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Giovani che nell’era dei social network scelgono di fare teatro

Dal 26 al 28 maggio si è tenuta a La Spezia la prima edizione del festival Tutta la vita davanti. Festival di teatro per vecchi del futuro, un progetto di SCARTI con la direzione artistica di Alice Sinigaglia, un luogo di incontro e dialogo tra artisti, operatori e critici under30. Qui tentiamo di fare il punto sulle riflessioni emerse.

Tutta la vita davanti. Ph Francesco Capitani

«Ecco, io non sento di appartenere alla definizione di generazione Under30, non è un termine che utilizzo perché in quanto definizione – in questo caso di una categoria di persone – essa si inserisce in una dimensione storicizzata, dunque passata, già morta». Partire da questo assunto, emerso durante un momento di incontro e discussione alla prima edizione del festival spezzino Tutta la vita davanti. Festival di teatro per vecchi del futuro, permette subito di delineare a chi legge una cornice necessaria al discorso che si vuole condurre. Per scendere più nello specifico, essa inquadra un contesto abitato da una pluralità giovane, di corpi e di voci, di idee e riflessioni che nel corso delle tre giornate del festival hanno assunto lo scopo di indagare non soltanto le modalità di fare ed esperire il teatro, ma anche i presupposti linguistici e discorsivi che quel teatro raccontano, per ribaltarli e metterli in discussione. A partire dalle definizioni.

Ma facciamo un passo indietro. Siamo a La Spezia, in un quartiere popolare decentrato rispetto al cuore della città. Qui, dal 2003 ha trovato spazio il D!alma – cantiere creativo urbano, un centro culturale di inclusione sociale che coinvolge con diverse attività scuole, persone disabili, detenuti, disoccupati, e costruito a partire dalla riqualificazione dell’edificio che ospitava la scuola media “Dialma Ruggiero”. Nonostante i cambi di gestione tra pubblico e privato, per merito di SCARTI lo spazio è riuscito negli anni a sviluppare il proprio ruolo come centro di produzione teatrale, rivelandosi un importante propulsore di novità per quanto riguarda la scena teatrale emergente. Ne è testimonianza la rassegna Fuori Luogo, che dal 2011 – attraverso workshop, residenze artistiche e laboratori di danza, musica e pratiche performative – capta i segnali di un teatro giovane per irradiarlo all’interno di un territorio marginale e creare le premesse di un sentire comunitario, un’apertura per e verso la città e le sue periferie. Sempre sui giovani e sul coinvolgimento sociale decide di scommettere quest’anno Andrea Cerri, direttore artistico di SCARTI, affidando la curatela della prima edizione del neonato festival Tutta la vita davanti. Festival di teatro per vecchi del futuro (riprendendo il titolo del film di Paolo Virzì) ad Alice Sinigaglia, regista e drammaturga esordiente, diplomatasi da poco alla Paolo Grassi di Milano.

Biancaneve e i sette nazi. Ph Francesco Capitani

A conclusione delle tre giornate, l’abbiamo intercettata per delineare il quadro di progettualità entro cui hanno agito gli organizzatori della rassegna, cercando nello specifico di capire quali logiche, idee e visioni hanno animato le scelte di una giovane curatrice alla prima edizione di un festival. «Come succede spesso con le prime volte – ci racconta Alice – ho agito con grande spontaneità e pochissima logica. Non avevo mai curato la direzione di un festival, quindi d’istinto ho cercato di immaginare se gli spettacoli che selezionavo creassero fra loro un ‘bel clima’, un’atmosfera allo stesso tempo organica e variegata che costituisse un ecosistema funzionante (…). Con gran parte degli artisti presenti al festival, infatti, avevo chiacchierato almeno una volta, o comunque avevo sentito parlare di loro. In tutti mi era sembrato di trovare il rigore di una linea poetica precisa. Ho cercato di fare in modo che tutte queste linee molto nette e diverse fra loro non finissero per scontrarsi, ma creassero insieme una fauna compatta e interessante, vitale anche».

Apocalisse tascabile. Ph Francesco Capitani

Dopotutto, è proprio questo tentativo di incontro ravvicinato, emotivo, mentale e spaziale, tra espressioni, visioni e saperi che sembra essere la cifra originativa di Tutta la vita davanti, perché manifesta una precisa esigenza di creare rete, di raccogliere un’intera generazione in tempi in cui prevale fortemente lo smarrimento del personalismo individuale.  Un personalismo che nel teatro, come hanno fatto notare alcune riflessioni guida di critici quali Graziano Graziani e Lorenzo Donati, ha restituito una certa tendenza al “selfie autobiografico” oltre a uno scenario in cui faticano a strutturarsi e imporsi nuove compagnie. Al netto di queste premesse, è interessante notare quanto, in realtà, le intenzioni programmatiche della progettualità collettiva appena descritta abbiano subito una progressiva frammentazione nel corso del festival, soprattutto nei tentativi di confronto. Non è un caso che il dialogo libero tra i diversi soggetti coinvolti – artisti, operatori, critici, tutti sotto la soglia dei trent’anni – che ha preso forma all’interno della tavola rotonda (spazio di discussione condotto da Alessandro Iachino di Stratagemmi e pensato per ragionare collettivamente su pratiche teatrali e linguaggi artistici) invece di fare il punto sulla situazione del teatro emergente e sulla mancanza di una certo lavoro di gruppo, abbia portato al ribaltamento di tutti i termini presi in questione: primo fra tutti generazione, ma poi anche poetiche e linguaggi, estetiche e categorie, parole messe sotto accusa che hanno innescato un campanello d’allarme negli artisti, un senso comune di rifiuto alla definizione più che una tensione alle cura. Risultato che ci restituisce il ritratto del tempo confuso in cui viviamo, in cui alla lingua viene indistintamente negata la capacità di riuscire a descrivere non solo il reale, ma soprattutto la generazione alla quale apparteniamo, che non si sente raccontabile e che fatica persino a riconoscersi in qualcosa.

End to end. Ph Francesco Capitani

È quello che evidenzia anche Alice, in una conversazione avuta per mail: «Non ci piacciono più alcune parole che prima piacevano molto. Proviamo un certo fastidio per gli urlatori e non ci sentiamo poi tanto importanti da affiggere ai muri del mondo le tavole della nostra poetica. Siamo figli di questo momento storico, penso. Giovani che nell’era dei social network scelgono di fare teatro. Outsider. Solitari. Questo ha come risultato una mancanza di senso generazionale? Può darsi». In fondo, alla base di questo sentimento comune, c’è la difficoltà di relazionarsi col passato e di posizionare la propria eredità alla luce del tempo presente. Allora vogliamo chiederci, guardare a gruppi come Sotterraneo o Babilonia Teatri (per citare due compagnie che fanno parte di una fortunata ondata generazionale), che sono stati in grado di rinnovare le pratiche teatrali a partire dal basso, può essere utile a capire quali vecchi del futuro diventare? Interrogarsi su quali luoghi informali – attualmente in progressiva estinzione – agire per poter trovare spazio alla propria immaginazione (si è parlato anche di utopia degli spazi che amplificano i confini percettivi sensoriali) può essere utile per capire quale idea di teatro sviluppare?

Funerale all’Italiana. Ph Francesco Capitani

Ciò che emerge con insistenza durante il momento di confronto è invece l’aspetto più burocratico, declinato nelle difficoltà da parte degli artisti di interloquire con le istituzioni, ma anche di partecipare in gruppo ai bandi (e le criticità connesse alla definizione dei ruoli, dunque alla tutela dei processi creativi) che si aggiunge ai vani tentativi di entrare a far parte di una circuitazione spettacolare duratura e più ampia. Ecco che qui, il discorso iniziale sulle poetiche e i linguaggi, sulla formazione, i processi e i luoghi della creazione artistica, subiva continuamente il principio della risacca, tornava indietro e cancellava la possibilità di mettere in gioco i pensieri per alimentare nuove pratiche e nuovi sentimenti comunitari attraverso cui riconoscersi. Questa dimensione rarefatta e pulviscolare ha caratterizzato in qualche modo anche alcuni spettacoli della rassegna che, seppur caratterizzati da una vivace e valida componente attorale, ponevano sul piano pratico le stesse difficoltà stilistiche e di contenuto riscontrate durante il momento della tavola rotonda. In Funerale all’Italiana Sinigaglia crea lo spazio di azione per Benedetta Parisi, costruendo una sequenza di immagini davvero interessanti che rievocano il dolce ricordo della nonna; il testo, però, non segue una linea precisa e nell’accumulo frettoloso di riferimenti (anche a tematiche di spessore come la questione della maternità) finisce per perdere d’incisività, di spessore. Anche in Biancaneve e i sette nazi, progetto di FanniBanni’s, la componente scenografica e l’apparato visivo strutturano con sguardo acuto la narrazione. Qui l’intento della storia – che vuole scardinare l’eredità  di una principessa fiabesca e indagare le violenze del presente – è evidente e del tutto valido, ma lo sviluppo dell’intreccio si rivela a un certo punto debole, contenendo in sé già tutte le premesse del finale. Più preciso e consapevole appare il lavoro di Andrea Dante Benazzo e Laura Accardo, creato in residenza artistica a Carrozzerie n.o.t. end-to-end sviscera, anche con una spiccata morbosità, la fine di una relazione a partire da una chat sul telefono, ne ripercorre gli inizi e gli sviluppi attraverso dei grafici tratti dalla linguistica computazionale per tentare di rinvenire le tracce della rottura, lo sgretolarsi dei sentimenti. La centralità della questione dell’archivio spontaneo e delle relative problematiche legate alla privacy nel momento della sua condivisione risulta davvero interessante, la sincerità di Dante davvero autentica ma l’uso dilatato dell’elemento video ingloba quella genuina pratica sulla scena che avremmo voluto assaporare ancora un po’. Nicolò Fettarappa Sandri e Lorenzo Guerrieri fanno uso di quel video con maggior consapevolezza, restituendoci il ritratto tragicomico di una generazione dimenticata (la nostra!) al limite della sopportazione. Apocalisse Tascabile gioca così su confini sociologici ma lo fa con spontaneità e sorridente amarezza.

Questi spettacoli, con i loro punti di forza e le loro criticità, sono il segno dell’importanza e della necessità di alimentare sempre più questi momenti di dibattito, di coltivare spazi di confronto per maturare la consapevolezza di chi siamo e di ciò che ci circonda, ma di affrontare anche le problematicità che il festival innesta. E continuare a porsi le domande sull’eredità del teatro di ieri, sulle possibilità di quello di domani. Dunque, interrogarsi: in questo teatro per vecchi del futuro, quale vita scegliamo di avere davanti?

Andrea Gardenghi

Tutta la vita davanti. Festival di teatro per vecchi del futuro

26 – 28 maggio, La Spezia

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Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi, nata in Veneto nel 1999, è laureata all’Università Ca’ Foscari di Venezia in Conservazione e Gestione dei Beni e delle Attività Culturali. Prosegue i suoi studi a Milano specializzandosi al biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali dell’Accademia di Brera. Dopo aver seguito nel 2020 il corso di giornalismo culturale tenuto dalla Giulio Perrone Editore, inizia il suo percorso nella critica teatrale. Collabora con la rivista online Teatro e Critica da gennaio 2021.

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