Un primo reportage sulla settimana iniziale di programmazione del Santarcangelo Festival per cercare anche di riflettere su pesi e misure nei processi creativi della performance di oggi.
Enough Not Enough: è un titolo fra i più invitanti se ci si volesse azzardare a una veloce (dunque ipotetica, fallace, cursoria ma non meno vigilata e sentita) ricognizione sullo stato della performance, sulle modalità compositive e la natura dei processi creativi de* artist* presentat*, dunque su ciò che, forse stancamente, si ripete per riaffermare e non perdere memoria (replicando soprattutto il già noto, in una sorta di esteso abilismo da caduta-in-piedi che conferma e conforta), e su ciò che invece, al contrario, matura sulla necessità di nuove strategie di cattura delle idee, tutta rischi e magari pure per (de)generare (nell’in)forme, à bonne usage!
Santarcangelo Festival, diretto da Tomasz Kirenczuk, ha quest’anno forse la programmazione estiva più interessante e visionaria. Nel primo fine settimana sono stati proposti alcuni lavori perlopiù solistici, ma già perfettamente orientati e disponibili a essere pensati. Da una parte, performance per cui gli strumenti già noti e dispiegati sono più che abbastanza (Enough) per proporre sulla scena il proprio punto, magari in location super inedite (perché di necessità trovate all’ultimo) e francamente bellissime, e penso a (nel) Sottobosco di Chiara Bersani, con tribuna direttamente in un campo di grano fra balle di fieno, e una impressionante schiera di alberi in lontananza a fare da cornice, come nel finale del Macbeth. Oppure ancora fra il nero della scatola scenica, come per Clashes Licking di Catol Teixeira, ennesima partitura ideale e memoriale del Faune nijinskyano, ma preteso «fantasma queer» di intimità e non di scandalo, tutto protesi di trasformazione e sogno, insomma di fatto con pochissimo da aggiungere di ignoto al già noto.
La memoria, quando non viene recuperata come critica all’inconsistenza e inautenticità del presente, è regressiva: solo la nostalgia comporta sempre un cambiamento. Quello invece di Bersani è lavoro che andrà rivisto al chiuso, per il quale è stato pensato, e tutto tornerà. Qui, un’improbabile mondina/ninfa (Elena Sgarbossa) se ne viene da lontano, dai campi di fresco mietuti e approda in uno spazio seminato a marshmallow. È versione site-specific, ma il contrasto non lega. L’invenzione è demandata in larga parte alle forze del soundscape di Lemmo che infatti sovrastano. Il micro del sottobosco cercato è sempre impotente nel macro della macchia circostante. Chi guarda rischia di dover partecipare senza critica di fronte a questa sempre necessaria richiesta di aggiustamento complice (per qualcosa che accade nel fuori ma che è stato pensato per l’interno), di aderenza alla testualità del rito performativo e non al demone del luogo, di aderenza meditativa e lenta poi collettiva e festiva all’azione: dal conta chi-c’è-c’è, al va-bene-tutto perché alleanza è invece la parola (ormai d’ordine). Insomma, senza furia né fantasmi, ma inveramento melodico di un sapere affettivo sotto un cielo di stelle, al limite dell’invisibile.
Dall’altra, performance invece i cui strumenti evidentemente non sono più abbastanza (Not Enough), lavori che ripartono da quei materiali per inventare nuove scene. E allora, via che si riparte dal mondo tutto dei saperi, dagli immaginari dei gesti, dagli archivi, dai corpi danzanti tra i pianeti del sistema solare, per ribaltare gerarchie e relazioni e ritrovare spiriti, fantasmi, presenze aliene dal passato che (alla fine sembrano dirci) è sempre stato qui. Bastava allungare le mani. Penso al bellissimo debutto del danzatore sudafricano Tiran Willemse, con blackmilk, un incredibile assolo nella luce crepuscolare di una palestra (perché il tema è la malinconia) che parte dalle marce delle majorette nelle brass band ma letteralmente facendo scoppiare il proprio corpo di ruvidi port de bras tra mille corse inanellando qualche sghemba piroutte mentre immaginari hip hop e street dance vengono convocati per mischiare e macchiare e rendere complessa, generativa, la «black male melancholia». Anche l’inaspettato finale (egli stesso accompagna quasi uno a uno gli spettatori alla porta) è capace di disturbare perché tutti subito stanno a fare calcoli sul rinvio della fine, mentre monta l’impazienza per il programma che incalza, e lui beffardo di nuovo mischia le musiche e i colori della (questa volta) nostra vulnerabilità.
Mentre la brasiliana Ana Pi in The Divine Cypher trasforma la sua ricerca sulla ricezione nel tempo dei balli tradizionali di Haiti in una nuova creazione che risuona tanto con le ricerche di Maya Deren, quanto con l’antropologia coreografica di Katherine Dunham. La realtà di un nuovo pianeta fatto di zucchero, in cui il sacro del passato inventa un nuovo mondo dell’altrove, sembra indicarci che ciò che il tempo ci ha costretto a lasciare è proprio lì, dietro la porta, quella stessa del teatro che alla fine lei stessa apre, raggiungendo, pieni di stupore, gli astanti distratti. Ma è soprattutto il ring dentro al quale Dana Michel con Cutlass Spring mette all’opera uno spietato resetting del desiderio attraverso l’infinito potenziale di oggetti del quotidiano, che della performance ci si svela l’attuale pluralità della battaglia. Un tappeto di feltro, nove sedie bianche da giardino, forchette e ghiaccio in sacchetti che lentamente appaiono e spariscono dallo spazio della performance. Attraverso gesti di scoperta e abbandono in un un corpo esposto e trattenuto, fermo ed esuberante, goffo e impacciato ma sicuro di sé, sempre interrogando le identità che emergono dal passaggio di questi oggetti e dagli abiti che le designano, l’equilibrio cercato incorporato performato da Michel è sempre raggiunto ma sempre precario, in transito, bisognoso di un’attenzione che non è mai per sempre. Silvia C. mi fa notare che nel processo creativo sembra sempre contare per Michel la seconda scelta: e credo sia proprio vero, perché è scelta capace di non fermare il tempo della composizione (dell’opera come dell’identità e della sessualità), ma di fermare nella seconda possibilità lo spazio timico della rivelazione.
Infine, durante un improbabile incontro con gli/le artist* qui menzionat*, poco gestito sui saperi della danza e i processi compositivi della performance, ecco parole di nuovo improvvisate contro la “danza” nemico comune che opprime i corpi e le identità, incapace di cura (ma ancóra? non avevamo capíto che è un modo di pensare, e non solo di fare?). Allora penso, come uscita da questo edipico senso di colpa sempre inevaso (a forza di puntare il dito qualcosa salta sempre fuori, così funziona anche la calunnia), a un’opera grafica di Davide Savorani, pubblicata in Argh! dall’editore bruno, e in vendita presso il nomadico Not A Bookshop allestito in piazza Ganganelli. Un primo piano di una bocca mozzata che grida: «Non stiamo nulla».
Sono curioso di leggere i commenti a questo articolo performativo, che come un contorsionista professionista si attorciglia e si allunga. Ma man mano che si allunga, dimentica di voler comunicare e si accontenta invece di mostrare la capacità dell’autore di non sentire la mancanza della punteggiatura.
Il lettore invece, nostalgico di riprendere il filo, stringe i denti e continua a leggere; ma purtroppo rimane nostalgico e, forse, non poco confuso.