Tornata nella sua collocazione originale, la rassegna Primavera dei Teatri si è articolata quest’anno nel segno della parola e del passato. Riflessioni a margine della XXIII edizione del festival di Castrovillari diretto dalla compagnia Scena Verticale.
C’è un’aria ancora autunnale a Castrovillari a fine maggio, la stessa aria in cui lo scorso settembre si era conclusa l’edizione precedente di Primavera dei Teatri. Dopo neanche nove mesi la rassegna torna in scena ricollocandosi nella stagione da cui trae il nome, confermandosi appuntamento capace di attrarre un numero notevole di energie, temi, linee artistiche. La locandina che accompagna il festival, stagliandosi un po’ inquietante nelle strade della cittadina calabrese, contiene una suggestione tradizionalmente opaca: l’immagine di un corpo (vivo o posticcio?) protetto o forse soffocato da un velo in plastica, in una posizione scomoda, sul punto di alzarsi o di svenire, danzare o riposare. Questa ambiguità si sposa con la vocazione del festival: vetrina di debutti (16 in tutto) e anteprime, crocevia di novità dalle scene nazionali e locali, termometro più che diagnosi sullo stato di salute delle stesse.
L’assiduo frequentatore delle giornate festivaliere è chiamato dunque a trarre da sé il filo conduttore che tiene insieme gli artisti e le loro urgenze.
La parola (intesa qui come logos, pensiero e sua illustrazione, sollecitazione razionale) e il passato (nel suo senso più ampio e remoto) sono i protagonisti di questa rassegna fatta di oltre 40 eventi.
L’apertura affidata ad un appuntamento dal titolo Incarnare il verbo è emblematica: l’incontro tra i versi dell’attrice diventata poeta Marica Roberto e quelli di Daniel Cundari, poeta dall’energica presenza scenica, a posteriori si rivela sintesi di una intera settimana. Da un lato la scena che torna alla carta, alla verbalizzazione, al dire di sé. Dall’altro l’energia della parola che va oltre la propria semantica (misteriosa ed evocativa di per sé la lingua cosentina), per incarnarsi e farsi demone vivo – con la complicità della chitarra furente di Daniele Fabio. Questi due poli, sul correre dei giorni, si allontaneranno sempre più. Il demone resterà a lungo sotterraneo, per riemergere, inatteso ma desiderato, dal flusso multidisciplinare degli eventi.
Dire di sé, parlare in prima persona, soprattutto guardarsi indietro: la realtà è un cardine importante, una necessità evidente in tutti i lavori. Ma non si tratta quasi mai di quella presente: una nostalgia sottile aleggia, uno sguardo languido e malinconico sul passato, da quello ancestrale all’ingombrante Novecento. Si avverte forte il bisogno di questi artisti di ripercorrere il cammino che ha portato qui, a volte perdendosi nel viaggio, mancando la meta, rimanendovi incastrati.
Si tenterà qui di riattraversare i momenti salienti del festival alla luce delle differenti collaborazioni tra la parola e il passato, linee rosse intrecciate nel labirinto tra il Teatro Sybaris, il Teatro Vittoria e gli altri spazi teatrali della città.
Il passato trasuda dalla parola diluvica di Elena Bucci nel suo Canto alle vite infinite, che plasma insieme ricordo intimo e paesaggio umano, geografia di un teatro e di una terra: Bucci la attraversa con la forza del suo duende vestito di grazia e disciplina, in una coltre di sogno disegnata da veli in perenne movimento. Una dichiarata volontà di ricostruzione storica definisce il lavoro del duo siciliano Carullo/Minasi, Umanità Nova, in cui il testo di Fabio Pisano ripercorre la vicenda poco nota dell’anarchico reggino Angelo Casile, in un allestimento tutto proteso alla cronaca didattica. Ancora la parola di Beatrice Monroy è complice di Giuseppe Provinzano in Storie di Noi, la Storia nelle storie, il punto di vista dal basso sulle stragi di Capaci e Via D’Amelio; anche in questo caso, il racconto è affidato alla parola, mentre gli altri linguaggi scenici (dalle musiche alle proiezioni alle voci off) ne sono accessori. Anche il debutto della versione per il palcoscenico di Città sola della compagnia lacasadargilla, pur in un dispositivo visivo e sonoro importante, ha come protagonista il logos, la parola che illustra, spiega più che incarnare: così l’attualità della sua istanza – la solitudine come male del secolo e l’arte come cura – si avvicina al presente solo sfiorandolo. L’ascolto razionale e l’analisi verbale sono sollecitati persino dalla coreografia firmata da Igor x Moreno e Collettivo Mine, Beat Forward, in cui il gesto comune e convenzionale viene portato all’estremo della sua capacità comunicativo-didascalica e infine spogliato di senso. C’è un passato senza tempo nella presenza diafana di Patrizia Valduga e della sua Donna di Dolore, parola poetica e carnale presentata in una bozza di allestimento che, pur sorretta dalla presenza potente di Daniela Piperno, fa desiderare il ritorno alla lettura. Parola eterna e classica quella che i Sacchi di Sabbia affidano alla voce di Silvio Castiglioni: di nuovo un passato remoto e mitico, quello de I Persiani di Eschilo, la tragedia più antica del mondo, qui però ancorato a una trasfigurazione metafisica (piccole statue stilizzate mosse su un tavolo) che usa l’attore come tramite, ancora una volta al servizio di un racconto che illustra. Infine, è puramente narrativa la parola aneddotica di Via del Popolo di Saverio La Ruina, tra i direttori artistici del festival: una confessione autobiografica, omaggio alla città di Castrovillari e al tempo che scorre, dona e toglie.
Il passato è il luogo di queste parole concrete, spazio ancora da esplorare o forse rassicurante culla di riflessione, casa degli spiriti accogliente in un tempo – quello immanente – tutto da decifrare. Sembrerebbe che questo bisogno di certezze antiche, questo rimestare nei ricordi di intere generazioni, non lasci spazio alla tridimensionalità della parola teatrale, alle sue molteplici possibilità sceniche. Non vuole essere simbolo, ma dichiaratamente mezzo. Non accetta trasfigurazioni, non vuole caricarsi di mistero. Eppure è lì che rifulge, è quello il momento in cui si àncora al luogo teatrale, ne trae potenza, in qualche modo compie se stessa: come quando collabora e bisticcia, pacata, con i corpi in perenne danza dei Quotidiana.com (qui la recensione di I Greci, gente seria! Come i danzatori). O come quando si annoda alla voce di Dario De Luca e ai suoni di Gianfranco de Franco per impastare il Re Pipuzzo fatto a mano. O ancora come quando scende come lava fresca dall’alto vulcano della Felicissima Jurnata dei Putéca Celidònia. Ecco che il demone sommerso del festival si palesa per parlare, finalmente, dal presente e del presente.
Il Festival castrovillarese si conferma una sfera di energie in circolo, anche quando le energie assomigliano più a polvere che si posa che a elettroni impazziti. La figura che giace sotto al cellophane nella locandina del festival si conferma efficace nella sua energia ambigua. Viene da chiedersi se, in questa sfera/bolla, l’arte non rischi di guardarsi troppo allo specchio, rimandando ancora una volta l’appuntamento con il mondo, perdendo il polso del presente. A chi vuole parlare il teatro? Chi vuole incontrare? O viceversa, cosa vuole il mondo dal teatro? Cosa sta cercando chi si siede in platea? Non c’è risposta univoca, se non nella perenne necessità di collaborazione e ascolto reciproco tra i due lati della quarta parete.
Sabrina Fasanella
Leggi su Cordelia di Giugno le recensioni da Primavera dei Teatri 2023
Primavera dei Teatri – Castrovillari XXIII edizione 27 maggio – 04 giugno 2023
Direzione Artistica Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano
Coordinamento organizzativo e amministrazione Pietro Monteverdi
Ufficio Stampa Maya Amenduni