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Dentro e fuori per cercare l’essenza. Intervista a Daria Deflorian

Una conversazione con Daria Deflorian mentre a Torino è in scena lo spettacolo Diari D’amore in cui recita diretta da Nanni Moretti. In questa intervista parleremo del passato e del presente, del fare teatro oggi.

Raggiungo Daria Deflorian al telefono, in una mattinata di inizio ottobre. Alle 13 ha le prove, sono gli ultimi giorni prima del debutto torinese al Teatro Carignano di Diari d’amore, con la regia di Nanni Moretti e i testi di Natalia Ginzburg. Ci salutiamo, «ci siamo quasi», le dico. «Noi artisti come sai non ci sentiamo mai pronti»; la sua voce è calda e raffinata come sempre, con quei colori antichi, eppure strumento di pensieri attuali e vivi.

Cominciamo dal libro di Rossella Menna, Qualcosa di sé. Daria Deflorian e il suo teatro, e da qualcosa che è emerso anche nella presentazione del volume all’Angelo Mai, ovvero da quegli anni di ricerca, indipendenza e apprendistato. Com’è cambiato oggi il modo di fare teatro per i giovani? Che contesto troverebbe una giovane Daria Deflorian oggi?

Daria Deflorian durante Scavi

Lo vedo attraverso le persone che studiano con me, attori, attrici, artisti, parlo di persone che vista l’età hanno ancora un’incertezza rispetto al proprio percorso. Non li invidio per niente. Rivedo in loro una me stessa che arriva oggi a Roma, ma in una situazione senza crepe, piatta, lucida. Fin troppo levigata. Parlo dell’assenza di crepe nel sistema, di quelle eccezioni e sregolature che ti permettevano di incontrare un Marcello Sambati che aveva Dark Camera e che la apriva raramente al pubblico, con poche date, ma che tutti i giorni stava lì a lavorare, ad ascoltare musica, a pensare. Certi luoghi sono spariti, lo sappiamo bene: cosa sarebbe stato di Origine del Mondo (spettacolo del 2011 con testo e regia di Lucia Calamaro, ndr) se non ci fosse stato il Rialto? Abbiamo cominciato senza produzione in quel caso, c’era un interesse da parte di alcune strutture  (una di quelle formule vaghe che fanno paura…), ma c’era il Rialto. Cosa sarebbe stato di me e Antonio Tagliarini senza il Rialto, senza Castiglioncello di una volta (non che Inequilibrio di oggi non lo faccia, ma lo dico per quello che ha significato per noi), residenze dove non ti veniva chiesto immediatamente un risultato. E poi c’è la questione della mancanza di uno spazio di visibilità intermedio: mi sembra che oggi o non sei visibile oppure sei a Romaeuropa, al Piccolo o nelle stagioni di altri teatri nazionali. Per esempio, per noi (intendo per me e Antonio, ovvero la fase più bella e importante dell’ultima parte della mia vita lavorativa) arrivare al Teatro India era un fatto, un sogno. Ma in quel tempo intermedio, necessario e difficile, ci è stato concesso di crescere.

Daria Deflorian e Antonio Tagliarin in Rewind

Rispetto a 20 anni fa ciò che ora manca a Roma, ma mi sembra anche in altre città, è l’informalità.

Certo, perché ora anche i teatri più piccoli replicano i modelli dei grandi. Quando parlo di crepe parlo proprio di quell’esempio relativo a Marcello Sambati, lo trovavi lì ad ascoltare musica. Non parlo delle stagioni teatrali, come ad esempio quella del Teatro Furio Camillo dove alla fine degli anni Novanta ho visto Danio Manfredini (meraviglioso…), ma parlo proprio di una modalità legata alla perdita del tempo, che poi non voleva dire perdere tempo, ma voleva dire considerare la dimensione artistica in maniera diversa. Ma qui arriviamo a toccare la questione complessa dell’arte come prodotto.

Diari d’amore, regia di Nanni Moretti, 2023

Questo con Nanni Moretti per te è un debutto, una sorta di prima volta, rispetto a ciò che hai fatto finora, dato che gran parte del tuo percorso ti ha visto lavorare come attrice e autrice. Cosa vuol dire essere diretta in un progetto come questo?

Hai ragione, io lo sento come un debutto questo con Moretti, come attrice di un testo dato e scritto prima. Origine del mondo ad esempio è un testo che si è formato insieme alla performatività, e che quindi per quanto fosse un lavoro da attrice non aveva quella regola per la quale devi lavorare su un testo già pronto e risolto. Per me è un’esperienza nuova, nel senso che è proprio quel teatro dal quale io mi sono volontariamente allontanata e che invece in qualche modo ora incontro con interesse, con curiosità, come una sorta di illusione per la quale ora sento di poter essere ciò che sono nelle occasioni più diverse, non solo in famiglia, in casa. E credo di essere stata molto fortunata perché io, da outsider, ho incontrato un altro outsider teatrale che è Nanni Moretti. Lui ci ha molto ascoltato, ogni tanto mi ha detto: «Non essere troppo Deflorian», oppure, al contrario, fin dai primi giorni di prova, per alcune battute mi ha detto «dillo così, alla Deflorian». È accaduto ad esempio quando il mio personaggio, una donna di servizio, dice di andare in città a vedere un giallo. E io non è che capisca precisamente cosa intende Moretti quando mi dice «mi piace come dici ‘giallo’, così alla Deflorian», ma intuisco che dentro quel “giallo” c’è qualcosa in più, una specie di stupore dell’esperienza quotidiana che diventa meraviglia.

Foto Elizabeth Carecchio

Questo fa parte del lavoro da attrice, da interprete, dunque più in generale, cosa vuol dire prestare il corpo e la voce per delle parole che non sono le tue ma che, anche quando sono le tue, poi non lo sono più nel momento in cui le reciti? Cosa hai capito di questo mestiere?

Non so cosa ho capito veramente, provo a esplorare con te un pensiero… lo scorso anno ero alla Manifacture di Losanna, un luogo splendido, una scuola di performance e teatro, per lavorare su En finir il progetto su Edouard Louis che ho portato anche a Roma con gli allievi/e dell’Accademia Silvio D’Amico. Alla Manifacture con noi c’era stato, per un giorno, anche il dramaturg del Teatre Vidy di Losanna, Eric Vaudrin, e alla fine di una prova agli studenti disse «osservatela questa persona – parlava di me – perché riesce a rendere continuamente presente qualcosa che è avvenuto e anche quello che non è avvenuto, lo riporta in presenza» e poi, una settimana prima che mi arrivasse la telefonata per fare il provino con Nanni Moretti, mi disse «Daria, torna a fare l’attrice, non che tu le altre cose non le sappia fare, ma lì c’è una tua specificità». Tutto questo ha a che fare con “la presenza” e ci abbiamo lavorato tanto… con Lucia Calamaro, Fabrizio Arcuri, Massimiliano Civica e, al di là dei risultati che siamo riusciti a ottenere, abbiamo sempre messo al centro una questione: quale che sia la forma dello spettacolo, la dimensione performativa – cioè il lavoro sulla qualità della presenza, anche nel riportare una struttura data, un testo – è l’essenza del fare teatro.

Elogio della vita al rovescio. Foto Andrea Pizzalis

Questo concetto è forse l’unica cosa che la mia generazione è riuscita a trasmettere, ed è quello che cerco di trasmettere anche ai giovani che studiano o lavorano con me. Quando ho conosciuto Giulia Scotti, per il  progetto su Han Kang (Elogio della vita a rovescio, ndr), io mi sono riconosciuta in lei, mi sono detta “lei è me quando avevo la sua età” e ho pensato  che per lei potevo essere qualcosa che io a quell’età non avevo ricevuto, perché me l’ero dovuta cavare per altri dieci o quindici anni da sola prima di trovar appigli. Non possiamo cambiare il paesaggio, ma possiamo cambiare le singole esperienze.

Parliamo proprio di questo progetto che ha debuttato al Teatro Basilica nel programma di Short Theatre e che a fine novembre andrà in scena alla Triennale di Milano: quali sono state le difficoltà nel trasmettere un metodo? Ti sei posta il problema del rischio di mettere in scena una copia di te stessa?

Rzeczy/Cose / 2011. foto Cristiano Morati

Bisogna rischiare, certo. Il più grande rischio di quel lascito generazionale di cui parlavamo sta nel fatto che alcune volte quell’approccio viene scambiato per naturalismo. E lo vedo quando giovani e meno giovani sembrano voler attraversare la nostra strada ma la fraintendono perché pensano che sia qualcosa che abbia a che fare con l’improvvisazione o la spontaneità. Io nella mia lunga esperienza di lavoro con Antonio, ma già nel periodo in cui ho cominciato a lavorare con Arcuri su Martin Crimp, non ho mai lavorato in quella direzione, non era la naturalezza o la spontaneità a interessarci. C’era invece e c’è ancora un lavoro continuo per (ri)presentarsi, per essere presenti di nuovo ribaltando il senso stesso della parola rappresentazione.

Giulia Lazzarini in una scena della Tempesta, 1978, foto giorgiostrehler.it

È un lavoro infinito che si espone al rischio molto alto che quello che stai cercando non si verifichi. Lo spettacolo accade tutte le sere, il teatro appare ogni tanto, afferma Claudio Morganti. E per quello che riguarda Giulia Scotti, certo, hai colto il rischio, ma è un rischio condiviso e ci siamo dette che era un passaggio obbligato, io sono convinta che Giulia abbia una sua artisticità che non ha nulla a che fare con me per fortuna, perché il nostro è stato un incontro e non un rapporto unidirezionale. Non volevo parlare di me in questo nuovo lavoro, ma neanche di lei, non volevo fare con lei quello che facevo con Antonio, quella era un’esperienza che potevo avere solo con lui, non so dirlo in un altro modo. E da qui il tentativo di non usare la biografia in modo esplicito, ma di trovare un legame con la scrittura di Han Kang che potesse diventare un fulcro. Anche perché il mio orizzonte è quello di arrivare il prossimo anno a mettere in scena La vegetariana con Monica Piseddu, Gabriele Portoghese, Paolo Musio con l’obiettivo di rispettare il più possibile il testo.

Wielopole Wielopole, 1981, Foto Adam_Hay

Quali sono stati gli attori e le attrici che ti hanno folgorato e fatto intuire qualcosa del mestiere e quali gli spettacoli per te seminali?

Ce ne sono state tante di attrici, ma il primo nome che mi viene in mente è quello di Giulia Lazzarini: ero ragazzina quando vidi il suo Ariel nella Tempesta di Giorgio Strehler e mi folgorò per la sua mitezza, mi colpì questa possibilità di essere così luminosa senza essere guitta ed è una persona alla quale – nonostante la distanza – mi sono sempre sentita legata. E poi, completamente opposta, Gena Rowlands. Quando ho scoperto il cinema di John Cassavetes ho scoperto anche l’amore per lei: l’esplosione, la sregolatezza, il gioco, la buffoneria, adoro certe iper-espressioni di Gena Rowlands. Per quello che riguarda gli spettacoli, non posso non citare Wielopole Wielopole di Tadeusz Kantor, ero giovanissima, non conoscevo nulla, venivo dal Trentino. E quello che mi colpì fu che in sala vedevo questo omino che aggiustava la scena e pensavo fosse un lavoratore del teatro: ero andata a Milano, al Teatro dell’Arte con il mio ragazzo dell’epoca e prima dell’inizio dello spettacolo non riuscivo a parlare con lui perché ero ipnotizzata da quell’uomo che spostava gli oggetti in scena e lì mi si è aperto uno squarcio perché quando si sono abbassate le luci in sala ho pensato “oh no, hanno dimenticato l’omino in scena”, poi lui lentamente ha cominciato a sistemare la propria memoria, a quel punto non erano solo gli oggetti ma anche le persone, i soldati e ho capito. Ecco, lì, credo, sia nato il mio teatro; anche se non sono riuscita a farlo per tantissimi anni e ancora oggi cerco solo di avvicinarmi, però per me è tutto lì, cercare di essere dentro e fuori, portare la propria memoria e il proprio immaginario senza però chiudersi, senza escludersi.

Andrea Pocosgnich

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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