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Storie che solo certi corpi possono raccontare. Intervista a Chiara Bersani

Intervista. MiX e IMMERSIONI/mare culturale urbano, in collaborazione con il Piccolo Teatro di Milano, hanno presentato a giugno A Ghost Story della regista e performer Chiara Bersani, vincitrice nel 2018 del Premio UBU come miglior nuova attrice / performer under 35 e nel 2019 del primo premio per la categoria danza del Total Theatre Award. Dopo l’anteprima site-specific a Santarcangelo, ha debuttato ieri a Centrale Fies con Sottobosco. Oltre ad essere attiva nella danza e nel teatro di ricerca, Bersani porta avanti un lavoro sull’inclusività degli artisti disabili nella scena delle arti performative. L’abbiamo raggiunta telefonicamente dopo la visione dello spettacolo.

Raggiungo Chiara Bersani al telefono con un’agitazione nuova, ancora sconosciuta. Dopo averla vista al Piccolo non facevo che ripensare a quello sguardo donato, a quella sensazione di intimità e vicinanza che a teatro non avevo mai provato. Una prossimità che volevo comprendere, indagare. Mi metto a tracciare alcune domande per l’intervista e mi ritrovo ad aver scritto pagine, pagine di appunti che riguardano solo me e lei, appunti di un segreto condiviso. Il telefono squilla, Chiara risponde e mi viene istintivo chiederle: “Come stai?” Lei è delicata ed euforica al tempo stesso:Bene, guarda veramente bene. Sono a Santarcangelo, ho appena finito un workshop per formare coloro che prenderanno parte domenica allo spettacolo site-specific dal titolo (nel) Sottobosco. Sono delle persone davvero belle e quindi mi trovi in un momento di grande entusiasmo. Da questa call per persone con disabilità motoria hanno risposto 4 giovani, di circa 16 anni, così carichi e motivati – una ragazza viene persino da Bari – e tutto questo mi fa stare davvero bene”.

Gentle Unicorn, di Chiara Bersani – ph Piero Tauro

Mi piacerebbe iniziare questa intervista con una visione particolare e intima sul tuo percorso. Quali sono stati secondo te “i punti di non ritorno”, ovvero quei momenti in cui si è aperta una strada, una visione del tutto nuova di ciò che ti circondava.

Io credo ce ne siano stati più di uno. Il primo sicuramente, quando ero giovanissima, è stato l’incontro con Lenz Rifrazioni. A dire il vero non riesco a vedere un momento specifico ma si tratta di una questione più ampia legata al linguaggio. Ad un certo punto mi sono trovata in una sala in cui ero chiamata a capire come inserire e come far rispondere il mio corpo a un linguaggio che era evocativo e specifico al tempo stesso, senza che però ne venisse creato uno apposta per me. Questo è stato un passaggio dal quale poi mi sono dissociata perché avevo bisogno di andare oltre, però nel momento in cui non immaginavo la possibilità di lavorare in questo ambiente con il mio corpo, sentire che venivano date le stesse indicazioni a me e ai performer della compagnia – senza ammorbidirle, senza diversificarle – è stato uno dei primi enormi scatti. Ho capito che era possibile che il mio corpo lavorasse qui dentro e che trovasse un suo modo di esistere all’interno di questo discorso, senza tuttavia rinunciare alla qualità e alla tecnica. Ho percepito davvero la sensazione di poter avere un mio spazio. Un altro momento decisivo lo ritrovo in un lavoro che ho fatto con un coro di Bassano del Grappa, la performance s’intitolava Tell me more ed è stata la prima volta in cui ho capito che un’azione performativa poteva vivere solo per alcune persone e che non avrei potuto riallestire quel momento di incontro per nessun altro. Una di quelle persone oggi non c’è più, ma quella specifica performance l’ha vista solo lei. Non si tratta di una scelta di forma, ma di contenuto. Quindi, se nel primo incontro con Lenz avevo capito che anche un corpo peculiare come il mio poteva stare dentro un linguaggio più universale che riguardava altri corpi, a Bassano sono ritornata alla specificità, perché in fondo ci sono storie che solo certi corpi possono raccontare. Il primo momento mi ha legittimata a stare nel mondo, a trovare il mio spazio da abitare, il secondo ha dato avvio a quella che è la mia ricerca.

Hai lavorato con artisti come Alessandro Sciarroni, Babilonia Teatri, Jérôme Bel e Marco D’Agostin. Cosa senti ti hanno trasferito a livello emotivo? E cosa a livello di pratica scenica?

Seguendo due linee differenti, con Alessandro e Marco sono partita da una relazione umana. Siamo amici da quando abbiamo iniziato – per quanto Alessandro fosse più solido nella sua carriera – e abbiamo condiviso la fase di inizio. Li ho conosciuti entrambi sulla soglia di qualcosa, quindi è stato un po’ come nascere insieme. Quello che credo sia stato significativo per me è che non ho dovuto trovare un modo di stare nelle loro poetiche con la mia specificità ma abbiamo cominciato a capire le cose insieme. In particolare, con Marco questa cosa è stata ancora più profonda, abbiamo mischiato linguaggi, ricerche, immagini. Ognuno di noi sente dei rimandi, degli echi, ci prestiamo le parole… Con Alessandro è stato diverso, lui era autore e io performer, quindi erano differenti le nostre posizioni ma è stata la persona che mi ha dato i primi libri da leggere, che mi ha fornito delle basi da cui partire. Lui mi ha proposto gli immaginari iniziali, con Marco li ho portati avanti e sperimentati. Con Babilonia, invece, sono entrata nelle tecniche, loro hanno fatto scuola e io mi sento molto privilegiata per averla vissuta.

Your Girl, di Alessandro Sciarroni con Chiara Bersani e Remo Ramponi – ph Andrea Macchia

C’è un confine davvero sottile ma preciso tra interpretazione e regia. Come l’hai delineato?

Alessandro aveva scritto nelle note di regia di Your Girl una frase che ora ti parafraso: “Non ero io a interpretare la nostalgia di Madame Bovary, ma lei che prendeva forma dentro le mie emotività”. Questa cosa mi ha colpito molto perché io con il mio corpo e il mio vissuto non devo adeguarmi ad essere qualcos’altro ma posso partire da qui, da me, dalla mia emotività e capire il punto di incontro con la materia senza tradirla, senza voler andare in luoghi che non potrei mai raggiungere. Questo è diventato un metodo nei miei lavori come autrice. Ho bisogno di un’urgenza per raccontare una storia, di scavare qualcosa che mi appartenga per poi distillarla e farla risuonare in altri corpi, in altri biografici. Ho davvero bisogno di partire dallo scheletro, dalla carne, dalla mia pelle. Quando lavoro come interprete ho una profonda necessità di trovare un punto del mio vissuto che possa inserire nel progetto come un motivo che mi spinge oltre, e devo dire che non è sempre facile. La tecnica, si sa, ti salva ma come autrice io ammetto di non essere tecnica per cui ho bisogno di quella magia, di quella spinta.

Nell’ultimo lavoro presentato al Piccolo, A Ghost Story, lo spettatore attraversa un luogo concreto, fisico ma si ha la sensazione di percorrerne un altro ben più profondo, viscerale che è quello mentale. Riesci a creare una singolare relazione con lo spazio performativo, interno ed esterno, riservato e collettivo, di sinergia e di nutrimento quasi.

Mi aveva attivato molto Jérôme Bel quando una volta mi disse: “Devo prendermi cura di tutto il teatro, dalla biglietteria allo spazio scenico”. Questa affermazione mi ha completamente ribaltato la prospettiva, è stato anche quello un punto di non ritorno. Da quel dialogo, quando lavoro alla creazione per lo spazio teatrale e alla dinamica teatrale, ho iniziato a pensare al pubblico dal momento in cui esce di casa al momento in cui mi raggiunge a teatro. È il mio mestiere pensare all’accoglienza e a cosa vuol dire attraversare uno spazio ed è uno specifico che parla di quasi tutti i miei lavori. Trovo che mi riguardi sempre, perché investe un movimento, dalla sfera intima alla dinamica collettiva gli spettatori attraversano una soglia che li pone in un moto temporaneo ma desiderato. Il lavoro è nato nella seconda estate della pandemia, in una fase ancora dominata dalle distanze e con molte complessità. Era forte per me la questione di come si potesse tornare a vivere lo stesso ambiente sentendosi al sicuro: da dove si parte per ricostruire una relazione? Tutta la mia ricerca ruota attorno al desiderio di ripristinare un momento intimo con le persone, di stabilire un incontro segretissimo per l’ascolto (che poi è la canzone che il pubblico sceglie e che si può riconoscere nelle azioni del mio corpo). Però questo non mi bastava, sentivo il desiderio che ci fosse un esterno, un centro del cuore più ampio che prevedesse altre possibilità di migrazione, per cui abbiamo creato uno spazio di accoglienza che fungesse da cerniera all’incontro privato. Questo è il frutto di un pensiero nato nel 2017: con il lavoro Goodnight, Peeping Tom, c’era la possibilità di vivere un momento uno a uno con i performer coinvolti, però quando finiva l’incontro lo spettatore aveva bisogno di una fase cuscinetto prima di entrare nel mondo, di un’anticamera, di uno spazio di decompressione.

Seeking Unicorns, di Chiara Bersani – ph Aivars Ivbulis

Assenza e presenza sono le polarità attorno cui questo progetto si articola e attraverso cui costruisci la relazione con lo spettatore. L’incontro nello sguardo è il ponte che unisce questo binomio apparentemente inconciliabile. Come agisci su questo sguardo? Come vivi l’incontro con gli altri corpi?

Con lo sguardo cercavo di salutare, di vivere un momento di congedo e di riunione di piccole energie. Per me si trattava di ascoltare la canzone e di far scendere quel picco di emotività affinché in un secondo momento potessi aprire lo sguardo. Quello per me è un punto fondamentale: fino a quel momento le persone coinvolte sono sole coi propri fantasmi e lo sono anche io con i miei. Ma l’attimo dello sguardo condiviso diventa quell’ancora per non perderci, per non scivolare nel tunnel che alla fine ti porta all’isolamento. Dopo la pandemia io ho avvertito l’urgenza di riallacciare i rapporti e ricostruirli voleva dire ritrovare fiducia nell’altra persona senza dare niente per scontato. C’è un momento, quindi, in cui puoi stare nella tua comfort zone, nella tua zona di assenze, di fantasmi, di pensieri, e poi arriva lo sguardo che ti fa precipitare nella realtà, che ti riporta a galla. Mi colpiscono molto anche le reazioni a questo lavoro: quando apro gli occhi trovo persone nascoste, altre con gli occhi lucidi, commosse, a volte qualcuno è vicinissimo, mi scruta e sento il calore di un corpo che si avvicina, la tensione della prossimità…

In tutto questo il corpo si fa raccoglitore di segni, di desideri, pulsioni, ma è anche luogo di accoglienza dell’altro e forse proprio per questo assume dei connotati politici.

È stato qualcosa che ho dovuto accettare. Il mio corpo che abitava uno spazio non previsto diventava un segno che veniva interpretato dalle persone. Fino a quel momento era assente il dibattito sui corpi non conformi che abitavano la scena e chi studiava teatro non aveva i mezzi specifici per parlarne. Mi sono trovata quindi in un terreno sconosciuto in cui il mio corpo diventava vettore di significati su cui non avevo controllo. Erano significati che in qualche modo mi appartenevano, scaturivano da me per cui in un secondo momento mi sono assunta la responsabilità politica di veicolarli: il mio corpo, dopotutto, si autodeterminava in uno spazio specifico. In tutto ciò credo sia anche fondamentale l’educazione allo sguardo. Questo mi porta anche a fare alcune riflessioni su alcune urgenze, per esempio come aprire le Accademie alle persone con disabilità.

Chiara Bersani – ph G.Agostini

Che ruolo assume il tempo nella tua pratica artistica? Si potrebbe parlare quasi di assistere a un’ecologia della cura.

La questione del tempo arriva molto alle persone che riflettono sui miei lavori e arriva con una particolare complessità. In realtà non sono mai stata interessata alla questione di un tempo lento o di un tempo veloce, ma è diventata centrale in modo strutturato a partire dal discorso della disabilità come metodo. Il mio corpo è lento rispetto agli standard richiesti, ha un tempo specifico che non può forzare perché, se forzato, non funziona. Il tempo con cui ho conosciuto il mondo è diventato il tempo del pensiero. Ad un certo punto ho cominciato a stare in ascolto del mio tempo organico, di un tempo per entrare nelle cose e per uscirne, per restare composta al suo interno ed entrare in risonanza in esso.

Il suono, la musica, sono punti di convergenza, di intimità condivisa.

Mi piace quando il suono ti fa fare dei percorsi, delle variazioni. Riprendendo anche quello che diceva Jérôme Bel, se devo prendermi cura degli spettatori dall’inizio alla fine devo pensare anche all’aspetto sonoro, dalla casa da cui escono ai suoni della strada, poi a quelli del vociare umano nel foyer del teatro e poi il silenzio. In A Ghost Story entravamo nell’intimità, la mia intenzione era di mettere la mia voce nelle orecchie di chi mi avrebbe guardata. È un’esplorazione legata al corpo, perché informa la voce, la potenza vocale. Nell’Animale, per esempio, che era un lavoro in cui la parte coreografica era basata molto sul respiro, per me era interessante far esplodere il corpo e farlo diventare gigantesco, dunque far uscire la voce. Questo è l’inizio di una ricerca che svilupperò prossimamente.

Andrea Gardenghi

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Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi, nata in Veneto nel 1999, è laureata all’Università Ca’ Foscari di Venezia in Conservazione e Gestione dei Beni e delle Attività Culturali. Prosegue i suoi studi a Milano specializzandosi al biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali dell’Accademia di Brera. Dopo aver seguito nel 2020 il corso di giornalismo culturale tenuto dalla Giulio Perrone Editore, inizia il suo percorso nella critica teatrale. Collabora con la rivista online Teatro e Critica da gennaio 2021.

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