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Venere in Teatro nella nuova Marghera

A sole due fermate di tram da Venezia, isola sempre più disneylandizzata, da tre anni si sta affermando con grande interesse di pubblico il Festival di danza Venere in Teatro: è a Forte Marghera, ma sembra l’isola di Citèra.

SPEEED ph. Lorenza Cini

Il Festival è prevalentemente curato e promosso da APS Live Arts Cultures e si svolge a Mestre, presso i capannoni 30 e 32 di Forte Marghera (già riconvertiti a spazi performativi ed espositivi), ma anche in mezzo al verde degli spazi esterni. Per due settimane, in questo meraviglioso parco urbano, si sono viste 17 performance e 2 concerti (insieme a laboratori, masterclass, talk, lavori di videodanza e pure gratuiti trattamenti shiatsu). Ed è un piccolo miracolo organizzativo, in un periodo dell’anno in cui da queste parti c’è pochissimo. Un fortino di resistenza al flusso ininterrotto di mordi-e-fuggi distratti e indifferenti che sta suicidando la vita culturale e civile tra Mestre e Venezia. Ispirato quest’anno al tema del vuoto come materia da cui generare nuovi «fenomeni e possibilità», in forte contrasto al pieno illusorio del profitto a ogni costo inseguito invece, con grandi sponsor, da locatari e bottegai tutt’intorno.

MYCELIUM Uno Studio-ph. Lorenza Cini

Fra gli eventi di chiusura ho assistito all’ecosistema performativo di Francesco Corsi, dal titolo Mycelium, nel quale, sotto a un set scultoreo in forma di reticolo rizomatico a soffitto, quattro corpi nello spazio si muovono per micropulsioni autogenerative (e qui Bettina Bernardi emerge con forza), nel disegno preciso e intenso (e prodigo) del suono di Luca Gallio. I movimenti sembrano sempre residuali, intercettano linee momentanee e accorpano vuoti in una lentezza che in tanta prossimità, con il pubblico seduto attorno, sembra fragilissima eppure tiene, si allarga ed espande. Di grande maturità concettuale è stata la performance di Thomas Valerio, dal titolo not the same, but again, in un’apoteosi della differita, visiva, sonora, testuale, secondo il motivo: «l’abisso non ci sprofonda, l’abisso ci circonda». In un dispositivo scenico intermediale che comprende suoni, schermo e microfono, la ripetizione (di azioni, di suoni, lacerti di testo) qui è un flusso: se tutto torna, la vita allora non è mera cronologia. Le sovrapposizioni acustiche e visive realizzano un tempo scenico archeologico. Lo strumento della differita è una forma della nostalgia dell’accadere, una forma della mancanza che si fa presente come una stratificazione degli affetti che si inseguono nelle tracce già accadute, davanti ai nostri occhi, e che ritornano fuori tempo, in un tempo laterale, circoscritto, eppure sempre nuovo. Valerio fa fuori ogni uso strumentale della memoria e ogni uso ideologico dell’unico e dell’irripetibile, in un’azione che rinuncia alla composizione, perché l’accadere per lui non è che uno spettro: «the future is my ghost». Rivedere è soprattutto il ri dell’azione verbale vedere, e implica una rincorsa, una riperdita, per cui ciò che infine resta (o ritorna) è la differita che avanza, autonoma, come un vero e proprio tempo liberato dall’immagine che invece la fisserebbe.

My Lonely Lonely Tale-ph. Lorenza Cini

In un affascinante spazio, ex-magazzino militare oggi espositivo, Nicola Simone Cisternino ha presentato un nuovo faticosissimo assolo, ma pure bellissimo fin già dal titolo: My Lonely Lovely Tale. «Racconto e gioco solitario», è ispirato al mito duale di Narciso tramandato da Ovidio, come una «fuga costante della mente dal vuoto». Mentre sulla parete di fondo sono proiettate le tracce testuali di questa narrazione, nel sapiente multifonico ambiente sonoro creato da Spartaco Cortesi, il perfomer sembra ingaggiare una vera rincorsa nello spazio, con lo spazio, e poi contro lo spazio, varcandone addirittura i confini per cercare una difficile dissolvenza. L’intensa anche acrobatica danza di Cisternino sembra voler disseminare una presenza imprendibile, come se la sua figura fosse deformabile al tempo concentrico della sua solipsistica rivelazione. (È l’effetto letale del riflesso della propria immagine? È la perdita a cui conduce l’esaltazione del doppio?) Una prova muscolare che dissolve la forza in un ambiente liquido solo in apparenza impossibile.

SPEEED ph. Lorenza Cini

Mentre in uno spazio all’aperto, circondate da auto molto tamarre, le ragazze di Parini Secondo con SPEEED hanno realizzato un progetto mimetico-musicale (ideato insieme a Alberto Ricca/Bienoise) sul «fenomeno della Para Para e dell’Eurobeat, diffusosi negli anni 90 nei club di Tokyo». Molto potente e divertente, ciò che sorprende di più è la precisa attitude piena di ironia, all’estrema potenza direi, di una super colorata e super dinamica animazione gestuale di gruppo, quasi sempre sur place, e tutta contenuta nell’ecodrammaturgia della sua occasione, insieme ricolma però di retrotopica ispirazione.

Not The Same, But Again ph. LorenzaCini

Infine, in un elegante spazio espositivo (il Padiglione 29 dei Musei Civici), e con tanto di mostra in corso, Sara Sguotti e Arianna Ulan (scrittrice, insegnante e sound designer) hanno dato vita a un duetto dal titolo CrePa. Lungo lo spazio, alternate ai supporti e alle opere esposte, queste due presenze hanno camminato in una prossimità impossibile, in una difficile uguaglianza che poteva solo equivalenza. Anche nell’interazione di una sull’altra, in elevazione e trazione al basso, queste crepe create fra prese impossibili e complicità improvvise, sono forse più delle impronte lasciate nel vuoto, sparpagliate nello spazio come capaci di vita autonoma. La crepa/ferita/incrinatura ma anche irreparabile rottura è il destino dei corpi «segnati da crepe dentro e fuori, disassati, soggetti a degenerazione, orientati a crepare». In questo divagare labirintico anche singolarmente per muri e pavimento che, per intervalli, aprono lo spazio all’improvviso, e consuonano per simpatia non cercata con le opere presenti, avviene sì una celebrazione fatale della «condizione effimera di ogni vivente», come ribadito a chiare lettere dal programma. Ma poi, tra perdite di peso e deposizioni di schiena («inarca la schiena bianca»), tra voci disperse e poi finalmente riprese, una nuova fenditura si apre nel sussurro, tutto privato e confidenziale quindi affettivo, di una voce all’orecchio: «così abbiamo imparato che il corpo non ci appartiene».

Stefano Tomassini

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Stefano Tomassini
Stefano Tomassini
Insegna studi di danza e coreografici presso l’Università Iuav di Venezia. Nel 2008-2009 è stato Fulbright-Schuman Research Scholar (NYC); nel 2010 Scholar-in-Residence presso l’Archivio del Jacob’s Pillow Dance Festival (Lee, Mass.) e nel 2011, Associate Research Scholar presso l’Italian Academy for Advanced Studies in America, Columbia University (NYC). Dal 2021 è membro onorario dell’Associazione Danzare Cecchetti ANCEC Italia. Nel 2018 ha pubblicato la monografia Tempo fermo. Danza e performance alla prova dell’impossibile (Scalpendi) e, più di recente, con lo stesso editore, Tempo perso. Danza e coreografia dello stare fermi.

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