È cominciata l’edizione 2023 di Santarcangelo Festival: ci siamo messi in contatto con Tomasz Kireńczuk, direttore per il secondo anno della storica manifestazione. Intervista.
Lo scorso anno mi aveva accolto nel borgo romagnolo con un sorriso affabile, Tomasz Kireńczuk, quarant’anni, tra i fondatori di Dialog – Wrocław International Theatre Festival (tra i più importanti appuntamenti europei) e nel 2021 ha vinto la call internazionale per la direzione del più antico festival della ricerca teatrale in Italia. Avendo vissuto a Roma per anni parla fluidamente italiano ma lo sguardo è ben piantato in Europa. Lo raggiungo telefonicamente qualche giorno prima dell’inizio della sua seconda edizione per un’ampia conversazione, durante la quale risponderà con nettezza e calma.
Cominciamo dallo scorso anno: Santarcangelo ha alimentato un importante dibattito circa il ruolo delle arti performative rispetto alla realtà, ricevendo anche alcune critiche che evidenziavano come lo sguardo del festival, nel portato ideologico e politico, fosse prioritario rispetto alle estetiche (si legga gli articoli di Rossella Menna e Massimo Marino su Doppiozero, e i due pubblicati su teatroecritica a firma Tomassini e Pocosgnich).
Ho letto il dibattito con molto interesse, sono temi importanti per me su cui riflettere; è questo il ruolo della critica: portare prospettive diverse sul nostro lavoro. Io non riuscirei a valutare il lavoro fatto, sono troppo coinvolto. Poi, nonostante io accetti tutte le critiche, personalmente, pensando ai lavori rappresentati e alle evoluzioni del performativo oggi, non sono d‘accordo che la relazione tra realtà ed estetica fosse così squilibrata. Se parliamo dei lavori delle artiste e degli artisti presentati lo scorso anno, come Teresa Vitucci, Calixto Neto, Gabriela Carneiro da Cunha, Giovanfrancesco Giannini, Mónica Calle, Alex Baczyński-Jenkins, mi viene difficile dire che questi abbiano molto da offrire dal punto di vista dei temi e poco dal punto di vista delle estetiche. Questi artisti sono protagonisti di una ricerca molto radicata nelle loro pratiche, propongono linguaggi diversi – non voglio dire nuovi, perché il concetto del nuovo non mi interessa molto, mi interessa maggiormente la relazione tra il linguaggio e il ruolo dell’artista negli spazi pubblici. Ci sono molti “teatri” diversi, molte estetiche diverse, lo spettacolo di Marina Otero ad esempio ha portato a una discussione importante, certo, era uno spettacolo molto semplice per quello che riguarda la dimensione spettacolare, al contrario di altri suoi spettacoli che invece sono molto teatrali. Per me l’estetica e la politica devono procedere insieme, sempre; perché per trasmettere il messaggio condiviso bisogna trovare sempre una modalità estetica, una ricerca teatrale e performativa. E poi mi interessa la direzione verso la quale stanno puntando molti artisti, ovvero cercare la forza delle pratiche nella vicinanza con il pubblico, lavorando su forme molto semplici dal punto di vista dello spazio e della produzione, scelta che certe volte è legata a questioni economiche, ma che altre risponde invece a una questione politica, ideologica, a una scelta artistica precisa.
Quali sono dunque gli elementi di continuità con il festival dello scorso anno?
Direi che in genere c’è molta continuità tra le due edizioni, e lo sarà anche per la terza edizione, perché la base per una curatela è sempre un approccio abbastanza personale. Questa continuità si può vedere sia nella presenza di certe artiste e artisti, sia in alcuni temi che ritornano. Ad esempio tornano dopo lo scorso anno Catol Teixeira e Alex Baczyński-Jenkins. È una scelta voluta, pensata, perché secondo me Santarcangelo ha questo doppio ruolo: da una parte quello di cercare artiste e artisti che ancora non hanno avuto la possibilità di essere presentat* in Italia, proprio perché Santarcangelo può permettersi di rischiare. Allo stesso tempo però il nostro festival deve dare un supporto alle artiste e agli artisti e questo sostegno può essere immaginato in diversi modi, uno dei quali è rappresentato dalla relazione intensa con la quale accompagnare l’artista passo dopo passo, fino al confronto con il pubblico. Baczyński-Jenkins è uno degli artisti che ha riscosso maggiore interesse tra il pubblico. Così anche Catol Teixeira, brasiliana, una delle artiste più interessanti tra quelle della nuova generazione che vivono in Europa. Poi ci sono le continuità a lungo termine: tornano quest’anno Dana Michel e Jan Luis, che sono stati presentati qualche anno fa, quando il festival era diretto da Eva Neklyaeva, e anche questo fa parte di un pensiero teso a seguire certi artisti e artiste per vedere nel tempo come cambia il loro approccio negli anni, come crescono le carriere. Per quello che riguarda le tematiche, alcune sono molto evidenti: il femminismo, le questioni di genere, le tematiche queer, il coinvolgimento politico e sociale dell’artista. In alcuni casi siamo andati molto in fondo alla ricerca, ad esempio lo scorso anno abbiamo presentato Go Go Othello di Ntando Cele, un lavoro importante (per le tematiche affrontate circa il sistema razzista, le responsabilità dell’Occidente per lo sfruttamento delle culture nei paesi non europei): quest’anno Ntando Cele torna come performer con Julian Hetzel (uno tra i più rilevanti artisti europei della nuova generazione) in SPAfrica. Due artist* molto divers* che però hanno studiato insieme e aspettavano da anni di poter collaborare. Si incontrano in questo progetto che ha appena debuttato ad Utrecht, in cui si parla di una ditta che trasforma in acqua le lacrime delle donne in lutto, dunque qualcosa che riguarda il razzismo, lo sfruttamento, l’empatia.
In questo gruppo di lavori possiamo inserire anche quello di Rébecca Chaillon, Whitewashing, artista francofona della Martinica (per la prima volta in Italia, dopo Santarcangelo andrà ad Avignone col suo ultimo lavoro). È un’artista lesbica, femminista, attivista, dunque “artivista” e ora sta facendo una battaglia importantissima per la comunità performativa francese rispetto proprio al posizionamento delle artiste nere in Francia. Harald Beharie è un artista giamaicano-norvegese che si sta confrontando con il termine “batty bwoy”, un modo sgradevole di chiamare le persone queer in Giamaica: nel suo spettacolo si riappropria di questo termine per utilizzarlo in un rito di auto liberazione. Ci interessano le prospettive lontane dalle nostre. C’è un’artista bielorussa, Jana Shostak, un’artivista che vive a Colonia, il suo è un lavoro sugli spazi pubblici e si chiama Screem for Belarus, ed è un grido individuale e collettivo per farci ricordare la situazione in Bielorussia. Perché abbiamo una dittatura in Europa di cui non sappiamo nulla. Jana ogni giorno terrà un workshop aperto alla comunità di Santarcangelo nel quale spiegherà anche la situazione attuale in Bielorussia.
Nella presentazione del festival hai scritto, «Questa non è solo una città che ospita il Festival, è una città-festival, una città-dialogo, una città-incontro, una città-festa». Che relazione c’è in questo momento con la città – una piccola città di provincia che deve accogliere un grande festival internazionale, con temi globali?
Probabilmente per chi ha vissuto Santarcangelo negli anni questa mia affermazione è ovvia, ma è qualcosa che ho sentito molto vivendo qui, comprendendo l’importanza di questo festival. Quando dico che è una città-festival penso anche ad alcune cose pratiche, a un elemento di raccordo tra il festival e la cittadinanza: per più di dieci giorni i cittadini consegnano la città in prestito alle artiste e agli artisti che la abiteranno per qualche giorno. Questo prestito è una cosa bellissima perché in quelle settimane si cambia proprio il modo in cui vivere la città, cambiamo l’uso di certi spazi, chiudiamo le strade. Alcune volte tutto questo è anche problematico, altre volte è una scoperta. Per quello che riguarda i temi, Santarcangelo ha sempre avuto legami culturali importanti, grazie ai suoi scrittori, ai poeti dialettali e infatti non la sento come una piccola città di ventimila abitanti e il legame storico con i cinquant’anni del festival è fortissimo. Parlo molto con i santarcangiolesi e nonostante ci facciano i complimenti hanno spesso una grande nostalgia per le edizioni degli anni ‘70 e ‘80. E io questa cosa la capisco benissimo, mi sembra anche giusto che questo festival viva così fortemente nella memoria. E forse dobbiamo raccontare meglio proprio come il festival sia cambiato nei decenni e come si relazioni con la realtà. Se io allestissi il programma del ‘78 (per fare un esempio…), anche se tutti hanno amato quella edizione, non vuol dire che funzionerebbe oggi.
A Santarcangelo dobbiamo seguire i cambiamenti nel modo più sincero e migliore che conosciamo. Io vedo il pubblico santarcangiolese molto aperto e curioso, c’è grande interesse e vicinanza. Poi, certo, ci sono anche le critiche, ma io non penso che il ruolo di Santarcangelo sia quello di accontentare tutti, noi dobbiamo trovare un livello di scambio, dialogo e confronto. Per quello che riguarda il contesto locale e la vicinanza con la città di cui parlavo ti racconto anche una cosa accaduta tre settimane fa. Quest’anno il parco Baden Powell era allagato, a causa dell’ultima alluvione, c’era molto fango; volevamo presentare lì, con una piccola pedana e una platea, i lavori di Chiara Bersani e Alex Baczyński-Jenkins, e tre settimane prima abbiamo appunto scoperto che non potevamo farlo. Scoprirlo è stato un grande problema, ci siamo messi a cercare spazi alternativi, ma non era facile e abbiamo trovato un podere poco fuori Santarcangelo, ma non pensavamo che ce lo avrebbero concesso per dieci giorni, e invece la proprietaria ci ha detto: «certo, se volete potete utilizzarlo, aspettate la mietitura del grano e poi potete venire a montare le vostre cose». Questo accade solo in contesti come quello di Santarcangelo, perché le persone percepiscono l’importanza di questo festival, lo seguono, lo amano, lo odiano, hanno insomma una forte relazione con l’evento.
In Europa ormai è evidente un netto avanzamento delle destre radicali: basti pensare alla Grecia, l’Italia, la Polonia, Svezia e Finlandia, tra gli altri paesi. Ne consegue un arretramento di certi temi, come quelli relativi ai diritti civili e all’immigrazione. Come vengono influenzati in questo senso la comunità artistica e un festival come Santarcangelo?
Ogni cambiamento politico, sia verso destra che verso sinistra, porta sempre un cambiamento nelle forze artistiche; sia la pressione, ma anche l’apertura di certe scelte politiche creano contesti diversi. Dal punto di vista politico certamente ci sono dei temi che avranno un’importanza ulteriore in questi anni e anche il nostro festival seguirà il movimento degli artisti, la necessità di cambiamento. Poi, certo, dipende dai singoli paesi: nel mio (la Polonia, ndr), la pressione politica era fortissima, il governo del partito Diritto e Giustizia, subito dopo aver vinto le elezioni ha imposto una sorta di censura economica. In Ungheria invece, dopo tutti questi anni di governo di Orbán, non ci sono più artist* indipendent*, sono fuggit*. Lo stesso in Russia, ancora prima della guerra, il movimento teatrale indipendente è stato liquidato, artiste e artisti hanno lasciato il Paese. La cultura è un diritto, la partecipazione alla cultura è sancita anche in alcune costituzioni e noi dobbiamo esserne coscienti, dobbiamo fare tutto il possibile per poter utilizzare i nostri diritti. Santarcangelo è un festival finanziato dai fondi pubblici (dal Comune, dalla Regione, ma anche dal Ministero della Cultura), ma quei fondi non sono i soldi “del” Ministero, “della” Regione, sono soldi pubblici, e in un paese democratico bisogna accettare che questi siano usati non solo per ciò che ci piace. È una questione basilare, un accordo sociale su cui è basato tutto il sistema politico nei paesi europei. Dobbiamo ricordarcelo, perché io in Polonia ho vissuto proprio quel cambiamento per il quale i soldi pubblici sono diventati subito i soldi del governo, anzi i soldi del ministro, il quale decideva di non finanziare alcuni progetti.
È passato ormai un anno e mezzo dallo scoppio della guerra, dall’invasione della Russia in Ucraina: secondo te come sta rispondendo la comunità artistica internazionale e nazionale? In Italia, ad esempio, una parte dell’opinione pubblica fatica a riconoscere l’imperialismo della Russia di Putin, accade anche in alcuni settori della sinistra radicale, si fatica a riconoscere il volto dittatoriale del putinismo.
Venendo dalla Polonia e avendo moltissimi amici ucraini conosco abbastanza della comunità artistica ucraina e ho una prospettiva più vicina, che mi dà la possibilità di mettermi dalla parte degli ucraini più facilmente. Ci sono molti modi nei quali artiste e artisti ucrain* sono sostenut*, in Europa ci sono molti programmi di sostegno, due mesi fa sono stato a Vilnius dove c’è stata una piattaforma molto importante dedicata all* coreograf* ucrain*. La cosa più importante è sostenere le persone con i mezzi che abbiamo, dare la possibilità all* artist* di continuare la propria vita nonostante le difficoltà. Dallo scorso anno noi sosteniamo un progetto europeo dedicato alle artiste e agli artisti in esilio, tra questi c’è anche un’artista ucraina fuggita dalla guerra che ora vive in Italia. Il tema, per noi, è quello di trovare dunque dei modi e delle economie per pensare progetti come questo. All’Ucraina, da tutto il mio cuore, auguro la fine di questa guerra il prima possibile, per tornare ad essere un Paese indipendente e democratico, com’era prima e come i cittadini e le cittadine ora lo stanno immaginando.
Andrea Pocosgnich