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Christos Papadopoulos e le utopie del medesimo

Recensione. Il Festival Veneto OperaEstate ha ospitato l’importante lavoro del coreografo greco Christos Papadopoulos, Larsen C, del 2021: una allegoria minimalista ed ecologista di eventi corporei che provano a svelare gli inganni della percezione.

Foto Riccardo Panozzo

Tutto è fatto per sembrare freddo, algido, glaciale: corpi di ghiaccio, in costumi colore permafrost, che gravitano nervosi (ma non molesti) in uno spazio determinato da spostamenti e piccoli collassi, sempre negoziati, ripetuti, misurati, improvvisi, sempre contenuti. Tutto affinché nulla sembri umano; tutto affinché tutto sembri inorganico. Qui vige sovrana la continuità del movimento, il controllo del flusso. Nonostante la metafora minacciosa del ghiaccio alla deriva, a contraggenio invece della nostra immobile consapevolezza, alla quale allude il titolo della coreografia ideata da Christos Papadopoulos, Larsen C. È stato lo spettacolo che ha inaugurato la presenza della danza nella lunga programmazione estiva del festival multidisciplinare OperaEstate a Bassano del Grappa, ormai alla sua 43a edizione.

Foto Riccardo Panozzo

Il titolo della performance è il nome dell’iceberg della Penisola Antartica da cui nel 2016 si è staccato A68, un enorme blocco di ghiaccio. Una profezia apocalittica sui disastri ambientali tenuta però nella penombra, in sottotraccia, perché non si ha mai l’impressione che in scena accada l’irreparabile. I tempi della devastazione possono anche essere uniformi e impercettibili, ma non meno inarrestabili. Qui tanta uniformità è perfettamente sincronizzata con improvvisi agganci ai cues ritmici del tappeto sonoro che organizzano, compattano e rilanciano le dinamiche di movimento dei sei straordinari interpreti: Georgios Kotsifakis, Ioanna Paraskevopoulou, Tasos Nikas, Maria Bregianni, e Danae Pazirgiannidi. L’intelligentissimo tappeto sonoro, disegnato da Giorgos Poulios, non sovrasta mai, semmai sorprende l’arrivo incauto e poco necessario di una breve sessione apicale cassa/rullante, come forse l’emersione, in termini sonori, del principio di realtà.

Foto Riccardo Panozzo

È comunque un trend del movimento nella danza contemporanea di oggi: la preferenza, se non proprio l’ossessione, per il medesimo, non più per le singolarità (ossia il movimento è collettivo, condiviso, inclusivo e insomma sempre lo stesso per tutt*). Da qui anche, a volte, l’impressione tediosa di tanti autonomi assoli assemblati poi assieme. Sia chiaro, nessuno de* interpreti di Papadopoulos sparisce dietro il movimento — fatto di micro scatti e micro spostamenti nel flusso, di decisioni perentorie di direzioni nello spazio ma sempre nel rispetto della presenza dell’altr*, ma anche di splendide isole solistiche di grande bellezza gestica e cinetica —, in un movimento peraltro ipnotico ed estremamente funzionale ad alimentare una drammaturgia dell’inquietudine che si pretende onirica, mentre invece è una ripetuta (financo allo stremo) ricerca spontanea di alleanze di corpi, di raduni estemporanei e di mutui galleggiamenti.

Ciò che funziona è l’idea che tutto si tenga, nelle forme che si dissolvono, nelle anatomie che si parzializzano, nel flusso vitale che deve continuamente negoziare la sua mobile, instabile e sempre precaria realtà, e che queste strategie siano soprattutto meditative e non rappresentative, non intenzionali né (trattandosi di un gruppo) eterodirette.

Foto Riccardo Panozzo

Ciò che lascia un po’ perplessi è l’idea piena della facile utopia che esista un movimento essenziale e ‘più vero e naturale’ da raggiungere, da indagare, da compulsare nell’interiorità, se non proprio nel mentale; un movimento più essenziale e autentico di quello del vicino di casa (che magari scende in strada, mettiamo, a protestare per lo scioglimento dei ghiacciai). A me sembra che le architetture compositive, visive e sonore di Papadopoulos dispongono (per dispositio appunto, secondo retorica) sempre in prospettiva, dunque in modo analitico, questa illusione di «flusso cosmico» da catturare, di stati di transizione da disvelare che invece intenderebbe rivendicare; e che le alleanze dei corpi perfettamente orchestrate in scena, altro non siano che mirabili duetti, terzetti e lavori d’ensemble, calcolatissimi perché anche di altissima pretesa estetica.

Stefano Tomassini

Luglio 2023, Bassano, Teatro Remondini, Operaestate Festival

LARSEN C

Ideazione e coreografia
Christos Papadopoulos
con Maria Bregianni, Chara Kotsali,
Georgios Kotsifakis, Sotiria Koutsopetrou, Alexandros Nouskas Varelas,
Ioanna Paraskevopoulou, Adonis Vais
musica e sound design Giorgos Poulios
set design Clio Boboti
disegno luci Eliza Alexandropoulou
costumi Angelos Mentis
supporto drammaturgico
Alexandros Mistriotis
supporto coreografico Martha Pasakopoulou
assistente set design Filanthi Bougatsou
produzione ONASSIS STEGI – Athens
con il supporto della Fondation d’entreprise Hermès nel quadro del New Settings Program
con la coproduzione e il sostegno del Ministero della Cultura e dello Sport greco

in collaborazione con il Département du Val-de-Marne,
con il supporto della NEON Organization for Culture and Development
La presentazione di “Larsen C” a Operaestate Festival è sostenuta da Onassis STEGI, Athens, Outward Turn Program

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Stefano Tomassini
Stefano Tomassini
Insegna studi di danza e coreografici presso l’Università Iuav di Venezia. Nel 2008-2009 è stato Fulbright-Schuman Research Scholar (NYC); nel 2010 Scholar-in-Residence presso l’Archivio del Jacob’s Pillow Dance Festival (Lee, Mass.) e nel 2011, Associate Research Scholar presso l’Italian Academy for Advanced Studies in America, Columbia University (NYC). Dal 2021 è membro onorario dell’Associazione Danzare Cecchetti ANCEC Italia. Nel 2018 ha pubblicato la monografia Tempo fermo. Danza e performance alla prova dell’impossibile (Scalpendi) e, più di recente, con lo stesso editore, Tempo perso. Danza e coreografia dello stare fermi.

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