A fine giugno negli spazi del Mattatoio La Pelanda si è tenuto Rifrazioni, programmazione artistica di SPAZIO GRIOT, costituito da appuntamenti multidisciplinari per riflettere sulla complessità delle varie dimensioni del sé. Intervista alla curatrice Johanne Affricot
L’interrogazione e la critica, intesa come attività di confronto e osservazione, rispetto ai processi artistici, la loro fruizione e l’accesso a questi ambiti di socialità, sono delle costanti che spingono a fare il punto sullo stato dell’eterogeneità del nostro sistema culturale. Seppur con i dovuti cambiamenti e obiettivi raggiunti nel corso degli ultimi dieci, anche quindici, anni, sospinti dall’intersezionalità dei processi e la maggiore inclusività, permangono delle marginalità culturali. Qual è l’equilibrio che vige tra la loro legittima esistenza e autonomia e la loro affermazione e visibilità? Ne parliamo con Johanne Affricot che nel 2015 ha dato vita a SPAZIO GRIOT, piattaforma curatoriale indipendente, «spazio nomade che promuove la sperimentazione multidisciplinare, l’esplorazione e la discussione. Come spazio itinerante — un think, feel e do-tank — saldamente radicato nella città di Roma, estensione fisica della rivista online GRIOTmag». Poi negli anni si sono uniti nel viaggio Celine Angbeletchy in arte Ehua, nel 2016, ed Eric Otieno Sumba, l’anno seguente, e nel 2022 Affricot ha deciso di dare alla parte di produzione culturale e curatoriale di GRIOTmag, quella offline per così dire, una forma più distinta ma comunque alimentata dal lavoro che quotidianamente svolgono come collettivo. Un’azione sul territorio della Capitale articolata su vari fronti che comprendono l’editoria, il giornalismo, l’archivio, per dare rappresentatività a tutte quelle scritture, lingue e corporeità che faticano ad accedere ai sistemi culturali dominanti rimanendone spesso escluse.
A edizione conclusa, e a distanza di giorni dalla fine di Rifrazioni, quali sono i tuoi pensieri rispetto all’organizzazione, alla curatela, e ai feedback ricevuti sia da parte del pubblico che degli artisti?
Nonostante il poco tempo per la comunicazione, penso sia andata molto bene. Rispetto alla scorsa edizione, in cui al Mattatoio La Pelanda era in corso l’attività di Recreatures (leggi l’approfondimento ndr), quest’anno la sua mancanza mi aveva un po’ preoccupata, in quanto, sicuramente, è mancata quella dimensione da “cittadella” per la quale il flusso di pubblico è sollecitato da più eventi in differenti spazi. Quindi innanzitutto la sfida è stata questa, lo è sempre in fondo, ovvero l’intercettazione di un pubblico eterogeneo, che di solito non fruisce di questi contenuti. Avrei voluto ci fosse stata una partecipazione più ampia per un paio di eventi come la listening session di UNOS e la lecture di Lasseindra Ninja ma non è semplice, vista anche l’offerta numerosa di eventi complementari in questo periodo. Tuttavia devo dire che sono molto soddisfatta, del resto quello con il pubblico, specie per una proposta culturale come la nostra, è un lavoro lento e graduale. Dal punto di vista della curatela, è stata determinante la collaborazione con l’artista Liryc Dela Cruz per la sua personale Il Mio Filippino: For Those Who Care To See (fino al 30 luglio al Mattatoio ndr). Lavorare con Lyric ha significato muoversi tra ambiti disciplinari diversi, è un regista di arti visive ma anche artista performativo quindi è stato stimolante e impegnativo. Come anche la residenza artistica insieme alla performer Valerie Tameu. Tutto ciò è stato possibile grazie all’organizzazione di un team dedicato: il co-curatore Eric Otieno Sumba, per la mostra, e Celine Angbeletchy per la costruzione del concept della programmazione. E poi Darya Shojay Kaveh, Lea Ramaswamy, Roberto Scalmana, Kinga Raciti, S. Himasha Weerappulige e Andrea Pizzalis. Hanno inoltre contribuito all’anima di Rifrazioni, Benjamin Vasquez Barcellano Jr e Kim Valerie Vilale.
SPAZIO GRIOT dal 2015 abita nella città di Roma. Come è cambiato negli anni il rapporto con le istituzioni, il territorio e la dimensione internazionale, e cosa pensi sia necessario oggi per continuare?
È sempre stato un rapporto continuativo, nonostante si lavori ogni anno nel limbo dell’incertezza, della presentazione di materiali e progetti che contraddistingue tutte le realtà culturali. La definirei una relazione di curiosità e di fiducia. Avendo un background in project management nell’ambito artistico culturale sono stata facilitata nel dialogo con le istituzioni, specie per quanto riguarda la mia esperienza in una ONG e al Ministero degli Affari Esteri, durante il periodo universitario e post-universitario. Rispetto al tipo di vocabolario che SPAZIO GRIOT vuole presentare, la nostra visione è quella di coniugare la dimensione internazionale, che permette una vasta scelta di soggetti e movimenti, con la pluralità che esiste sul territorio italiano, ma che fatica ancora ad accedere agli spazi culturali, sia per coloro che producono contenuti artistici che per chi li fruisce.
“Rabbia e Desiderio” è un progetto ideato e sviluppato da SPAZIO GRIOT e Inua Ellams in collaborazione con Orbita Spellbound. Cosa identifichi con i termini di “rabbia” e “desiderio”?
Per me sono due stati emotivi che possono essere complementari: nella spinta, nella necessità, nella fame di provare a cambiare. Non sono termini che si esauriscono con il significato dato, quello comune, immediatamente accessibile. Sfociano in tanti altri luoghi.
Mi piace sentirle, pensarle, viverle come due emozioni bussola che guidano molto il mio fare e stare nel mondo. Rabbia e desiderio sono un bambino e una bambina a cui provi a dare risposta prima ancora che ti venga posta una domanda. Sono una madre e un padre e le loro storie, che anticipano la tua. La loro. Sono comunità. Sei tu di ieri e tu di oggi. Sono resistenza alla caduta nella maglia di chi predica alleanza e lotta, che prende senza creare vere radici, se non illusorie, nella propria mente e in quella di chi l3 circonda, alimenta e sostiene. Sono stanchezza e riposo. E così via.
Quando rabbia e desiderio si completano, può funzionare; alle volte però uno prevale sull’altro, cambiandone la forma, fino a farla esplodere. Poche settimane fa Bonaventure Soh Bejeng Ndikung, direttore di una delle più importanti istituzioni culturali europee, l’HKW di Berlino, ha scritto una lettera-testo molto significativa e forte, a seguito del suicidio dell’artista tedesco-zimbaweano Heiko Thandeka Ncube. In questa lettera espone e critica la presenza viscerale e strutturale del razzismo nel mondo delle arti e della cultura, apparentemente progressisti, e di come si faccia realmente poco, se non nulla, per gestire ed eradicare questo male.
Ed è così che capisci che rabbia e desiderio non possono essere troppo edulcorate perché implicano un investimento molto importante in termini mentali, soprattutto quando il tuo fare arriva dove prima c’erano solo certe classi, senza limitare questo concetto alla sola condizione economico-materiale.
Come si è articolato il progetto?
Il progetto ha vinto lo scorso anno il British Council International Collaboration Grants, al quale abbiamo partecipato insieme a Orbita Spellbound, e che ci ha permesso di proseguire in questa edizione Whose Wor(l) is This presentando l’artist on artist talk e performance di poesia con Val Wandja e Cora Dessalines, e la performance di Valerie Tameu. Rabbia e Desiderio nasce con l’artista Inua Ellams perché durante il lockdown avevo visto la sua pièce in video Barber Shop Chronicles e mi sono innamorata ed ero intenzionata a presentarlo, sempre tenendo in considerazione la volontà di rendere accessibili al pubblico diverse geografie artistiche che di solito non vengono fruite in Italia abitualmente. Mi capita di partecipare a festival o mostre dai linguaggi complessi che spesso non incontrano un determinato pubblico e allora il mio intento è quello di facilitare questa interazione, non rendendola didascalica, ma “ammorbidendola”, quasi, e curandola affinché non permangano le distanze. Da qui l’invito rivolto a dieci diverse personalità di poeti e poete tra la Gran Bretagna e l’Italia, e Rabbia e Desiderio, con la pubblicazione editoriale che ne è derivata, è stato il capitolo italiano.
L’importanza dell’archivio è una costante per SPAZIO GRIOT, tanto nel progetto editoriale che nella curatela. Come si costruiscono gli archivi e perché?
Prediligo la pubblicazione cartacea nonostante abbia subìto forti colpi da parte della digitalizzazione ma credo che per realtà e soggettività come le nostre sia imprescindibile. Valerie Tameu, artista residente di cui parlavo prima e con la quale collaboriamo da tredici mesi, è stata coinvolta anche lo scorso anno nella pubblicazione di Esercizi per l’Immaginazione di uno Spazio per la Carta di Roma (progetto dell’Assessorato del Comune di Roma con Azienda PalaExpo e che risponde all’SDG 10 dell’Agenda 2030, Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 10 – Riduzione delle diseguaglianze ndr). Si trattava di conversazioni tra le arti visive, performative, la letteratura e la società raccolte poi in una zine insieme ad altre interviste.
Da qui l’intento di continuare a costruire insieme a Valerie un progetto sulla lunga durata, e così è nato in seguito Dove hanno tremato le placche (leggi la recensione ndr). Ilenia Caleo e Cherish Menzo ne hanno fatto parte, con loro Valerie ha instaurato un dialogo sia per quanto riguarda la scrittura di scena che l’approccio come performer con le comunità locali. Tameu, artista italo camerunense, è stata in grado di partire dalla geografia emotiva del suo archivio fotografico familiare per metterlo in relazione con quello storico e “istituzionalizzato” del Polo del ‘900 di Torino, anche sostenitore del progetto. Ma di quale ‘900 stiamo parlando? In questo archivio ci sono le nostre soggettività, o quali sono preminenti, che tipo di selezione storica è stata attuata? Anche noi, come GRIOTmag, non riusciamo a raccogliere tutto, è inevitabile, ma vogliamo mantenere un dibattito attorno alla ragion d’essere degli archivi, fisici e non.
Nel progetto Il Mio Filippino: For Those Who Care To See di Liryc De la Cruz presentato sia come mostra che come performance in Unettered Definites, si può entrare in contatto con una dimensione esperienziale di tranquillità e di serenità, in cui l’incanto della musica della lingua ci avvicina, empaticamente, alla storia della comunità, terza comunità asiatica più numerosa in Italia e seconda comunità straniera più numerosa di Roma. I testi sono in lingua originale, solo alcune parti vengono tradotte in inglese. Attenzione riservata anche per altri lavori presentati nella programmazione. Questo rispetto della lingua è indubbiamente una scelta ma mi chiedevo se la traduzione dei testi avrebbe potuto avvicinarci ancora di più nella comprensione della diaspora raccontata…
Sono molto attenta alla questione della lingua e a tutte quelle lingue che sono state cancellate dai processi di colonizzazione, nel tentativo di recuperare delle esperienze, a partire proprio dalla mia di italiana che però ha perso le sue lingue di origine come il creolo haitiano e il twi ghanese. La riflessione si estende alla critica nei confronti dell’insegnamento diffuso della lingua dominante nelle scuole dei paesi che sono stati colonizzati, il quale determina dei riferimenti che non appartengono a queste società ma sono imposti. Vorrei idealmente rimediare a questo scollamento restituendo la centralità culturale, un processo quasi impossibile perché ciò che fruiamo è in una lingua dominante e globalizzata, ma noi ci proviamo! Rispetto al lavoro di Lyric, abbiamo voluto quindi mettere a proprio agio le persone che hanno partecipato alla performance (Kim Valerie Vilale, Glory Maliglig Marquez, Jiosamay Marquez, Benjamin Vasquez Barcellano Jr, Elizabeth Villena ndr) senza richiedere loro la traduzione di testi intimi scaturiti dalla lettura di storie e riflessioni personali sulle Filippine e il proprio sé, elaborate durante i laboratori condotti da Lyric due mesi prima dell’inizio della mostra.
Durante la performance, sono stata colpita dalla folta presenza di pubblico e, durante i momenti in cui volevo accedere alla comprensione del significato delle parole, mi sono lasciata andare invece al significante, alla musicalità della lingua tagalog e all’espressività dei volti e delle posture dei performer. In questo modo l’accesso a uno spazio culturale dominante è avvenuto tramite la loro lingua che non si concilia con la geografia culturale italiana perché non la possono parlare, e quindi penso che questa scelta curatoriale condivisa con Lyric sia stata d’impatto, sia per gli artisti che per il pubblico.
In questi giorni, dagli Stati Uniti, è tornato d’attualità il tema della affirmative action, o discriminazione positiva, dopo che la Corte Suprema l’ha dichiarata incostituzionale (leggi l’approfondimento a cura di Dinamo Press). Considerato che SPAZIO GRIOT è “da sempre impegnata ad amplificare le voci marginalizzate nel panorama artistico e culturale italiano e internazionale”, cosa pensi dell’estensione di un simile concetto anche al mondo dell’arte e della cultura?
C’è un rigurgito di risentimento verso chi riesce ad accedere a spazi notoriamente pensati e strutturati per una compagine razziale, che si lega poi a classe e genere. Queste chiusure, queste barriere sono cicliche, alle volte escono in maniera più evidente e più violenta perché il sistema si sente minacciato e destabilizzato, e la risposta poi la vedi anche nella definizione e nell’indirizzo delle politiche culturali, negli Stati Uniti, in Italia e in ogni sistema regolato da forme di governo democratiche. Fare dei parallelismi con il sistema statunitense, in questo caso non sono convinta sia molto fruttuoso, perché la complessità della natura dell’affirmative action nel contesto italiano ci chiede di sederci e parlare.
Dico complessità, ma in realtà si tratta di un’addizione molto elementare, che finiamo sempre per trasformare in qualcosa di intricato, e lo facciamo durare decenni e decenni, se non centinaia di anni o secoli. Però questa complessità ci permette di aprire un quesito interessante: operando all’interno di un episteme occidentale, dove le dimensioni pubblico/privato, accessibilità/competitivà e risorse/merito sembrano essere marcatamente integrate a processi di aziendalizzazione, che hanno varie forme ed estetiche, e interessano praticamente ogni sfera di vita degli individui, che impatto può avere l’applicabilità dell’affirmative action nei settori artistici e culturali (italiani), se la nostra agency è comunque condizionata da questi processi (di aziendalizzazione) e se non c’è consapevolezza (oppure poca, o non la si vuole avere) dei processi storici?
Non c’è chiusura da parte mia, anzi, sono pienamente consapevole che articolazioni del pensiero più terrene e pragmatiche – sempre all’interno dei codici di questo sistema – ci hanno permesso di incrinare il muro di ostilità e fare dei grandi passi in avanti. Ma ci penserei più approfonditamente ad usare questo termine, affirmative action, per definire quello che facciamo con SPAZIO GRIOT e GRIOTmag. I nostri corpi sono corpi politici, sempre e ovunque, indipendentemente dalle nostre scelte, e ogni categorizzazione, esplicitamente abusata, alla fine temo che finisca per rallentarci e schiacciarci.
Lucia Medri