| Cordelia | ottobre 2023
Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.
Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo.
#MILANO
“M” (di Marie Chouinard)
In M di Marie Chouinard, presentato a ottobre al Festival MilanOltre nelle sale del Teatro Elfo Puccini, il respiro si cala da una dimensione strettamente naturale/vitale ad una artisticamente genitrice: è il respiro a informare il corpo, a disegnare nell’aria un riverbero ritmico incarnato dai dodici performer sul palco. Di quel respiro – sospirato, acuto, sospeso strozzato, tanto singolo quanto collettivo – ne viene estratta la traccia sonora, ora ripetuta ora amplificata nelle partiture vocali pensate da Chouinard, con l’accompagnamento delle musiche di Louis Dufort. Le coreografie partono proprio da quel suono, registrato accuratamente da Vincent Blain: da una scenografia lattiginosa che sembra fuggire i confini e gli orizzonti, si muovono inizialmente quattro performer, figure nitide e dai colori sgargianti sullo sfondo neutro del suono materico della pioggia. Il microfono posto in una posizione avanzata verso il pubblico ne diviene direttrice degli assoli, i quattro artisti vi si avvicinano per compiere quella partitura vocale di vibrazioni-sospirate, dando principio al virtuosismo dei corpi. In risposta, il palco si abita di altri performer, tutti legati da una connessione ritmica e un filo invisibile ne cuce la carica dei gesti, che alternano fluidità a momenti più meccanici, potenziati da un efficacissimo gioco di colori e di luci. Il light design, sempre di Marie Chouinard, manifesta un’attenzione precisa della regista e coreografa che dirige lo spettacolo con uno sguardo plurimo e dinamico, perché si muove dalla danza alla performance, dall’arte ad una concezione architettonica dello spazio, in un intreccio stratificato che crea un’esplosione di immagini ed echi acustici. Il risultato è una commistione di linguaggi davvero interessante, modulati attraverso un gioco artistico e uno slancio vitale destinato a ripetersi ancora nella mente dello spettatore. (Andrea Gardenghi)
Visto a MilanOltre, Teatro Elfo Puccini, Milano. Crediti: coreografie e partitura vocale Marie Chouinard, con la partecipazione degli interpreti Carol Prieur, Valeria Galluccio, Motrya Kozbur, Paige Culley, Clémentine Schindler, Luigi Luna, Jossua Collin Dufour, Adrian W.S. Batt, Celeste Robbins, Michael Baboolal, Rose Gagnol e Scott McCabe, musiche Louis Dufort, luci, set design, costumi e parrucche Marie Chouinard, trucco Jacques-Lee Pelletier.
I PROMESSI SPOSI ALLA PROVA (di Giovanni Testori, regia di Andrée Ruth Shammah)
Per celebrare il doppio anniversario, i 100 anni dalla nascita di Giovanni Testori e i 150 dalla morte di Alessandro Manzoni, Andrée Ruth Shammah riporta sul palco del Piccolo Teatro di Milano I promessi sposi alla prova attraverso un riadattamento dello spettacolo di Testori. Riprendendo le parole della regista scritte nelle note di sala - «la mia vocazione come regista era quella di sviscerare un testo fino allo sfinimento per trovare nella recitazione degli attori il significato di una battuta, di un sentimento, di un pensiero» - troviamo con successo un’unità di intenti con la direzione stessa impartita da Testori negli anni in cui lo spettacolo andò in scena. Dunque, un’attenzione raffinata nell’uso della parola, una passione per la lingua e uno scavo profondo nella caratterizzazione dei personaggi che sembrano riprendere vita sul palco del Piccolo senza tuttavia subire il passaggio del tempo. La storia manzoniana riacquisisce quindi nella regia di Shammah tutta la sua forza narrativa, i personaggi di Renzo e Lucia rivivono una nuova e fresca giovinezza nei corpi degli allievi Tobia Dal Corso Polzot e Aurora Spreafico, la monaca di Monza si carica di una struggente e lugubre drammaticità, intensificata dall’esperienza scenica di Francesca Fracassi, Vito Vicino è un Don Rodrigo garzone e famelico, Giovanni Crippa (all’epoca di Testori interpretava Renzo e l’allievo nella messinscena) è un appassionato Maestro e un vile Don Abbondio, Rita Pelusio una vivacissima Perpetua. Sullo sfondo di un’unità di luogo, una sala di prove dismessa e continuamente agita dai personaggi per modularne gli spazi e gli oggetti scenici, l’opera di Manzoni torna ad abitare la riscrittura piena di vitalità di Testori, ripartendo dalla frase cardine da cui tutto ha avuto inizio e rievocandone l’importanza segnica, la genesi linguistica, la sonorità musicale interna: quel ramo de Lago di Como... È da quel ramo, che inizia ancora una volta la storia. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Piccolo di Milano, Crediti: di Giovanni Testori, regia Andrée Ruth Shammah, con Giovanni Crippa, Federica Fracassi, e con Tobia Dal Corso Polzot, Rita Pelusio, Aurora Spreafico, Vito Vicino Crediti completi
#FOLIGNO
OLTREPASSARE (di Silvia Dezulian e Filippo Porro)
Di fronte ai cancelli dell’ex zuccherificio di Foligno, c’è un capannello di una ventina di persone, con indosso i vestiti improvvisati per questa mezza stagione che mezza non è. Ci siamo ritrovati sul bordo di una piccola strada cementata che, come una striscia grigia che si impone nel verde, costeggia l’alveo del fiume Topino. È il primo pomeriggio dell’anno in cui l’aria somiglia, con vaghezza, a quella autunnale. Silvia Dezulian e Filippo Porro ci attendono, poco più avanti. Entrambi portano abbigliamento tecnico e, sulle spalle, una struttura cava (un po’ zaino, un po’ gerla, un po’ strana voliera) dalla quale pendono fotografie seppiate di montagne, piccoli attrezzi arrugginiti, cartine d’altri tempi. La soglia da oltrepassare, si suggerisce, potrebbe essere temporale, oltre che spaziale. I luoghi compaiono subito, ai primi passi, in forma acustica. Grazie all’impianto audio (gli zaini sono anche “sculture sonore”), l’avanzare dei due interpreti è ri-significato e al loro movimento sull’asfalto e sull’erba corrisponde lo scricchiolio, familiare e soppesato, dei passi sulla neve. La tecnologia è così semplice da lasciarsi dimenticare, ma l’infrazione tra segno visivo e sonoro evoca una profonda sensibilizzazione dell’atmosfera, un sentimento leggero, di straniamento, benevolo e piano ma perdurante. La partitura di gesti – danzanti, aerei ma anche “mimetici” (fino al “climbing orizzontale”, che chiede agli spettatori di farsi, sul selciato, prese di arrampicata) – si apre al rivelarsi della funzione materiale e del significato spirituale della presenza dell’altro: appiglio fisico, sodale, testimone, interprete dello stesso movimento, specchio, osservatore. Buzzati, grande amante della montagna, nel 1963 annotava dell’esistenza di un ulteriore, tutto umano, di una tensione amorosa, implicata al paesaggio, al nostro attraversarlo: «quanto meschina sarebbe, di fronte a un grande spettacolo della natura, la nostra esaltazione […] se riguardasse solo noi e non potesse espandersi verso un’altra creatura». Si tratta di una riconsiderazione dei luoghi, della vicinanza a essi e tra noi, costellata di soglie, di passaggi, di violazioni improvvise, di ruoli inaspettati che finiamo per assumere e dismettere entro l’incedere dell’altro. A fermarci è la pioggia. Come un torrente, finalmente inevitabile, si rovescia con violenza, prevaricando la nostra delicatezza, costringendoci a riparare in fretta, in qualche esile anfratto dell’anfiteatro nel parco fluviale. (Ilaria Rossini)
Visto a Umbria Factory Festival – ideazione di Silvia Dezulian, Filippo Porro, Martina Dal Brollo, Gabriel Garcia; Crediti completi
DANZA CIECA (di Virgilio Sieni)
Le penombre dell’Auditorium di Santa Caterina aiutano l’accesso a una dimensione claustrale, a un raccoglimento attento. Sul pavimento, la scena è costituita da alcuni fogli di cartone fissati con lo scotch carta. Virgilio Sieni e Giuseppe Comuniello si presentano al nostro sguardo con leggerezza e con un passo naturale, eppure in qualche modo ieratico. Fin dal titolo, la prima evidenza con la quale siamo chiamati a fare i conti è il fatto che il senso sovrano esercitato dal pubblico, quello dello sguardo appunto, sia assente in scena. La cecità di Comuniello è il varco, dischiuso da Sieni, a una percezione poetica altra, a una spazialità e a una ricettività dense di aura. Vi è una profonda attenzione al tatto, come possibilità che soccorre e ridetermina la qualità della relazione tra i corpi, ma anche a tutto ciò che prelude all’occorrenza del tocco e a tutto ciò che permane oltre tale occorrenza. Con procedimento quasi scultoreo – «la materia è estratta dalla densità dello spazio» si legge nell’omonimo libretto, scritto da Sieni, edito da Cronopio – la ricerca sul gesto si dispone su frequenze e risonanze che, sì, chiamano in campo l’immaginazione ma non soltanto, e non soprattutto, quella visiva. I suoni, quelli organici prodotti dai corpi a contatto tra di loro o con la materialità del cartone (e, in un quadro magnifico, dell’argilla) e quelli elettronici, sintetizzati dal vivo da Spartaco Cortesi, consentono di radicare la percezione, di offrirle un tenue tracciato di comunanza. La condizione incomprensibile della non vedenza, invece, sembra spalancare le possibilità del movimento di approfondire se stesso, di ispezionarsi, nelle sorgenti, nelle mutazioni, nei presentimenti, nell’ascolto accogliente e abissale dello spazio che fende, e della vicinanza dell’altro. È forse in questa tensione, in questa dedica all’altro (determinata da una vicinanza estrema, in disarmo, che non si confonde però alla somiglianza) che si raccoglie l’esito più alto di un’intenzione coreografica che distende in visioni, a privilegio di chi assiste, un nucleo emozionale nascosto, quasi un cumulo di percezioni segrete, investigate in un tempo lungo e in altrove intimo. (Ilaria Rossini)
Visto all’Auditorium Santa Caterina – Umbria Factory Festival 2023. Crediti: coreografia di Virgilio Sieni; con Giuseppe Comuniello e Virgilio Sieni; assistenza artistica di Delfina Stella; musiche di Spartaco Cortesi; produzione di Fondazione Matera-Basilicata 2019 e Compagnia Virgilio Sieni.
#ROMA
BENVENUTE STELLE (di Eleonora Danco)
Io, che non sono romana, non avevo sentito né mi era stato mai rivolto prima l’epiteto “stella”, che più che essere vezzeggiativo, sembra perlopiù assumere altre sfumature, dalla compassione alla derisione. Sbagliando fermata, chiesi una volta all’autista di potermi far scendere, mi rispose: “aho, benvenuta, stella” con chiaro sfottò e passando dritto. Penso anche a quell’episodio, mentre osservo l’ultimo spettacolo di Eleonora Danco, autrice, regista, interprete (assieme a Federico Majorana) dello spettacolo Benvenute stelle, visto al Teatro India. Gli astri del titolo sono solitudini in bilico, esistenze ai margini di una vita spesso toccata dalla miseria e dalla violenza; storie che hanno un carattere quasi documentaristico, nella cifra stilistica tipica di Danco, che riporta sulla scena senza molti orpelli (un disegno luci netto segna alcuni punti di luce nel nero del resto) degli assoli di diversi personaggi. La scrittura varia da quadri e momenti più spiccatamente poetici, in cui assonanze e rime dettano il ritmo ancor più che i sensi, ad altri invece più narrativi, tra narrazioni quotidiane, in cui il racconto in prima persona è volto a una scoperta progressiva. Piccoli criminali, gente che si è ripulita, spacciatori in carcere, madri di tanti figli, ragazzini che sentono di avere la città sotto al loro dito: sono queste le voci che si prestano, e i due attori le restituiscono con precisione e il giusto pathos (tant’è che all’inizio parte un primo applauso, che poi il pubblico replicherà dopo ogni assolo anche a discapito di una possibile continuità scenica), pochi movimenti funzionali per un racconto che ha bisogno di voci, corpi e dell’ascolto. Senza giudizio ma senza nemmeno giustificare, le stelle di Danco hanno però così una voce. “La gente è cattiva”, dicono a un certo punto, specialmente chi si gira dall’altra parte. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro India, scritto e diretto da Eleonora Danco | con Eleonora Danco e Federico Majorana | costumi Alessandro Lai | disegno luci Eleonora Danco | si ringrazia per la scelta delle musiche Marco Tecceaiuto regia Giacomo Costa | assistenti volontari Alice De Luca e Manuel Valeri | foto di Francesca Tecce !foto di scena di Claudia Pajevski
FREEVOLA (di Lucia Raffaella Mariani)
Al centro di Villa Bonelli c’è un piccolo tendone da circo, qui Dario Aggioli, vero e proprio agitatore teatrale dell’underground romano, ha impiantato una rassegna, Sciapitò, in cui ogni giorno si alternano artiste e artisti del panorama teatrale contemporaneo, alcuni affermati, altri giovanissimi. Tra questi ultimi la ventiquattrenne Lucia Raffaella Mariani con uno spettacolo che facilmente potrà girare numerose piazze. Mariani si situa, con abilità e rigore, all'incrocio di diverse modalità e generi: si presenta in scena con un body e delle culotte contenitive - perché senza non se la sentiva -, l'acconciatura appena fatta, le labbra rosse, in scena giusto una sedia e un microfono e poi tante rose lasciate al pubblico, da lanciare nel caso in cui spettatrici e spettatori sentissero un incondizionato sentimento di amore per la protagonista; dunque inizialmente pensiamo di assistere alla versione classica di un cabaret con personaggio in cui l'ambientazione è quella di un ipotetico talent, naturalmente Mariani si rivolge a noi come se fossimo la giuria. Lentamente però si scivola nei territori di una stand-up comedy più ragionata, la leggerezza ancora è il motore della performance ma il pubblico è messo nelle condizioni di riflettere, di confrontarsi con l'autoanalisi di questa ventenne che non riesce a vivere senza un segno di approvazione dagli altri, soprattutto dagli uomini. Le cosce troppo grandi per gli standard, i chili da buttare giù per l'agente, l'invidia per le ragazze magre che dunque sono più vicine a l'ideale altissimo di bellezza. Ridendo e scherzando lentamente l'autrice ci ha trascinato in un'impietosa camera delle angosce di oggi, Mariani ha un talento cristallino, una presenza carismatica e una scrittura efficace: è arguto il passaggio in cui fluidamente l'obbiettivo si sposta, dalle donne agli uomini, è il tentativo di primeggiare di fronte allo sguardo maschile la radice della questione. E noi uomini cosa ne pensiamo? Mariani sembra quasi indicare l'unica soluzione possibile: farla finita con il giudizio e la competizione, e dunque anche con chi dall'altra parte non cerca altro se non un paio di cosce perfette. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Sciapitò, Villa Bonelli di e con Lucia Raffaella Mariani consulenza alla regia e alla drammaturgia Lorenzo Maragoni consulente al movimento scenico Erica Nava una produzione Trento Spettacoli con il sostegno di Potenziali Evocati Multimediali
CA-NI-CI-NI-CA (di Greta Tommesani)
Greta Tommesani è un’artista atipica, con una laurea in cooperazione internazionale, dunque al netto della poca esperienza teatrale (ha appena 28 anni) in questo CA-NI-CI-NI-CA, che ha debuttato nel contenitore Ref di Anni Luce, è evidente il campo di azione derivato anche dagli studi e dall’esperienza lavorativa. In uno spazio completamente bianco e plastificato la protagonista sistema alcuni pomodori ai lati del perimetro, sembra ogni volta misurare lo spazio attorno ad essi anche rispetto al proprio corpo, alle mani, sono gesti che si ripetono, finché tutto il pubblico ha preso posto. Pomodori e lavoro, questi sono i due oggetti sociali e fisici che occupano il luogo scenico e drammaturgico: quanto vale il nostro tempo? Quanto veniamo pagati per il tempo che prestiamo? Formalmente lo spettacolo è un alternarsi di discorsi al pubblico, dialoghi con l’altro autore (Federico Cicinelli, che siede lateralmente dietro un tavolo di regia), video e testi proiettati. Il cuore sembra essere lo sfruttamento dei braccianti nella filiera del pomodoro, ma cosa accade quando cominciamo a indagare altri ambiti lavorativi apparentemente lontani? Greta spiega i meccanismi che sottendono alla trasformazione industriale del pomodoro, evidenziando quanto il peso specifico della Gdo influenzi gran parte dell’andamento dei prezzi e dunque la dispersione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici (soprattutto migranti), ma in un successivo video, in cui la stessa artista interpreta un bracciante a cui è stata rivolta un'intervista, viene superato il paradigma. L'intervistatore è un videomaker, uno dei centinaia a Milano, il bracciante ribalta i ruoli e gli chiede come invece lui se la passi, se anche i video maker possano unirsi e lottare per i propri diritti. Il lavoro di Tommesani merita attenzione ma anche un maggiore rigore drammaturgico, una messa appunto registica che definisca meglio i ruoli e la scrittura scenica. (Andrea Pocosgnich)
Visto alla Pelanda, Romaeuropa Festival Progetto vincitore di “Animali Teatrali Fantastici & Dove Trovarli” Progetto vincitore Powered by Ref 2022 Progetto vincitore Bando Cura 2023 con Greta Tommesani e Federico Cicinelli drammaturgia e messa in scena Greta Tommesani e Federico Cicinelli con la collaborazione di Daniele Turconi cura del movimento Beatrice Pozzi e Angela Piccinni scene Rosita Vallefuoco luci Raffella Vitiello suono Jacopo Ruben Dell’Abate produzione Cranpi, 369gradi e Romaeuropa Festival
A.L.D.E NON HO MAI VOLUTO ESSERE QUI (di Giovanni Onorato)
Giovanni Onorato si presenta, alla sua sinistra tra strumenti e mixer Mario Russo. Alla destra dei due performer lo spazio è chiuso da una serie di fari, diverse altezze per un plotone di luce che sparerà all’occorrenza. Cammina su un terreno scivolosissimo questo lavoro dell’artista romano, primo debutto della rassegna Anni Luce ospitata da Romaeuropa e curata da Maura Teofili, il terreno è quello della relazione dell’opera d’arte con la realtà e l'autobiografia. Il tema è centrale non solo in teatro ma in gran parte della produzione artistica e culturale di oggi. Basta qualche minuto per cogliere alcune interferenze in quella che sembra essere proprio “una storia vera”, piccole cariche esplosive in grado di sovvertire lo stereotipo tentando di spiazzare lo spettatore. Sul pavimento tappeti di fogge diverse e un microfono con asta. Arduino era uno dei migliori amici di Giovanni ed è morto gettandosi sotto un treno in corsa. La drammaturgia si muove inizialmente tra il racconto della vita del giovane suicida, le riflessioni apparentemente estemporanee dell’attore e la lettura delle poesie lasciate da Arduino su una serie di quaderni colorati sistemati ordinatamente, come reliquie, al centro della scena. C’è la vita inquieta di un adolescente estremo, radicale nelle scelte nelle azioni: l’attivismo ecologista, l’amore libero; Arduino era a una figura oppressiva, rabbiosa per paura della solitudine. Una melodia cresce, si prende lo spazio: i demoni di cui si nutrono queste poesie sono di Giovanni o di Arduino? Tutto fugge dalle mani, anche i temi, quando sembrano epocali, scivolano via tra un rap e uno spoken word. C’è in questo lavoro una sensibilità musicale potente e poco frequentata in teatro, si sentono gli echi dei Massimo Volume. Ma poi tutto cambia ancora: forse Arduino non è mai esistito, non basterà un detective con tanto di trench e cappello per fare luce su uno spettacolo che, tra ironia e menzogna, intrattiene interrogando un vuoto generazionale. (Andrea Pocosgnich)
Visto alla Pelanda, Romaeuropa Festival Ideazione e direzione di Giovanni Onorato con Giovanni Onorato e Mario Russo musiche di Mario Russo e Lorenzo Minozzi disegno luci Fabrizio Cicero costumi di Ileana Alesi e Chiara Corradini consulenza alla drammaturgia Claudio Larena e Giulia Scotti si ringrazia Daria Deflorian
#FERRARA
INFAMOUS OFFSPRING (Ultima Vez/Win Vandekeybus)
Nel nuovo lavoro di Win Vandekeybus per Ultima Vez, Infamous Offspring, visto al Comunale di Ferrara in prima mondiale, sembra di assistere a un Calasso visualizzato o, per restare ai repertorî rinascimentali, un Cartari incorporato e ancóra presente, un reenactment dell’Iconologia del Ripa, se non proprio degli dèi minori del compendio di Boccaccio finalmente restituiti alla vita della loro performance. Il testo, attualizzante ma mai banale, è di Fiona Benson. La mitologia in scena è quella greca, i mezzi sono però assai tecnologici. Ai nove performer si aggiungono due schermi che proiettano i litigi fra Era, dea della fedeltà (l’attrice Lucy Black), e Zeus marito libertino, sessualmente incontinente (l’attore Daniel Copland), al quale soprattutto si deve tale infame progenie. Un altro schermo, questo bianco e nero, proietta gli interventi di Tiresia, interpretato muto (non cieco secondo mitologia) da uno straordinario, imperdibile Israel Galvàn. La trouvaille vale tutte le due ore di spettacolo: visibile solo dal busto, come la Winnie di Les beaux jours, tiene in mano due scarpe i cui tacchi sferrati sugli oggetti circostanti dettano il suono e il tempo del futuro. Tra gli infami che invece si dibattono sulla scena c’è Ares (che combina guai da quando ancóra non camminava), Efesto (lo storpio storto e contorto, qui nel corpo della incredibile contorsionista e pittrice Iona Kewney che produce anche continui disegni in cerca disperata di amore), Venere (che da sempre è considerata una bambola a grandezza naturale), Apollo (bello e nero come l’Arthur Mitchell di Balanchine), Callisto (stuprata da Zeus nelle sembianze della figlia), e Dioniso (un po’ baraccone perché duplice e senza misura), fra altri ancóra. Le passioni vili, le basse gelosie, le feroci avidità, nei movimenti aggressivi e animaleschi degli instancabili e pure ironici performer, sono già proprio quelle di tutti noi, impossibile non ritrovarsi. Un perentorio monito che ricorda da vicino il famoso brano dei The Smiths, Barbarism Begins at Home. (Stefano Tomassini)
Visto in prima mondiale al Teatro Comunale di Ferrara | regia e coreografia Wim Vandekeybus, creato con ed eseguito da Iona Kewney, Maria Zhi Tortosa Soriano, Lotta Sandborgh, Cola Ho Lok Yee, Samuel Planas, Rakesh Sukesh, Paola Taddeo, Adrian Thömmes, Hakim Abdou Mlanao, testo Fiona Benson, musica Warren Ellis/Dirty Three, ILA, costumi Isabelle Lhoas, scenografia Wim Vandekeybus,
#PALERMO
W. PROVA DI RESISTENZA (di Beatrice Baruffini)
Quest'anno è giunto alla sua ottava edizione il festival palermitano Teatro Bastardo. Secondo gli intenti delle curatrici Flora Pitrolo e Giulia D'Oro, la manifestazione ha posto l'accento su una questione assolutamente contestuale: il rapporto tra corpo individuale e corpo collettivo, analizzato alla luce della nozione brechtiana di gestus quale punto di relazione visibile tra arte, storia e realtà sociale. Un nodo nevralgico, al quale tornare contro il ripiegamento sull'individuale spesso espresso da forme artistiche autoreferenziali, troppo comodamente distanti da una presa di posizione politica. W (Prova di Resistenza), di e con Beatrice Baruffini, già premio Scenario nel 2013, è una storia di resistenze e Resistenza costruita in scena – letteralmente costruita. La "prova" cui allude il titolo è il metodo usato per testare la solidità dei mattoni forati, sottoponendone i lati a un carico di peso sempre maggiore: W è il racconto di una comunità fatta proprio di mattoni resistenti. Sul palco i laterizi formano dapprima un tappeto compatto; attraverso movimenti precisi, sviluppati in una connessione quasi dialogica con gli oggetti, Baruffini restituisce loro un volto, un nome, addirittura una caratterizzazione. Sono uomini e donne comuni, poveri impasti di terra e polvere; sono anche blocchi neri, verticali come totem nel costituire una squadraccia. Le loro vicende scorrono senza cedimenti in una narrazione precisa, accurata: la voce di Baruffini taglia gli episodi come una lama, senza mai scadere in un'asettica ricostruzione cronachistica. In sprazzi di malinconica poesia, l'osservatore è posto davanti alla rievocazione di quel tempo straordinario in cui storia e Storia coincidono in un solo punto. Parola e gesto della performer animano i mattoni, umanizzandoli sino a renderli veri e propri soggetti di scena – ricordiamo le esperienze di Baruffini con Gyula Molnar. Sui laterizi l'interprete riesce a estendere il dinamismo plastico del proprio agire e crea situazioni addirittura filmiche, in qualche misterioso, miracoloso modo legate a un immaginario neoralista. La resistenza alle squadracce guidate a Parma da Italo Balbo è un'architettura fatta del contributo di "donne e uomini tutti d'un pezzo": ma sono tante e tanti, e il numero è potenza. (Tiziana Bonsignore)
Visto alla Chiesa di San Mattia ai Crociferi, Festival Teatro Bastardo 2023. Crediti: di e con Beatrice Baruffini tecnico Riccardo Reina disegno luci Emiliano Curà montaggio audio/suono Dario Andreoli. Foto di Stefania Mazzara
#ROMA
L’ULTIMO SPETTACOLO DI WERNER FINCK (di Xhuliano Dule)
Siamo al Tordinona, teatro storico tra quelli romani sotto i cento posti, tra l’altro da poco ristrutturato omaggiando l’origine secentesca del primo Tordinona. Sul palcoscenico pochi oggetti illustrano un interno della prima metà del Novecento, un uomo giovane risponde al telefono interrompendo la routine mattutina della rasatura, ha ancora la crema da barba sul volto: «Uno spettacolo tra due giorni? Al Gran Teatro di Berlino? Io? Ma lei lo sa chi sono io? Certo che lo sa, altrimenti non mi avrebbe chiamato. Nonostante lei sappia chi sono mi vuole al Gran Teatro di Berlino, Ah. Senta, non vorrei risultare inopportuno… Signor? Goebbels?». L’ultimo spettacolo di Werner Finck è una piccola scoperta, per l’interpretazione naturalissima e inappuntabile di Simone Corbisiero e il testo di Xhuliano Dule - che sembra ritagliato sul corpo, le indolenze e il cinismo pulito dell’attore - ispirato al personaggio realmente esistito nella Germania del Terzo Reich (trovato dall’autore tra le pagine di Ridere rende libri di Antonella Ottai). Dule è un trentenne nato in Albania e già affermato nel giro della stand-up comedy, anche televisiva, ecco spiegata la capacità della drammaturgia di muoversi su una frontalità sfacciata, di destreggiarsi in un immaginario sul quale raramente si ha il coraggio di ridere. Il sottotitolo della pièce già finalista al Fringe di Roma, diretta da Emilia Agnesa e Bianca Mastromonaco è in questo senso molto esplicativo: “ma di cosa ride un nazista?”. La questione si fa interessante quando il pubblico inizia a percepire che forse questa domanda è rivolta a noi, spettatori di oggi - di cosa possiamo o non possiamo ridere? Meriterebbe spazio questo lavoro e forse anche una messa a punto ulteriore per rafforzare quel gancio con il presente. Ma la scrittura è già apprezzabile e in grado di coinvolgere sorprendendo, come nel caso della lunga storia del baffo di Hitler, per la quale il protagonista inventa un’origine rocambolesca, ovvero l’infarto di un barbiere. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Tordinona Testo di Xhuliano Dule Regia, Messinscena e Disegno Luci di Bianca Mastromonaco ed Emilia Agnesa con Simone Corbisiero
MOLTO RUMORE PER NULLA (regia di Tommaso Capodanno)
Benché presentato come esito finale del progetto pedagogico “Classico in scena: Shakespeare” del corso di perfezionamento per attrici e attori del Teatro di Roma, Molto Rumore per Nulla è uno spettacolo solido e a ben diritto nel cartellone del Teatro Torlonia. Fresco, corale, originale, l’adattamento della tragicommedia shakespeariana è ottimamente attuale, privo di forzature o ammiccamenti. Una media veramente alta di talento e capacità tecnica tra i tanti giovani interpreti anima una lingua anch’essa rinfrescata da una nuova traduzione (a firma di Tommaso Capodanno e Matilde D’accardi). Questa non presenta alcuna traccia di rivendicazione contemporanea, ma lega fluidamente le maglie della trama alle poltrone, senza rinunciare alla ricchezza del gioco linguistico originario. L’impianto registico di T. Capodanno non si giova di alcun elemento scenografico, ma è retto completamente dalla dinamica attoriale e sfrutta a 360 gradi lo spazio sontuoso del Torlonia. Si insiste su un’efficace prossimità e complicità con la platea, agganciata fluidamente nei codici scelti tanto a livello di distribuzione (alcuni personaggi, come Leonato, cambiano di genere senza forzature di senso) quanto rispetto ai costumi (siamo a Messina, vicini al mare: una festa in maschera non può che diventare una festa in costume da bagno). La recitazione, che potrebbe soffrire di accademismi, ne sfrutta l’efficacia sporcandola col gioco serissimo, il canto, l’energia e la generosità degli interpreti. La schermaglia amorosa, il soliloquio arguto, le venature di tragico nell’intrigo della commedia: tutti gli elementi di una delle opere del Bardo più rappresentate si ritrovano a vivere in nuova eppure naturalissima veste. Quel nulla del titolo, proposto come una “cosetta da niente”, diventa allora anche indizio di maniera: la solidità del mestiere che non si prende sul serio e perciò restituisce verità al teatro. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Torlonia. crediti: di William Shakespeare. Traduzione e adattamento Tommaso Capodanno e Matilde D’Accardi. Regia Tommaso Capodanno. Con Nicolò Ayroldi, Greta Bendinelli, Giuseppe Benvegna, Roberta Catanese, Irene Ciani, Renato Civello, Chiara Davolio, Eugenia Faustini, Carlo Golinelli, Francesco Maruccia, Arianna Serrao, Sara Setti, Martina Tinnirello. Foto di scena Claudia Pajewski
HO MOLTO PECCATO: I. PARLO (di Paolo Costantini)
Tre figure femminili (o una sola?) si muovono in uno spazio asettico. Delimitano il perimetro del pavimento bianco con un liquido versato da taniche di plastica. La prima immagine incendiaria mette da subito in stato d’apprensione chi guarda. Lo spettacolo, vincitore della prima edizione del premio di produzione “Silvio D’amico Alla regia” istituito dall’omonima accademia e dal Romaeuropa Festival, è un excursus performativo ispirato alla vita di Santa Caterina da Siena. La sua storia mistica coincide con la volitiva rivendicazione della propria libertà, della propria voce, passando per la negazione del corpo. Il cuore del lavoro è dunque la mortificazione del corpo come percorso di liberazione. La conquista di uno spazio di espressione passa per un’escalation di dolore: vestite di nero dalla vita in giù, Carolina Ellero, Elisabetta Misasi ed Evelina Rosselli si alternano mute in un rituale di azioni progressivamente più violente servendosi di oggetti di uso quotidiano, casalingo. Al centro, fulcro della scena, una struttura di vetro, prisma che riverbera in differenti modalità l’articolato disegno delle luci. Le attrici, ognuna con la propria fisicità peculiare e una medesima, grandissima abnegazione, si alternano nel sacrificio. Sono l’una il riverbero dell’altra, custodi e carnefici reciprocamente, non si aiutano, ma si comprendono, in una serie di azioni continuamente aperte e interrotte, sempre più perturbanti. Nel gioco di liquidi che avvelenano, tubi come cilici, capelli che soffocano, la lunga sequenza muta culmina in un crescendo forsennato, sostenuto dall’incalzare elettrico di una chitarra punk: è solo allora che dai corpi esausti delle interpreti sgorga potente la voce: «Sono nata per parlare». Il finale liberatorio permette la rilettura a ritroso dei segni. Tramite quei corpi “afflitti e macerati”, come scrive Santa Caterina stessa, la regia sembra giocare con l’empatia dello spettatore, più che con la sua elaborazione intellettuale, dispersa nella mole di significanti. (Sabrina Fasanella)
Visto al Mattatoio – La Pelanda – Romaeuropa Festival 2023 Progetto di Paolo Costantini, Carolina Ellero, Elisabetta Misasi, Evelina Rosselli. Regia Paolo Costantini. Con Carolina Ellero, Elisabetta Misasi, Evelina Rosselli. Liberamente tratto da “Il numero 22” di Alessia G. Matrisciano. Spazio scenico Alessandra Solimene. Composizione sonora Dario Felli. Disegno Luci Marco Guarrera.
DA QUI IN POI CI SONO I LEONI (di Paola DI Mitri)
Cinquanta giorni e seimila chilometri dal sud al nord Italia: un attraversamento geografico e generazionale sulle tracce dell’impatto dell’uomo sull’ambiente. Da qui in poi ci sono i leoni è la videoinstallazione documentaria di Paola Di Mitri presentata a Romaeuropa festival: un percorso (documentato da Davide Crudetti) di osservazione del presente, di raccolta di materiali d’archivio e di visione sul futuro. Il visitatore è accolto dalle immagini dell’oggi, dapprima panoramiche, poi sempre più contaminate dallo sfruttamento umano, su grandi schermi corrispondenti alle quattro regioni coinvolte (Puglia, Sardegna, Liguria/Toscana e Piemonte). In un angolo della sala è ricostruito un salotto anni ’60 dove una tv a tubo catodico riproduce filmati privati e d’archivio, testimonianze di quel benessere, quella spensieratezza con la quale oggi facciamo i conti meno di quanto faremo domani. L’ultima parte dell’installazione - che non propone un percorso fisso, ma permette di spostarsi liberamente nello spazio e quindi nel tempo – è la più narrativa: ci si posiziona dando le spalle alle immagini del presente per ascoltare in cuffia i racconti dei cittadini che Di Mitri ha raccolto lungo il percorso. L’incontro con le comunità locali, gruppi eterogenei per età – dai bambini di Taranto vecchia agli adulti piemontesi – è un toccante «esercizio di immaginazione collettivo». Dai luoghi dove l’impatto antropico è più allarmante (la Taranto dell’Ilva, il Sulcis, la Val di Susa), la prospettiva sul futuro è deviata da un presente già fortemente compromesso. Ne nascono scenari inquieti, storie distopiche, messaggi dal futuro: la voce, accompagnata da occhi intensi, testimonia un domani che si fatica a immaginare roseo. Ma anche, a volte, barlumi di speranza, visioni di luce. «Chi non crede nel futuro non ne avrà uno», ammonisce una bambina. Il futuro assomiglia sempre di più ai leoni degli antichi cartografi, ma se esercitiamo lo sguardo sul presente e consegniamo le parole giuste al domani, potremmo ancora sperare di addomesticarli. (Sabrina Fasanella)
Visto al Mattatoio | Romaeuropa Festival. Video installazione documentaria di Paola Di Mitri con la creazione cinematografica di Davide Crudetti. Allestimento dello spazio espositivo Rosita Vallefuoco. Field recordings e spazio sonoro Gaspare Sammartano. Suono Jacopo Ruben Dell’Abate. Fotografia Matteo Calore, Davide Crudetti. Assistente di creazione Francesco Meloni. Collaborazione artistica Lorenzo Letizia. Produzione Cranpi con il contributo di MiC – Ministero della Cultura e di Fondazione Compagnia di San Paolo nell’ambito del bando “ART~WAVES. Per la creatività, dall’idea alla scena”.
RICCARDO III (regia di Luca Ariano)
Un’impresa d’altri tempi questa di Luca Ariano che ha prodotto e diretto un Riccardo III in scena per due settimane. Lo spettacolo non è stato allestito in un teatro ma negli spazi di una ex cartiera, Citylab 971, edificio riqualificato nel 2019 e situato al civico 971 di via Salaria, a una decina di chilometri dal centro della città. Nonostante la lontananza il Riccardo III, che vede Pietro Faiella nel ruolo del titolo (oltre che ideatore del progetto insieme ad Ariano), tornerà tra novembre e dicembre con altre due serie di repliche. Ariano ha costruito un vero e proprio teatrino di 60 posti: lo spazio scenico è una scatola sopraelevata e vicinissima al pubblico, qui tutto è bianco. Nel chiarore abbacinante di uno spazio asettico e senza oggetti si muovono i personaggi shakespeariani (indossano i costumi di Elisa Leclè che strizzano l’occhio a immaginari conosciuti come Star Wars). La scena è un cubo le cui pareti si aprono e si chiudono modulando spazi e creando diversi livelli di profondità, fino agli ultimi momenti, in cui lo spazio si contrae quasi schiacciando il protagonista. Il regista nelle note evidenzia come questo luogo sia in perenne movimento, al pari della mente di Riccardo. Ed è suggestivo lo sguardo di Faiella, soprattutto nella primissima scena, negli occhi un maligno ironico alla Carmelo Bene. Il cambio decisivo, e di grande maestria, l’attore lo attua dopo aver preso la corona, qui la cattiveria diviene perdita di controllo, la paura attanaglia il nuovo Re che ormai si sente braccato. Intanto nel bianco della scena porte o pareti si tingono di colori saturati e le musiche sottolineano il precipitare della vicenda mutando il candore sonoro delle melodie classiche in un rock sempre più duro per tornare ad ammorbidirsi con My Way nel finale. Oltre a quello del protagonista da evidenziare il lavoro di Liliana Massari nelle vesti della Duchessa e di Roberto Baldassarri nei panni multipli di Hasting, Calrence e Sindaco. Ciò che manca ancora è una precisione maggiore e una profondità generale nella recitazione che sia al livello dello studio sullo spazio scenico. (Andrea Pocosgnich)
Visto a CityLab971 Credit: di W. Shakespeare Progetto di Luca Ariano e Pietro Faiella Regia di Luca Ariano Adattamento e aiuto regia Natalia Magni- Scenografia Alessandra Solimene- Costumi Elisa Leclè- Luci Max Comincini- Assistente alla regia Tessa Perrone- Responsabile di Produzione Romina Delmonte Produzione Officina Teatrale di Massimo Venturiello Personaggi e interpreti: Con: Riccardo III Pietro Faiella, Clarence/Hastings/Sindaco, Roberto Baldassarri, Elisabetta Gilda Deianira Ciao, Margherita/CittadinaIII Romina Delmonte, Catesby/Sicario I/Cittadino I Luca Di Capua, Anna/Cittadina II Lucia Fiocco, Rivers/Stanley Mirko Lorusso, Duchessa Liliana Massari, Buckingham/Sicario II Alessandro Moser
THE BACCHAE (di Elli Papakonstantinou)
Al cuore di The Bacchae di Elli Papakonstantinou, visto a REF negli spazi dell’ex Mattatoio, il mito classico delle baccanti viene rimodulato in chiave contemporanea e le questioni archetipiche (il polo desiderio/rifiuto dell’ignoto, di un divino come forza liberatrice e però distruttiva) diventano il terreno di battaglia su cui innestare discorsi, prassi ed estetiche a noi più vicine. Di questo Dioniso, “molecola che devia e viola”, che ha pelle dorata ma sembra un rifugiato politico, ci sarà sempre qualcuno che ne avrà terrore, che lo definirà “asteroide in grado di distruggere tutto così come era stato pensato”, mentre per qualcun altro sarà oggetto di brama per cui abbandonare tutto. Agave, Tiresia, Penteo e i due servitori, caratterizzati da identità queer (non sempre giustificate drammaturgicamente), sono figure ricche e apatiche, hanno movimenti esagerati eppure sembrano automi come in un mondo ovattato. La scena – digitale e non – è apocalittica: la tavola immacolata presto si sporcherà di rosso, le immagini astratte proiettate sulle tende ricordano le onde di un sismografo (oggetto che poi si vedrà dal vivo nella scena finale, come a indicare l’attuazione di ciò che era prima solo desiderio in potenza), alcune riprese live mostrano, tramite dettagli, l’indicibile del fuori scena. Le voci – inglese e greco sopratitolati, spesso cantate – si fanno portatrici di una parola che non cerca più il dialogo ma è suggestione o proclama o supplica. La ricchezza di segni e temi rimandano sì alla violenza carnale e alla fluidità di genere già insite nel mito ma questo riaggiornamento rischia di perdersi in una confusione scenica. Se nella versione Euripidea l’arrivo del dio nascosto diventava esternazione del potere della natura, estatica, primigenia, multiforme, qui ci troviamo in un mondo in cui questa forza sembra passata e se ne avverte un’ombra meno incisiva, che si diluisce ulteriormente nel lungo finale performativo. (Viviana Raciti)
Visto alla Pelanda, Romaesuropa Festival. Crediti: Concept / Art Direction Elli Papakonstantinou Text: Elli Papakonstantinou, Chloe Tzia Kolyri, Kakia Goudeli Choreography: SINE QUA NON ART – Christophe Béranger & Jonathan Pranlas / Performers: Ariah Lester, Georgios Iatrou, Hara Kotsali, Lito Messini, Vasilis Boutsikos, Aris Papadopoulos. Leggi tutti i crediti
HO BISOGNO DI SENTIRE QUALCUNO CHE MI DICA CHE STO BENE (di M.T. Berardelli, Regia G. Vezzani)
Quattro donne, un tavolo, un appuntamento. Ho bisogno di sentire qualcuno che mi dica che sto bene è una battuta che decreta il primo dei molteplici ribaltamenti su cui si fonda lo spettacolo diretto da Giacomo Vezzani. Nata dalle improvvisazioni delle quattro interpreti (Elisa Di Eusanio, Giulia Galiani, Valentina Martino Ghiglia e Marta Nuti, notevoli per energia, varietà e qualità delle interpretazioni), la drammaturgia firmata da Maria Teresa Berardelli si incardina sul meccanismo di un gioco paradossale che scombina i piani di realtà, sdoppiando gli scenari. Le protagoniste si incontrano per una cena, ma più che quattro amiche vediamo quattro solitudini tenute insieme da quello stesso caso che, nell’avvicendarsi dei ripetuti black out drammaturgici, assegnerà ad ognuna di volta in volta una diversa versione di una comunque miserabile condizione. Ognuna è per l’altra solo lo specchio delle proprie debolezze, un pretesto per rafforzare la propria maschera, autoimposta e sorda, oppure per disfarsene sfacciatamente e altrettanto sordamente, senza speranza di redenzione, senza ipotesi di salvezza. Eppure la regia sembra indugiare su alcuni aspetti ironico/grotteschi – su tutti l’autoerotismo di uno dei personaggi, inizialmente posto come tema ma poi sviluppato in chiave esclusivamente comica - disinnescando la portata drammatica della vicenda. Emerge una serie di tematiche importanti – la sessualità, la maternità, la carriera, la menzogna, il potere – ma nessuna raggiunge una vera messa a fuoco, producendo una rappresentazione del femminile abbozzata e caotica per quanto sfaccettata. La sequenza finale – un’escalation pantomimica che culmina inaspettatamente in una coreografia su musica - conferma questa volontà, pur incontrando il favore del pubblico: probabilmente persistono tabù apparentemente obsoleti circa il piacere e l’emancipazione femminili, per cui c’è ancora bisogno di vederli messi in scena seppur da uno sguardo ancora una volta maschile. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Basilica. Drammaturgia Maria Teresa Berardelli. Da un’idea di: Di Eusanio, Galiani, Martino Ghiglia, Nuti. Con: Elisa Di Eusanio, Giulia Galiani, Valentina Martino Ghiglia, Marta Nuti. Regia Giacomo Vezzani. Costumi Marta Genovese. Scena Laura Giannisi. Luci Javier Delle Monache. Musiche e suono Vanja Sturno.
BEATI VOI CHE PENSATE AL SUCCESSO… (Gruppo della Creta)
Secondo capitolo di una trilogia dedicata al Sudamerica, Beati voi che pensate al successo noi soli pensiamo alla morte e al sesso si apre con un prologo del regista Alessandro Di Murro. Staccandosi dalla compagnia già in scena all’ingresso del pubblico, prima di lasciare il palco spiega la genesi dello spettacolo avvisando dell’incertezza della sua riuscita. La riscoperta del poco noto autore argentino-italiano J. R. Wilcock ispira un gioco scenico che ha per cardine un grande divano gonfiabile: Di Murro lo presenta risalendone all’etimologia che lo accomuna tanto alla poesia quanto al confine. Tali premesse restano però in qualche modo inevase: come a dare all’operazione un’aura patinata che verrà poi smentita dal lavoro stesso. C’è nella cifra del Gruppo della Creta, dalla scrittura alla presenza scenica, un’ostentata distanza, un aplomb che indugia sull’equivoco tra una lucida alienazione generazionale e una supponente posa borghese. Già il lungo titolo del lavoro, evocazione de “l’angelo custode” Wilcock, contiene entrambe le letture: il progresso del verso originale diventa successo e la parola solo, che presumibilmente in origine è avverbio, diventa soli, aggettivo. Lo spettacolo si sviluppa in tre momenti. Il primo, col divano rivolto verso il fondo del palco, è un agonistico quanto indolente interrogarsi sulla morte. I quattro attori, mai personaggi (Jacopo Cinque, Alessio Esposito, Amedeo Mondo e Laura Pannia) si danno il cambio in un botta e risposta asettico e sempre più frenetico che non lascia spazio all’indugio della confessione. Il secondo momento è un altrettanto alienato gioco sulla scelta: il divano questa volta guarda il pubblico e i posti a sedere su di esso rappresentano il ruolo sociale (ormai obsolete e irraggiungibili eredità dei boomer) messo in palio da una speaker che incoraggia i concorrenti come in un luna park, ostentatamente finto. L’ultimo momento risolve una tensione in verità solo simulata nel più italiano dei modi, con un caffè, dei pasticcini e una chitarra, in un finale alla “volemose bene” ché tanto questo parlarsi addosso non è che un passatempo, un’inutile guerra tra miserabili, lucido e implacabile ritratto di una resa generazionale. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo. Drammaturgia di Tommaso Cardelli, Alessandro Di Murro e Tommaso Emiliani. Regia di Alessandro Di Murro. Musiche originali di Enea Chisci. con gli attori del Gruppo della Creta. Scene di Paola Castrignanò. Costumi Giulia Barcaroli. Assistente alla regia Ilaria Iuozzo.
UNBEARABLE DARKNESS (Choy Ka Fai)
Mentre gli ultimi spettatori ritardatari prendono posto in una delle sale allestite alla Pelanda, per la sezione Digitalive di Romaeuropa, il video ci porta già tra le colline del Giappone, in un cimitero, c’è una lapide con la scultura di un piede, qui abita il corpo di Tatsumi Hijikata, uno dei maestri fondatori del butō. Cambio di ambientazione, siamo all'entrata di uno dei numerosi festival che in Giappone vengono dedicati al culto dei cari estinti. Qui, pagando, è possibile parlare con una sciamana per mettersi in contatto con la persona deceduta. La drammaturgia prende una piega inaspettata: in una assurda ma implacabile scena in video viene intervistata una medium, la quale, diventando portavoce in prima persona dell’artista defunto, non fa altro che dire quanto sia dispiaciuto, perché avrebbe avuto ancora tanto da fare; potrebbe sembrare una bizzarria demenziale - anche se giocata molto seriamente -, fin quando la sciamana comincia a parlare della danza butō come la danza del buio, “il buio è un inferno”, afferma con la consapevolezza di chi conosce intimamente. Due performer in scena: una con una tuta da motion capture e una con una funzione rituale, la seconda canta e si prende cura del rito buddista, perché quello che avviene in scena è una sorta di seduta spiritica che si avvale delle tecnologie digitali e della coreografia live per evocare il maestro. Sullo schermo appare l’avatar del Tatsumi Hijikata e i suoi testi; ”il punto di partenza non era tentare di stare in piedi, ma riuscire a non starci”; appaiono i titoli delle performance originali, gli anni in cui furono create, ma l’obiettivo lentamente lascia il campo documentaristico per entrare in quello della fantasmagoria: Choy Ka Fai inventa mondi digitali fatti di reticoli, immagini saturate, ironiche danze falliche e paesaggi lisergici. Nonostante Unbearable Darkness sia una creazione precedente a Yishun is Burning, vista lo scorso anno, l’artista singaporiano dimostra anche qui di essere una delle menti più innovative e fervide nel campo delle arti performative integrate nei linguaggi digitali. (Andrea Pocosgnich)
Visto alla Pelanda, Digitalive, Romaeuropa Festival Credit: Concept, Documentary and Direction – Choy Ka Fai Choreographic Presence and Paranormal Performance – Tatsumi Hijikata Dramaturgy – Tang Fu Kuen Crediti completi
#CHIUSI
WALKABOUT/PROMENADE (di Sonia Antinori, Lucia Baldini)
E se un viaggio fosse l’origine di altri viaggi? È una domanda che si pone ogni viaggiatore, spinto alla curiosità per l’andare altrove, diventare parte di un luogo, una cultura, farli propri non per mera appropriazione ma per atto di convivenza tra umani. Questo spirito ha mosso Sonia Antinori attraverso tutti i continenti menzionati nei suoi diari di viaggio, confluiti poi nel progetto performativo Walkabout/Promenade, dispositivo itinerante che vede la collaborazione di Lucia Baldini per le immagini e Arlo Bigazzi per la musica, con la regia di Ruggero Franceschini. Si tratta di un meccanismo performativo che prende ogni volta diversa forma perché si innerva, a partire dai racconti di viaggio in Burkina Faso, Cuba, Messico, Australia, alla geografia urbana e non, che si dispiega nei passi e negli occhi dei partecipanti. Ecco allora che il trasferimento di esperienza riesce con coinvolta appartenenza a penetrare il qui e ora, amplificando una percezione in grado di riprodurre contestualmente un altrove di tempo e spazio. Ogni volta la performance si arricchisce dunque di sviluppi imprevisti che, manifestandosi per esempio attraverso il tempo atmosferico, pongono dei problemi da risolvere: non è questo allora viaggiare? Al Festival Orizzonti di Chiusi, la scorsa estate, era previsto in barca lungo il lago, ma la pioggia ha creato il disagio prima e l’opportunità poi di vivere un’esperienza insolita, misurare i viaggi registrati, in ascolto mediante cuffie wi-fi, a un nuovo improvvisato percorso. E così la penetrazione nell’Africa Nera pone di fronte un museo di antichi reperti, la Cuba dei Castro ricalca le geometrie di una piazza del paese, il Messico appare nell’estensione della campagna toscana, l’Australia traspare nei pertugi della cisterna sotterranea risalente ai Romani. Ogni volta, un’occasione, mentre le immagini di Lucia Baldini forniscono come degli appunti iconografici con cui esaltare il senso del viaggio. A me resta una cartolina, ritrae una mano di pelle d’ambra, la osservo tutti i giorni in casa mia. E mi sembra quasi di stringerla. (Simone Nebbia)
Visto a Orizzonti Festival, Chiusi. Crediti: testo e voce Sonia Antinori; regia Ruggero Franceschini; immagini Lucia Baldini; musiche originali Arlo Bigazzi; una produzione MALTE
#SPOLETO
EUCLIDEAN SPACE (di Eden Wiseman)
Lo spazio euclideo è un ambiente della geometria elementare, definito in termini assiomatici, cioè veri per evidenza intrinseca. Sembra dunque delinearsi una sorta di paradosso interno alla poetica di Eden Wisemanm, che sceglie di condurre un’indagine corporale fondata sulla inesausta problematizzazione dell’istanza dell’altro, entro un tale spazio, la cui tridimensionalità e la cui purezza si sostanziano di una tautologia. L’artista palestinese - qui in scena con Alma Maria Simon e Inbar Walter Kalfa -definisce Euclidean space un’installazione performativa, in omaggio a Iannis Xenakis, nuova versione di Xenakis 100, creato nel 2022 in occasione del centenario della nascita del compositore e architetto greco, primo teorico dell’applicazione alla musica delle leggi della probabilità e della logica. È quindi forse da ricercarsi in questo concetto di armonia acustica e plastica, intensa come tensione ma anche come legge, la chiave per avvicinarsi al campo di forze costruito dalle interpreti. Vestite di chiaro e situate su di una scena attraversata in ogni direzione da centinaia di sottilissimi fili di nylon bianco, le tre danzatrici, di continuo, elaborano e disfano le proprie relazioni corporali, quelle reciproche e quelle con l’habitat nel quale si muovono. La consapevolezza della duttilità delle fibre, come della loro resistenza, della malleabilità complessa (plausibile ed “espulsiva” insieme) della materia elastica è acquisita attraverso la messa in gioco del corpo, così come la sentieristica per elaborare il contatto con il corpo altrui, per raggiungerlo, passa attraverso la sperimentazione delle possibilità gesto, nella grazia, nello slancio, ma anche nella brutalità necessaria per fendere una resistenza, o un confine. La qualità della natura umana (come quella delle creazioni umane, come la verità segreta dei materiali) è un processo di decomposizione del nitore apparente, la complessità delle relazioni tiene insieme violenza, desiderio di dissoluzione, quiete, distanza, ritrazione e, nell’impossibilità di governarla, di fissare le sue leggi, si può invece tentare di metterla in scena, in forma di enigma stilizzato e mobile, diagramma sintetico della mutevolezza. (Ilaria Rossini)
Visto a Cantiere Oberdan, Umbria Factory Festival – Crediti: coreografia e installation design di Eden Wiseman; con Alma Maria Simon, Inbar Walter Kalfa & Eden Wiseman; musiche Rebonds B (1987-89) by Iannis Xenakis, Calla album (1999), Low drums and guns Braeker (2021), costumi di Sara Wiseman & GROUND Movement fashion brand; assistenza alla regia di Shai Cohen; consulenza artistica di Shiri Sabach Teicher; produzione LaMaMa Umbria Internasional & ZUT; con il sostegno dell’Ambasciata di Israele a Roma
#FORLI' - #BAGNACAVALLO - Colpi di scena 2023
ALBUM (Kepler-452)
Nel grande hangar dell’ex Atr di Forlì non c’è una vera e propria scena e non siamo disposti in un cerchio ordinato: una libreria con qualche oggetto, dei vecchi tv catodici, un paio di monitor, un tavolo con una consolle audio. Nicola Borghesi, lì in mezzo, comincia a parlare delle anguille: tutti gli esemplari del mondo nascono nel Mar dei Sargassi per poi tornarci a deporre a loro volta le uova. La drammaturgia di Kepler-452 mostra lo stupefacente cammino dei pesci per parlarci di memoria e di Alzheimer: il collettivo bolognese ha vinto un bando europeo che gli ha permesso di implementare una ricerca sul campo, tra le famiglie, i pazienti, dall’Emila Romagna a Budapest. Cosa vuol dire perdere la memoria, non riconoscere gli altri? Cosa accade nelle famiglie? Il nostro narratore riceve una telefonata, si allontana, una camera lo riprende a distanza, un suggestivo ed efficace campo lungo appare nei monitor, la notizia della diagnosi del padre viene recitata con le scritte, come nel cinema muto. Ancora una volta la compagnia formata da Nicola Borghesi e Enrico Baraldi, con la collaborazione di Riccardo Tabilio, riesce a tastare il polso dei nostri giorni, a leggere nel presente, dando un nome alle nostre paure, vivisezionandole ma con delicatezza e rispetto. Borghesi prende degli oggetti, vecchie fotografie - “la riconosci questa persona?”, chiede a uno spettatore? -, gli oggetti rappresentano le nostre memorie fin quando li riconosciamo. "Qual è la canzone preferita di tuo padre?", Chiede a un’altra spettatrice. E quando comincia a sentirsi Dance me to the end of love di Leonard Cohen sorridiamo per la capacità di questo teatro di essere ironicamente umano; potrebbe finire qui e invece c’è ancora il tempo per strappare un’immagine all’ultima alluvione in Romagna, viene svuotato un sacco pieno di oggetti impolverati, brandelli di vita salvati dalla discarica. Ciò che rimane dei ricordi. Nella mente come in quel sacco, dopo un’alluvione. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Colpi di Scena 2023 Ex Atr, Forlì. Crediti: a cura di Kepler-452 (Nicola Borghesi e Enrico Baraldi) in scena Nicola Borghesi con la collaborazione di Riccardo Tabilio ideazione tecnica Andrea Bovaia coordinamento Roberta Gabriele Progetto vincitore del bando Daily Bread nell’ambito del progetto europeo Stronger Peripheries: a Southern Coalition in coproduzione con Pergine Festival, Pro Progressione e L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino
COME HO IMPARATO A NON PREOCCUPARMI E AD AMARE LA RUSSIA (Teodoro Bonci Del Bene)
Tra gli spettacoli visti nei due giorni che abbiamo dedicato a Colpi di Scena, la vetrina organizzata a Forlì e Bagnacavallo da Accademia Perduta, il più sfuggente e difficile da classificare è sicuramente quello di Teodoro Bonci Del Bene, che però è anche uno tra i più interessanti: Come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la Russia, titolo che lampeggia di ironia ma anche di inquietudini contemporanee, di ipocrisie sovranazionali e anche di un triste realismo politico. Bonci Del Bene, è solo in scena, pantaloni e giacchetto nero, un berretto senza visiera ad evidenziare uno stile street, ricercato. L’approccio è quello di una stand-up comedy percussiva, dal tono e dal ritmo martellante. Comincia con un elenco di intellettuali e artisti in esilio, un'intera generazione è dovuta fuggire, anche Ivan Vyrypaev - i cui testi sono stati portati in Italia proprio da Bonci Del Bene - ha rinunciato alla cittadinanza russa dal 2022 per vivere in Polonia. Chi rimane se la deve vedere con il regime, come è accaduto alla regista teatrale Jena Berkovich. In uno dei momenti più toccanti l’attore e regista racconta di alcuni messaggi scambiati con gli ex compagni di accademia - Bonci Del Bene sì è diplomato a Mosca, dove ha passato quattro anni dal 2004 -, questi rispondendo alle domande sulla situazione all’indomani della guerra spiegano come il periodo da loro vissuto in accademia (internazionale e che vedeva convivere russi e americani) sia ormai solo un sogno. Seguiranno le foto di quel periodo, la lancinante malinconia della vita di qualcun altro che rivive per un attimo attraverso vecchie foto: ragazzi e ragazze che si divertono, che studiano in sala. Un mondo inghiottito nella deriva autarchica e violenta di una nazione. Questa linea drammaturgica si dipana parallelamente a quella metateatrale relativa alle messinscene di un giovane artista russo che non vuole piegarsi al regime: ci troviamo un’ironia piacevolmente fuori tempo e fuori dagli schemi. Nel lavoro di Bonci Del Bene il dato biografico si apre alla complessità del reale, ci chiede - e merita - ascolto e spazio. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Colpi di Scena 2023 teatro San Luigi, Forlì. Crediti: di e con Teodoro Bonci Del Bene aiuto regia e aiuto drammaturgia Francesca Gabucci costumi Medina Mekhtieva - video Vladimir Bertozzi foto di scena e locandina Federico Pitto
IO CHE AMO SOLO TE (di Alessandro Di Marco e Lucilla Lupaioli)
C’è qualcosa di originario, una sincerità pungente nella recitazione dei due giovanissimi attori protagonisti della vicenda scritta da Alessandro Di Marco e Lucilla Lupaioli. Sono Riccardo D’Alessandro e Andrea Lintozzi ed è a causa loro se gli spettatori e le spettatrici - soprattutto operatori - hanno dovuto asciugarsi qualche lacrima durante la mattina del secondo giorno della rassegna-vetrina Colpi di scena. La compagnia è la romana Bluestocking, qui prodotta da Società per attori e il testo ha il merito di dare corpo teatrale a una di quelle vicende che spesso occupano la cronaca, ma in questi casi l’arte deve saper guardare dietro agli accadimenti, dentro la vita delle persone, tra i loro sguardi. Cosa c’è prima e dopo il suicidio di un adolescente causato dall’omofobia di amici e compagni di classe? Qui si comincia con il ritorno al passato di un uomo ormai nel pieno della maturità, forse di fronte a una lapide: il suo alter ego adolescente apparirà in scena dopo qualche attimo; siamo a casa di un ragazzo, Niccolò, che ha organizzato una festa sfruttando l'assenza dei genitori; andati tutti via rimarrà da solo con il suo migliore amico, Valentino, finiranno a letto insieme, svegliandosi poi colmi di una nuova esperienza e scioccati dai tanti dubbi. Una volta scoperti dagli amici Vale negherà tutto e da amico e amante si trasformerà in una delle belve del gruppo, Nicco viene picchiato e allontanato, mai più partite di calcio insieme e gite al mare. Lintozzi ha un'espressività non comune, è commovente ad esempio una delle ultime scene in cui il ragazzo prima di abbandonarsi al suicidio immagina il ritorno di Vale. Ma questi tornerà solo molti anni dopo a chiedere scusa di fronte a quella lapide. C’è forse qualche verbosità in eccesso nella scrittura, un impianto registico non sorprendente, con il classico divano come misura dell’interno casalingo, ma Io che amo solo te ha il merito di raccontare una storia piccola, di amicizia fraterna e amore adolescenziale, che diventa lentamente grande e dolorosa tra gli imbarazzi, le battute sceme e gli occhi gonfi di pianto. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Colpi di Scena 2023 teatro San Luigi, Forlì. Crediti: di Alessandro Di Marco e Lucilla Lupaioli con Riccardo D’Alessandro, Alessandro Di Marco, Andrea Lintozzi scene e costumi Nicola Civinini aiuto regia Guido Del Vento light design Sirio Lupaioli foto Marcella Cistola e Simona Casadei regia Alessandro Di Marco produzione Bluestocking e Società per Attori
#PALERMO
FELICIA (di Stefania Ventura e Quinzio Quiescenti)
Il Mercurio Festival, curato da Giuseppe Provinzano, è giunto alla sua quinta edizione. Come in passato, le artiste e gli artisti coinvolti sono stati selezionati da quelli presenti l'anno precedente, secondo il meccanismo democratico e partecipato che rappresenta lo specifico del festival. Nel corso della penultima serata abbiamo assistito a Felicia, di Stefania Ventura e Quinzio Quiscenti. Fingendo di avere poco più di sei anni, ci siamo confuse in una folla vociante di piccoli individui e genitori appena storditi. A differenza dei grandi, bambini e bambine sanno esattamente dove si trovano e per quale motivo: è tutta loro la storia che sta per iniziare. Protagonista ne è Felicia, strega colpevole – secondo gli abitanti del bosco – di minare la serenità di chi vive tra alberi e fronde. L'equilibrio dell'habitat è in pericolo, sospeso nel vuoto come la delicata piuma con la quale il Tasso (Stefania Ventura) danza ondeggiando sulla scena, all'inizio del racconto. Fiaba dolce e amara, Felicia è immersa nel buio di un'ombra densa come la notte, così scura da non permettere di conoscere l'altro e riconoscersi in esso. A rischiararla è una duplice speranza: quella che vive nella voce di Ventura, nei suoi occhi spalancati a sondare cosa si celi oltre il pregiudizio; quella che anima le bellissime luci di Gabriele Gugliara, affilate come se filtrassero attraverso chiome di alberi. Fra questi si consuma, inevitabile, l'incontro. Dapprima è lotta, animata da una poeticità rupestre e dura. Tra versi ferini, il tasso-umano e la strega-marionetta (bellissima creatura di Giorgia Goldoni, sembra uscire dall'universo di Miyazaki) costituiscono un'entità inscindibile. Il corpo di Ventura, abitato dal suo personaggio e dalla marionetta, ne esce duplice; duplici diventano gesti e voce, sostenuti da una delicatezza tenera ma decisa. L'epilogo è lieto, ma non troppo. Come nella vita, anche nel bosco l'amicizia è un rischio: perdersi nell'alterità. Con fiducia. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Mercurio Festival, Spazio Franco, Palermo. Crediti: di Stefania Ventura e Quinzio Quiescenti con Stefania Ventura trainer Quinzio Quiescenti compagnia Quintoequilibrio marionetta ibrida Giorgia Goldoni luci Gabriele Gugliara collaborazione alla messa a punto della drammaturgia Simona Gambaro scene Quinzio Quiescenti Produzione Quintoequilibrio e Teatro Evento
#MILANO
SEMIDEI (di Pier Lorenzo Pisano)
Il dettaglio di un’anfora del VI secolo a.C : finisce con un’immagine la lettura scenica di un estratto di Semidei (edito da Einaudi nel 2023 assieme ad un altro testo, Per il tuo bene). Pier Lorenzo Pisano la usa come una lamina, che agisce nella memoria visiva dello spettatore per fenderne gradualmente le membra. È un’immagine feroce, di guerra e di dolore, di morte nella morte, di fine. Perché nessuno è più rimasto vivo, sotto il cielo giocondo degli dèi. Né Achille, diventato nella scrittura sagace di Pisano un guerriero frignone che vuole scappare dal proprio destino e dal solo tallone che lo rende mortale. Né Menelao, “identità in sottrazione”, tutto e niente allo stesso tempo, qualificato nelle assenze, “scavato a fondo nei difetti”. Né Ettore, padre stucchevole che sogna solo il momento in cui tutto finirà, il momento in cui finalmente riuscirà a dormire. Popolato dai celebri personaggi del mito omerico, il testo di Pisano ne rilegge con sguardo pungente le disavventure; con uno stile fluido e disincantato lavora alla ricerca di una parola verbo-visiva che si costruisce progressivamente nei diversi quadri e che si dilata nelle luttuose ninnananne, usate come un rituale, stillicidio premonitore del dramma. Lo fa con un’ironia spietata ma ricca di equilibrio, distillandola nei dialoghi, nei cambi discorsivi e nelle immagini che rievoca, sempre legate all’antichità del mito e della tradizione orale. L’immediatezza del linguaggio avvolge le fragilità umane: sono le fragilità di tutti i tempi, i desideri mai avverati, i sentimenti mai espressi. L’autore abita questo spazio della negazione inserendovi la propria immaginazione e ricamando una nuova trama fatta di relazioni famigliari in cui possiamo tornare a riconoscerci. Il testo è stato letto come situazione drammaturgica all’interno dell’edizione 2023 dell’Hystrio Festival, in collaborazione con Einaudi e Piccolo Teatro di Milano - Teatro d'Europa. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: di Pier Lorenzo Pisano, in collaborazione con Einaudi e Piccolo Teatro di Milano - Teatro d'Europa, lettura scenica a cura di Tindaro Granata, organizzata in partnership con l’Associazione Situazione Drammatica/Progetto Il copione
DITTICO DELLA DERIVA (di Niccolò Matcovich)
Segnalato dalla giuria del Premio Hystrio 2023 all’interno della sezione “Situazioni drammaturgiche”, Dittico della deriva è un lavoro minuzioso che si offre allo spettatore con una partitura poetica aperta alle possibili reinterpretazioni. L’architettura drammaturgica si compone di due sguardi ad incastro, quello maschile e quello femminile: sguardi assenti, sguardi dalla presenza ingombrante, sguardi taciuti, sguardi negati. La ritmicità poetica dei versi ne puntella le tracce, cristallizzandosi in immagini di segni indelebili lasciati sui corpi. Cosa resta di quella gita in barca? Un tradimento, una violenza. Resta la ferocia. Occhi di rabbia. Angoscia dilagante. I sussulti della carne. Resta una coppia che sa “solo stare, combattere la noia con invenzioni folli”. Resta un amore che non si riesce a dare, il grido di una verità che fatica ad uscire. Il testo procede bulimico, fagocitando le emozioni per rincorrere senza sosta i non detti, intensificando l’incomunicabilità tra i personaggi e lasciando talvolta dei vuoti in cui è il dolore a naufragare. Niccolò Matcovich si rivela in questo testo uno scrittore consapevole dei mezzi espressivi e linguistici che usa, gioca con la simmetria fonetica e con il montaggio delle immagini creando tuttavia cornici distinte in cui è possibile ritrovare assonanze, rimandi, accostamenti. La vicenda si carica così di un sostrato segnico ricco ma dinamico perché sempre frammentato dall’utilizzo del verso che rimane in attesa d’essere ricostruito. La lettura scenica a cura di Tindaro Granata tenta di darne una possibile interpretazione, utilizzando voci maschili e femminili che assumono e alternano entrambi gli sguardi, insistendo sull’ ingranaggio composto e dilatando la ritmicità poetica in una distesa testuale caratterizzata da più moduli. Concepiti in momenti della vita diversi, i due capitoli O mi ami o ti odio – LUI, O ti amo o mi odi - LEI risultano così sovrapporsi e intrecciarsi in un unico denso respiro. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: di Niccolò Matcovich, lettura scenica a cura di Tindaro Granata, organizzata in partnership con l’Associazione Situazione Drammatica/Progetto Il copione