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Narni. Le possibilità nascoste di un festival

Alla quarta edizione Narni Città Teatro, festival diretto da Davide Sacco e Francesco Montanari che ci offre un’occasione in più per riflettere sui festival e sulla qualità di una direzione artistica. 

Foto Mattia Bernabei

Nella mappa dei festival italiani distinguiamo quelli con una lunga storia, capaci di costruirsi con il tempo un legame con il territorio di appartenenza – più o meno pacificato secondo i casi – e quelli di più giovane concezione, nati con l’intenzione di vivificare un luogo nuovo, pronto ad accettare l’avvento degli artisti e così innescare un ulteriore processo di sviluppo culturale. Da quattro anni si svolge a Narni il festival Narni Città Teatro, con la direzione di Davide Sacco e Francesco Montanari; ed è un’occasione che la cittadina umbra, strategicamente centrale e non lontana da Roma, non fatica ad accogliere come una festa. Già lo scorso anno evidenziammo i segnali di vitalità e il desiderio di abitare un luogo attraverso lo spettacolo dal vivo, che fosse sul palco o in un cortile, nel palazzo comunale o in un chiostro o ancora per la strada, dove l’evento richiamato dal programma si mescola totalmente alla vita civile degli aperitivi e delle passeggiate. Già lo scorso anno dunque salutammo l’intenzione dei due direttori con curiosità e attenzione, ma allo stesso tempo manifestammo alcuni dubbi in merito all’identità delle scelte e alla vastità del programma.

Foto Mattia Bernabei

Dunque Narni ha ospitato lavori di teatro, di danza, happening culturali con incontri, lezioni di letteratura, osservazioni astronomiche, spettacoli site specific nei palazzi o nelle strade della città, tutto in tre giorni di particolare intensità, coprendo l’intero arco delle giornate con una sequenza serrata di appuntamenti. Tanti gli artisti o intellettuali coinvolti [qui gli spettacoli di Mauro Pescio e Luisa Borini], da Lino Guanciale a Nicola Lagioia, da Luca Ward a Sergio Cammariere, da Balletto Civile a Virgilio Sieni, fino all’evento annuale che è diventato un po’ il tratto distintivo del festival: lo spettacolo all’alba dell’ultimo giorno, tra le rovine dell’Ala Diruta, affidato quest’anno a Daniel Pennac in prima mondiale. Attorno una serie di altri appuntamenti che potessero rendere, secondo gli organizzatori, il festival più plurale e multidisciplinare possibile.

Foto Mattia Bernabei

L’edizione di quest’anno, espansa nei luoghi centrali della cittadina, ha espresso le proprie intenzioni attraverso un titolo indicativo: Possibilità Nascoste, lasciando così intendere tutto ciò che dà corpo a un luogo quando è abitato dall’arte, dallo spettacolo, ma ancor più in profondità tutto ciò che emerge dall’essere umano quando l’arte lo consiste. E dunque quale festival sognavano i due direttori? Scrivono: «Vorremmo raccontarvi di un Festival che non resterà nella geometria, che non vivrà più per leggi gravitazionali, per materie solide e consolidate. Vorremmo raccontarvi di un Festival che si costruirà negli occhi di chi lo guarda e nei gesti di chi lo abita. Vorremmo fondare con voi un tempo nuovo, un tempo per noi stessi, un minuscolo spazio dell’anima in cui tutto è possibile». Da questa dichiarazione traspare la volontà che il festival sia animato da una qualità esplosiva che inneschi una trasformazione, ma che questo avvenga non nel tempo ordinario, bensì nel mondo dell’invisibile e dell’immaginazione, perché tutto resti anche quando quel tutto scompare.

Seppure le intenzioni fossero così nobili, l’impressione è che tale elevato obiettivo non sia stato colto del tutto o che abbia rappresentato forse un punto troppo alto da raggiungere, almeno per il momento. Come lo scorso anno l’esperienza festivaliera ha lasciato qualche dubbio proprio nella vastità del programma, affastellato di 48 appuntamenti in soli tre giorni (12 in più della scorsa edizione) ovviamente ancor più sovrapposti, confluiti sensorialmente l’uno nell’altro, pertanto privi dell’attenzione e la dedizione necessari alla partecipazione opportuna (ne è un esempio il vorticoso passaggio di una carovana musicale dietro il muro dove si svolgeva un monologo dall’ascolto delicato e così quasi impossibile); ne difetta dunque la cura degli artisti e così della stessa offerta agli spettatori, vittime entrambi di un approccio caotico che forse, sì, produce una sensazione di continua festa, ma lascia meno spunti concreti su cui soffermarsi quando tutto si conclude.

Foto Mattia Bernabei

A fronte di questo, che appare come un difetto di attenzione, emerge un secondo punto anch’esso già chiaro l’anno precedente: l’identità di un festival è maggiormente visibile non tanto dagli spettacoli scelti per riempire la programmazione, ma ancor di più dagli spettacoli non scelti; con questo si intende dire che la vastità dell’offerta spesso mette al riparo dal definire i criteri e i parametri con cui una scelta viene operata, ossia ciò che davvero consiste una direzione artistica. Ne è un esempio per tutti lo spettacolo “in prima mondiale” che Daniel Pennac avrebbe portato in scena all’alba. L’Ala Diruta, suggestiva location tra la natura e l’architettura antica, gremita di persone ha ascoltato “in prima mondiale” qualche aneddoto irrilevante sulle produzioni di Pennac, qualcosa sugli esercizi in prova per fare il suo teatro, qualcosa sull’ideazione dei suoi libri più famosi, lasciando il ricordo forse di un unico racconto davvero interessante e ricco con il quale ha aperto la mattinata, scritto però da Nabokov. Sembra evidente che la comunicazione non avesse idea di cosa Pennac avrebbe fatto “in prima mondiale”, altrimenti crediamo che difficilmente lo avrebbe scritto, o peggio che l’organizzazione abbia preso Pennac senza sapere di cosa si sarebbero occupato. Sul piano identitario questo è un tema che va affrontato, altrimenti le possibilità di un festival resteranno nascoste ancora a lungo.

Simone Nebbia

Narni Città Teatro – Giugno 2023

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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