A Venezia per un intreccio tra le proposte di Biennale Architettura, The laboratory of the future curata da Lesley Lokko, e due spettacoli di Biennale Teatro, Anima di Noémie Goudal e Maëlle Poésy e Milk, di Bashar Murkus
I curatori e le curatrici del padiglione svizzero hanno pensato che il gesto più appropriato per interpretare la call di Biennale Architettura 2023, The laboratory of the future, fosse quello di abbattere il muro d’ambito che lo separa dall’omologo venezuelano. «Noi concepiamo i due padiglioni come una continuità spaziale. Vogliamo aprire un varco nel muro di mattoni del cortile svizzero (i curatori venezuelani ne sono stati informati)». Siamo in uno spazio che racconta nient’altro se non sé stesso e la sua storia alla prova del presente: che senso hanno i confini di un’architettura che rappresenta un’entità nazionale, nell’ambito di una rassegna culturale come Biennale, di fronte ai fenomeni migratori, o alla gentrificazione delle città come Venezia? Lo stato di fatto dell’edificio è materiale critico, il cemento, i mattoni, la luce, le alberature. «Per decenni le fronde di questi alberi hanno offerto la loro ombra. Il platano che dava ristoro al Padiglione svizzero è morto l’anno scorso. Abbiamo lasciato in piedi parte del tronco […] Gli alberi vicini sanno bene che il loro compagno è morto».
Proprio mentre sostiamo davanti alla scucitura della cortina, un richiamo vibrante nella tasca dà il La al gesto automatizzato: afferra, sblocca, scrolla, assorbit* all’istante in un’eterotopia che destruttura il qui e ora della fruizione. Oltre alle news, meme ed emoji generate a tempo di record annunciano l’ennesima deformità nella storia politica di un Paese martoriato da sé stesso, dalle sue oligarchie sanguinose, da una nozione di potere atavica e brutale. Restiamo bloccati davanti a quel muro sventrato, che ora appare più bidimensionale, leggero, pretenzioso. Una compagna privata di mercenari sanguinari, le pelli assurdamente maculate di iconografie naziste o nazistoidi, marcia verso la capitale russa, contro quello stesso regime bolso e siliconato che se ne è servito per macellare nemici vicini e lontani. A Mosca, a Mosca! Pochi metri più in là, il padiglione russo è ancora sigillato, per la seconda volta dopo l’edizione 2022 di Biennale Arte, Il latte dei sogni.
Il presente è contenibile nella perfezione di un disegno curatoriale, anche dove questo è più che mai capace di recepirne le emergenze, di scandagliarlo criticamente, di sublimarlo in cortocircuiti situazionali che ne rivelano la mutua permeabilità? Forse mai come quest’anno una Biennale Architettura è stata attraversata da una militanza organica e limpidamente destabilizzante, aperta a mettere in primis sé stessa in discussione, facendosi cassa di risonanza per un presente che fluisce come un dripping inebriante di immagini e informazioni; forse mai come in questi giorni, o forse è solo un’allucinazione da recentismo digital, la realtà si è prodotta in spettacolarizzazioni abominevoli, sinistramente ammirevoli, fuori scala delle sue contraddizioni, dai funerali di Stato di Berlusconi alla tragicommedia russa. In fondo anche noi siamo parte del “gran teatrino”, mentre scrolliamo compulsivamente, mentre prestiamo la vita alla routine delle kermesse culturali, concorrendo a farcire Venezia e le sue acque di quello sciame predatorio che va e viene, consuma e abbandona la città come una nave che affonda.
«Questa è sempre stata una città per forestieri. Il gioco consiste nel far durare un secondo di più l’incertezza, nell’essere veneziano per un microsecondo, prima che abbia luogo l’inevitabile smascheramento. Loro da un lato vivono di noi, dall’altro si sentono minacciati dalla nostra massa e la sera abbandonano la città come una nave che affonda» (Cees Nooteboom. Venezia. Il leone, la città e l’acqua).
Come un rosario sgraniamo tra le dita questo rimorso, mentre passeggiamo fra i Giardini e l’Arsenale, passando per il Teatro alle Tese. Il weekend di visioni veneziane, fra architettura e scena, tra la città onnipresente e il suo paesaggio, è una zoommata violenta su un collasso in presa diretta e le sue mitopoiesi, prospettiva che accomuna anche i due lavori visti in occasione del secondo weekend di Biennale Teatro, Anima di Noémie Goudal e Maëlle Poésy e Milk, di Bashar Murkus. Cominciamo da quest’ultimo, opera del coreografo palestinese classe ’92, fondatore del Khashabi Theatre di Haifa, struttura indipendente che ne produce i lavori rifiutando ogni finanziamento dello Stato israeliano. Cinque figure femminili su un tatami nero disegnano una relazione coreutica con altrettanti manichini, cercando di estrarne un’impossibile empatia. Per titillare la materia inerte, le loro protesi mammarie secernono cascate di latte di cui s’imbevono i materassi spugnosi sotto i loro piedi. La drammaturgia brucia la parola, soppiantata dal gesto viscerale, così come il disegno scenico il colore: restano tutti i suoni del corpo-caverna, singulti singhiozzi sospiri baci rantolii che fecondano la terra intrisa di siero, fino a farne germogliare il corpo di un giovane adulto. Lo sguardo di Murkus sosta sull’universalità del dolore materno di fronte alla perdita di un figlio, si fissa sulle figure del trauma, sull’agonia di abbrancare il nulla lì dove c’era un corpo, disegnando un groviglio spasmodico di braccia e gambe che planano strizzano spruzzano il liquido bianco sulle prime file.
Ogni possibile schema narrativo in grado di storicizzare il lutto viene sublimato da un simbolismo visivo e gestuale stereotipico, imbevuto di iconografie magniloquenti, ma trite e ritrite della maternità ridotta a stato mammario, a cenno di assenso prestabilito, incondizionato e generico, senza alcuno sviluppo psicologico, politico, drammaturgico apparente. Non ci sono personaggi, ma marionette senza agentività, ripiegate in un mutismo ancestrale, rassicurante fusione fetale che pone fine alla storia in nome di un concetto apparentemente tradizionale di fisiologia delle relazioni famigliari. Ma lì dove si ferma l’affondo di Murkus sull’essenza del tragico, cristallizzato in un’iconografia suggestiva ma astorica e monolitica, principia la radice comune di una moltitudine di dispositivi, processi e immagini che raccontano l’identità umana come processo aperto, fusione di figura e sfondo, essenza o attività ibrida e globale.
La crisi dei confini e la messa in discussione del rapporto tra uomo e ambiente, natura e cultura, è forse il più nitido filo rosso di The laboratory of the Future, rivendicato dalla curatrice Lesley Lokko come cornice teorica per i contributi nazionali, peraltro in piena continuità con l’edizione 2022 di Biennale Arte. Entro quella cornice, l’immagine che spesso si materializza è quella della foresta. Sono appunto due i termini del discorso: la foresta e la sua immagine, identiche e diverse. La foresta è un palinsesto di ere geologiche e specie arboree e animali. È un universo simbolico, il luogo dell’inconosciuto e della fiaba. È la foresta di Macbeth. Oggi è un respiro affannato e salvifico: anemos. In Anima, evoluzione performativa di Atlantica, installazione video di Goudal, ci accoglie il soffio di una foresta che spira da tre maxischermi. Il vento tra le palme, che anima discretamente il video, è doppiato da quello in real-time che gonfia gli schermi, mentre l’ipnotica sonorizzazione di Chloé Thévenin trasporta l’immagine sulla pelle del pubblico. Non c’è nulla di naturale nella natura. Il girato svela un palinsesto di proiezioni spellate, brano a brano, da un incendio lento e inesorabile catturato in camera. Siamo spettatori della proiezione di una proiezione, eppure di questo artificio carpiato resta un indelebile senso di pericolo, una distruzione strisciante che opera entro e oltre il discorso artistico.
La traiettoria circolare del meccanismo si conchiude nel tempo e nel luogo della fruizione: la quinta, parte della quale finisce materialmente consunta da agenti atmosferici reali-digitali (dopo il fuoco in video, l’acqua che cola dagli sprinkler sopra lo schermo), si apre sulle strutture di calcestruzzo di Parco Albanese, a Mestre. Il paesaggio entropico, in quelle particolari, fascinose forme post-industriali che s-figurano il versante mestrino della laguna (folgorante doppio della Venezia-bomboniera) entra nella rappresentazione, svelato nella sua natura profonda dal meccanismo teatrale. Il terzo tempo di questa toccante performance è un assolo di Chloé Moglia, fino a poco prima serva di scena che movimentava l’apparato tecnico intorno alla proiezione, ora danzatrice funambolica che si libra nel vuoto del telaio di supporto degli schermi. La complessa foresta di Anima fa eco a molte altre selve sparse, più o meno visibilmente, fra i padiglioni di The laboratory of the future. Tra le altre, corre alla mente quella di A Dance of the Mangroves dell’artista nigeriano Olubamidele Adeyemo, che porta all’attenzione il ruolo fondamentale delle foreste acquatiche di mangrovie nell’equilibrio ecosistemico delle regioni tropicali e nelle economie ittiche locali, immaginando una rinegoziazione delle politiche aggressive sull’uso del suolo della laguna di Lagos (una proiezione che l’artista colloca su una tavola divinatoria della tradizione yoruba).
Pochi metri dopo lungo le sale dell’Arsenale un’altra foresta, in tal caso nordeuropea, appare proiettata su tre megaschermi, sui quali si alternano le immagini silenziose dei larici imbiancati a quelle, roboanti, dei macchinari per l’abbattimento dei tronchi.
Queste foreste sono rappresentazioni possibili di un modello di civiltà che superi la forma delle città, più inclusivo verso un brulicare proteiforme di specie che cooperano per la vita di un ecosistema. O forse sono solo utopie. O forse sono esse stesse già la città. Dopotutto, l’architettura di Venezia ha un’anima di legno, immersa tra le travi delle murature, battuta nei pali della laguna, curvata nella carena delle gondole.
Andrea Zangari