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Nel Firmamento di Marcos Morau, un viaggio fantastico per sfidare il futuro

Recensione. La Veronal ha debuttato ad Oriente Occidente con il nuovo spettacolo, Firmamento. Dopo le repliche di Rovereto sarà a Reggio Emilia ad Ottobre.

Foto Guido Mencari

Ha 41 anni, e dunque nel sistema dello spettacolo italiano è considerato giovane, ma è già programmato e prodotto dai massimi festival e istituzioni della danza europei; Marcos Morau è un artista totale, un creatore di mondi, uno speleologo dell’inconscio con gli occhi puntati verso il futuro. Il coreografo e direttore artistico de La Veronal, la compagnia fondata a Barcellona nel 2005 – la capitale della Catalogna si conferma negli ultimi anni vera e propria fucina di gruppi e artisti internazionali – è un autore in grado di maneggiare linguaggi e temi molto diversi tra loro, con la libertà e la consapevolezza di chi può permettersi di saltare mode e tendenze.

Foto Guido Mencari

Morau – in controtendenza rispetto al minimalismo e alla decostruzione presenti nei linguaggi performativi di oggi – e sulla scia di maestri come Papaioannou, si prende il rischio di costruire, di consegnare allo spettatore un immaginario in continua mutazione, come d’altronde muta l’attitudine delle danzatrici e dei danzatori: «Nei miei lavori in generale è sempre presente una forte connessione con l’arte, sia essa pittorica o fotografica; l’aspetto legato alla composizione dell’immagine è fondamentale nel mio lavoro.[…]» spiegava in un’intervista pubblicata proprio sulle nostre pagine. Da qui la necessità di una scrittura coreografica affidata a un vocabolario eterogeneo di stili: «A volte ho bisogno di più dai linguaggi coreografici; ho lavorato nell’opera, nel circo, nel cinema, spesso utilizzo anche dei testi nei miei spettacoli… insomma, perseguo la creazione con quegli strumenti che sono più efficaci in ogni determinato caso. Ed è per questo che preferisco non guardare in un’unica direzione». Questo politeismo linguistico si rispecchia anche in un percorso i cui temi spesso guardano a celebri opere o artisti di altre arti, si pensi ai due recenti Opening Night e Sonoma, il primo centrato sullo storico e omonimo film di Cassavetes e il secondo dedicato all’immaginario di un cineasta, Luis Buñuel.

Foto Guido Mencari

In Firmamento, visto al debutto nazionale nel programma del Festival Oriente Occidente, l’artista catalano ha uno sguardo privilegiato per gli adolescenti, così si legge nelle note di regie, ma è chiaro sin da subito che qui non c’è la volontà di raccontare un’epoca, oppure un’età. È nel linguaggio, nel racconto scenico fatto di salti, di personaggi fragili e inquietanti, di apparizioni e ritorni, di piccole epifanie surrealiste che ritroviamo questa apertura al mondo giovanile, all’adolescenza vista come periodo in cui la fertile immaginazione ha la possibilità di inventare mondi e futuro. Perché di questo si tratta, di immaginazione allo stato puro: se qualcuno cercasse un filo narrativo che rispondesse a una logica ferrea evidentemente non lo troverebbe, qui la logica si perde in un mondo sotterraneo e onirico nel quale si parlano lingue lontane e sconosciute ai più e lo spazio è gravido di luoghi secondari pronti ad apparire dietro un fondale.

Foto Albert Pons

Dove siamo? Il primo mondo che ci propone Morau è una sorta di universo parallelo: dall’oriente arrivano certe musiche popolari e contemporanee, le voci fuori campo recitate in playback dagli interpreti, i copricapi tradizionali a punta, le acconciature. Ma è un immaginario orientale filtrato attraverso una giocosità evidente, un accenno di gusto manga e un ironico sguardo alla tecnologia. Siamo al Teatro Zandonai di Rovereto, occupato in ogni posto per entrambe le repliche, a testimonianza del lavoro quarantennale del festival sul territorio – si pensi all’idea di donare alla città ogni anno uno spettacolo di apertura, in questa edizione l’utopia del Moby Dick del Teatro dei Venti, forse il più importante spettacolo italiano di piazza degli ultimi decenni. Sul palco una lunga consolle piena di luci e tasti: regia teatrale, plancia di comando di una nave spaziale pronta a partire verso mondi ignoti, laboratorio in cui si agitano febbrilmente gli operai della nostra fantasia, servette pirandelliane che qui hanno fattezze orientali e tute da astronauta. Indizi e immagini appaiono come certi segni rivelatori nei sogni, uno dei protagonisti entra dalla platea con il bagaglio da campeggio, poi spunta uno zaino da scuola, qualcuno suona una fisarmonica, mentre le musiche (curate da Juan Cristóbal Saavedra) in un mix eterogeneo tra rumori, suoni sintetici, riverberi, scosse improvvise ed effetti da videogame accompagna, innesca o spezza il movimento dei corpi. Questi dialogano attraverso lingue diverse, ma il tema centrale è quello di un generale marionettismo, una danza di slanci spezzati e di numeri da circo.

Foto Guido Mencari

C’è un gran lavorio, qualcosa dovrà accadere, ed ecco apparire un personaggio che sarà centrale nel viaggio fantastico di Firmamento, è un pupazzo (manovrato a vista dai danzatori) con le fattezze di un uomo calvo: abbigliamento leggermente eccentrico composto da un gilet rosso con fantasia a quadri, su una camicia bianca con disegni che rimandano agli stessi personaggi dello spettacolo, pantaloni tricolori e calzini che riprendono il rosso del gilet; e poi un volto che non nasconde una maschera triste, ma anche tranquilla. Il piccolo uomo canta la propria storia. Il testo di Carmina S. Belda e Pablo Gisbert (i due autori della compagnia El Conde de Torrefiel) è un viaggio lirico verso l’assoluto: «Questa mattina sono uscito di casa./Ho scalato una montagna e dalla cima mi sono lanciato con questo paracadute./Ma un forte vento mi ha spinto verso l’alto./Più su di dove volano gli uccelli e le nuvole./E da lassù ho visto che casa mia e le mie montagne erano dei punti insignificanti./Poi il vento mi ha spinto ancora più in alto./E lassù ho visto gli angeli./Ma non mi bastava vedere gli angeli volare/e ho deciso di andare ancora più su./E più in alto, sopra la mia casa, le mie montagne, gli uccelli, le nuvole e gli angeli, ho visto Dio». È un’ascensione che permette l’astrazione e dunque la presa di coscienza dell’atto creativo «E ho visto la nostra intera galassia, il nostro sole enorme era solo un piccolo punto luminoso./ E ho pensato che la mia casa, i miei amici, le mie montagne, gli angeli e Dio,/tutto, da dove mi trovavo, che neanche riuscivo a vedere, tutto, da dove mi trovavo, non esisteva più./E tutto quello che dovevo fare era inventarlo.»

Foto Guido Mencari

La materia spettacolare nella mani di Morau si trasforma in continuazione, vale per la partitura coreografica come per quella sonora, in cui trova spazio di tutto, comprese facili citazioni kubrickiane, ma vale anche per la tessitura drammaturgica: siamo noi spettatori e spettatrici a rincorrere un bianconiglio che anticipa e tradisce le nostre attese sorprendendoci ad ogni vicolo. Nella seconda parte è anche lo spazio a mutare: una parete arretra e appare una stanza bianca e asettica; i repentini cambi nei forti cromatismi delle luci, uniti ai movimenti sincopati dei danzatori, fanno pensare al teatro di Giselle Vienne. Il perturbante si accompagna con l’assurdo, l’Inland empire di Lynch viene qui abitato da figure sinistre ma quasi comiche, un Inuit extralarge per altezza e proporzioni e un pinguino. Cadiamo da un “metaverso” all’altro (per usare una parola utilizzata anche dal regista), fino a quello bidimensionale del disegno, la stanza bianca si richiude e sulla parete il viaggio continua sotto forma di fumetto in movimento. C’è ora una fila di poltrone, qualcuno guarda verso lo schermo, oggetto metalinguistico su cui scorre un video (di Marc Salicrú), è un’opera grafica quasi punk nel tratto violento, in bianco e nero.

Foto May Zircus

Il pubblico che interessa a Morau è quello degli adolescenti (e forse è per questo che ha finito per appassionare tutti), a loro si rivolge anche l’ultimo testo, con quella seconda persona a cui ci ha abituato il teatro testuale de El Conde «Siete il risultato di miliardi di anni di adattamento evolutivo. / Siete i figli sopravvissuti dei grandi movimenti migratori,/dei cambiamenti climatici, delle siccità, delle carestie e delle pandemie./Siete i figli sopravvissuti del totalitarismo, delle dittature e dei massacri. /Ma siete anche gli eredi dei progressi tecnologici,/della medicina, la corsa allo spazio, l’agricoltura, l’architettura, la filosofia, l’arte. /La vita è un continuo cambiamento, odia l’immobilità. /La ruota continua a girare senza preoccuparsi dei tuoi sogni di bambino o dei tuoi progetti di vita. /In questo preciso momento nascono bambini e bambine che saranno i primi ad andare, come turisti, sulla Luna. /Siete fortunati, siete i vincitori di una lotteria cosmica». Ed è quasi una preghiera quella rivolta alle nuove generazioni, che ancora una volta mette al centro la forza della fantasia, le possibilità trasformative dell’essere umano, la volontà creatrice in grado di fronteggiare il futuro e le sue artificiosità: «Siccome sognate, avete la testa piena di uccelli. /Siccome sognate, avete la capacità di volare. /Siccome un giorno avete sognato, avete unito i punti luminosi nella notte stellata e avete dato loro un nome./E le stelle si sono trasformate in un orso, un carro, un cigno… /L’immaginazione riempie le parti vuote dell’esistenza. Le parole non sanno spiegare tutto. /Il cervello crea, completa, inventa ciò che non conosce. /L’arte non nasce dalla visione di un’alba, ma dall’impossibilità di vederla. /Ci aspettano cambiamenti profondi nell’antico mestiere della bellezza. /Il mondo si muove a una velocità mai vista prima. /Domani le intelligenze artificiali avranno bisogno di meno di un secondo per creare la loro Cappella Sistina./Sfidatele.»

Andrea Pocosgnich

Settembre 2023, Rovereto, Oriente Occidente Festival

Prossime date nel calendario italiano:

Reggio Emila, Teatro Ariosto, 15 ottobre 2023

FIRMAMENTO

Direzione artistica Marcos Morau
Direzione alla produzione Juan Manuel Gil Galindo
Coreografia Marcos Morau in collaborazione con i danzatori
Interpreti Angela Boix, Jon Lopez, Nuria Navarra, Lorena Nogal, Marina Rodriguez, Shay Partush
Testo Carmina S. Belda, Pablo Gisbert
Direzione tecnica Bernat Jansà
Direttore di palco David Pascual
Assistente tecnico Mirko Zeni
Musica e suono Juan Cristóbal Saavedra
Scenografia Max Glaenzel
Costumi Silvia Delagneau
Video Marc Salicrú
Produzione e logistica Cristina Goñi Adot e Àngela Boix

Produzione La Veronal
Co-produzione Grec 2023 Festival de Barcelona – Institut de Cultura Ajuntament de Barcelona, Oriente Occidente Dance Festival, Centro de Cultura Contemporánea Condeduque, Mercat de les Flors, Temporada Alta, Les Théâtres de la Ville de Luxembourg, Chaillot Théâtre National de la Danse
In collaborazione con Graner – Fàbriques de Creació e Teatre L’Artesà
Con il supporto di INAEM – Ministerio de Cultura y Deporte de España and ICEC – Departament de Cultura de la Generalitat de Catalunya

Durata 70′


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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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