosa pratica di additarli, i fascisti) che chi opera nella privatizzazione di un bene comune (si pensi oggi alla sanità) accarezza sempre una specifica ideologia politica. A un ritmo serrato e intransigente, la storia si compone di fatti, nomi, date, cifre, dichiarazioni e conseguenze; fino all’ultima conseguenza evocata con estrema precisione, tanto da sentirsi dilaniati lì immobili sulle proprie sedute, costretti quasi a percepire una sottile corrente sulla pelle, allusiva a potenze ben maggiori.
La secca retorica necessita solo di una lavagna, di una cattedra e di un leggio, e serve scrupolosa la linea narrativa di un lavoro che non sarebbe corretto definire solo nella sua terribile bellezza; è anche un senso di necessità e urgenza ciò che si fa avanti. Tanto, troppo, è il bisogno di racconti che hanno una solida struttura di comunicabilità che tenga insieme le molteplicità dei sentire e che interpelli a un livello altissimo di divulgazione e comprensione. Non esistono i voi, i noi, l’io e il tu, non c’è alcunché che ci distingue, bensì esiste un tutti, e tutti devono poter sentire, insieme, e devono poter capire chiaramente ciò che è vero e giusto; una volta sentito e capito, tutti devono accettare. È una tradizione di racconto probabilmente un po’ desueta, ma nobilissima e meritevole di essere rivitalizzata. Tina Merlin, raccontata con affetto da Paolini, è uno dei solidi perni di quella tradizione: partigiana, giovane donna dedita al racconto del vero, seria e competente, giornalista dell’Unità impegnata a indagare e informare sulle nefandezze compiute; inascoltata e ostacolata, e messa in discussione da Indro Montanelli che la definì impropriamente “sciacalla”. Uno ieri che è l’oggi.
In scena, Iervolino è estremamente generoso nel restituire aderenza al testo originario di Paolini, rispettando anche l’uso del dialetto o accogliendo la ruvida e addolorata ironia veneta molto simile a quella strafottente napoletana. C’è della gentilezza nel permettere che fosse la specificità di quell’evento, senza sovrapporne altri di simile natura più recenti e molto più sensibili per il pubblico napoletano, come la questione dell’evacuazione dei Campi Flegrei che avrebbe potuto distogliere l’attenzione, ad assurgere a racconto di una Nazione. La narrazione procede tra i resoconti della burocrazia asfissiante, della negligenza malevola delle Istituzioni – e pur tuttavia fin troppo energica nell’ignorare le esigenze delle classi più basse – della miserabile ostilità nei confronti del competente giudizio femminile, dell’inevitabile accolto con ottuso e colpevole stupore. Un racconto finalmente e interamente politico. Non ha nulla di negativo l’affaticamento fisico ed emotivo dello spettatore sottoposto all’atroce narrazione, chiamato a una partecipazione di coscienza e di spirito. La bellezza è lì dove non c’è la finzione: nella creazione di una, seppur estemporanea, comunità attiva e viva.
Valentina V. Mancini
Sala Assoli, Napoli – Ottobre 2023
VAJONTS23
progetto di Marco Paolini
lettura scenica Luca Iervolino
divulgazione scientifica a cura di Massimo Ruccio
regia Rosario Sparno
produzione Casa del Contemporaneo, Associazione Assoli e Le Nuvole