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Davide Livermore: “Il teatro è un luogo di valore”

Dopo aver presentato la sua quarta e ultima stagione da direttore del Teatro Nazionale di Genova (scopri qui tutti gli spettacoli), abbiamo incontrato Davide Livermore per evidenziare linee guida e nuovi progetti del teatro genovese, con uno sguardo alla matrice originale dei classici e una precisa attenzione rivolta al territorio. Intervista.

Quali sono le linee identitarie della nuova stagione appena presentata?

Una delle cose più difficili è identificare una programmazione: bisogna far sì che possa lavorare tutta una comunità teatrale e non solo quello che piace al direttore, altrimenti si rischia sempre di fare un’infornata di molti titoli, anche per venire incontro alle richieste del Ministero. Questa è la mia quarta e ultima stagione, ma le linee sono le stesse enunciate all’inizio del mandato e che sono per me responsabilità di un teatro nazionale: prima di tutto l’importanza dei classici, la restituzione dei testi il più possibile nella loro integrità e dunque la necessità di non piegarsi a riscritture, in un tempo storico in cui il pubblico non ha più l’idea della matrice originale, proprio perché il pubblico possa riappropriarsi di queste storie, con la stessa accuratezza, la stessa premura, che devono essere usate verso la produzione della contemporaneità; un altro dei temi che ho enunciato all’inizio del mandato è stata l’attenzione ai testi in lingua originale, come accaduto già la scorso anno con l’inaugurazione affidata a Milo Rau e su cui anche quest’anno ci concentreremo perché al Teatro Gustavo Modena, in in quartiere come Sampierdarena fortemente caratterizzato dalla presenza di una delle più grandi comunità latine al mondo e dove si parla prevalentemente il castigliano, l’apertura di stagione sarà La vida es sueño di Pedro Calderón de la Barca, messo in scena dalla Compañia Nacional de Teatro Clásico di Madrid con la regia di Declan Donnellan e le scene di Nick Ormerod. Ultima linea su cui ci sentiamo di insistere è il legame fortissimo con il territorio, sia dal punto di vista degli artisti locali sia delle realtà di valore che si interfacciano con noi, da consolidare e proteggere come patrimonio e alle quali destinare parte degli investimenti pubblici che riceviamo.

La vida es sueño. Foto di Javier Naval

Ci sono particolari progetti legati agli artisti del territorio?

Abbiamo cominciato due anni fa una serie di incontri che si chiamavano Il senso del sogno, aprendo per tre giorni la Sala Mercato a chiunque volesse venire a parlarci, da artisti riconosciuti ad altri più giovani che cercavano un dialogo: abbiamo creato le condizioni per ascoltare gli artisti del territorio chiedendo inoltre quali fossero per loro le modalità attraverso cui entrare in relazione con un Teatro nazionale. Questo ci ha portato a riflettere sul fatto che gli ultimi trent’anni hanno portato una totale mancanza di coraggio nell’essere visionari in quanto artisti, comunicando l’idea che esserlo è obsoleto o che fare teatro è un’attività che costa alla società. Abbiamo allora cercato di invertire questo orientamento e, agli artisti che venivano a dire di costare poco e di non essere esigenti, abbiamo detto no, che siano esigenti e che costino anche tanto, se c’è un’idea importante da sostenere per raccontare la realtà attraverso le arti. E questo dialogo avviene costantemente: la maggior parte degli spettacoli, per esempio, è prodotta e realizzata con artisti scelti tramite audizione.

Ecco, ad esempio di recente ho visto la pubblicazione di una chiamata pubblica per le audizioni di Fantozzi, la nuova produzione del prossimo anno che sarà a Genova a inizio stagione.

Sono arrivati seicento selftape: noi abbiamo scelto più o meno sessanta artisti che stanno facendo provini dal vivo in varie città, da cui verranno fuori i sette che saranno nella produzione. Più un teatro si apre alle audizioni e più è in grado di mostrare la propria identità, di rendere riconoscibile uno stile e soprattutto di restare in dialogo costante con la comunità teatrale.

Ci sono invece progetti diretti verso il pubblico?

Partendo dal presupposto che dopo il Covid tutti i teatri italiani si sono trovati a zero abbonati, ci siamo ritrovati a dover risalire una montagna; e i risultati di quest’ultima stagione, la prima senza il Covid, sono straordinari: 8000 abbonati, oltre 105.000 biglietti staccati, una comunità di under15 di quasi 20.000 ragazzi, oltre 20.000 iscritti alla newsletter. Per arrivare a questi risultati abbiamo dovuto fare delle scelte, anche creare eventi, grandi momenti comunitari con richiami nazionali e internazionali, fare attenzione a cosa e come si comunica l’andare a teatro, perché la furbizia della comunicazione pubblicitaria di stampo televisivo con il teatro non paga, se non a brevissimo termine, e bisogna invece esprimere un livello alto, non pensando che le persone abbiano bisogno ad esempio dell’occhiale da sole sulla faccia di Shakespeare o la radio hip-hop sulla spalla di Giuseppe Verdi. Noi dobbiamo dire ai cittadini che il teatro è un luogo di valore, che appartiene a loro e che non è espressione dell’ego del direttore o del regista, dove viene messa a disposizione l’arte e non un qualunque intrattenimento.

Coefore Eumenidi. Foto Federico Pititto

Quali interventi, da direttore di un Teatro nazionale, ti aspetti dalla politica culturale?

Io spero da tempo che la politica faccia una cosa sola: non cerchi artisti di destra o di sinistra ma finalmente – dal Dopoguerra a oggi non è mai avvenuto – sappia sdoganare la cultura dall’appartenenza politica, per testimoniare il fatto che la cultura, l’arte, sono beni difesi da tutto l’arco parlamentare, senza distinzione, perché garantiscono in ogni caso la qualità della vita di una comunità, di un territorio. Mi piacerebbe poi che tra il Ministero e i teatri ci fosse un rapporto diverso su due aspetti: prima di tutto sul numero di alzate di sipario annue, perché questo sovraffollamento di titoli rischia di far perdere per strada il contenuto artistico a fronte di un meccanismo quantitativo, quindi di tradire un po’ la missione che l’arte abbia concretamente impatto qualitativo sulla società. Dall’altro lato invece vorrei ci fosse più attenzione sulle coproduzioni e sulle tournée, perché non tutti sanno che c’è un limite ministeriale di vendita di uno spettacolo, quindi sostanzialmente un teatro sopravvive se fa girare un monologo o un testo con due attori; se invece si fanno produzioni più costose, tutto quello che è sopra la linea di quel limite lo paga il teatro che produce, non quello che acquista. Questo è un pensiero che noi all’interno dei teatri dobbiamo fare, perché se scegliamo di girare dobbiamo impegnare dei soldi pubblici che non vanno nella programmazione del nostro territorio ma di altri teatri in Italia e, dunque, dobbiamo scegliere per cosa vale la pena investire tante risorse.

La tua prossima produzione, abbiamo detto, sarà dedicata al Fantozzi di Paolo Villaggio, a tutti gli effetti una icona novecentesca. Qual è stato il motivo di questa scelta?

Dirò di più, anzi, parto con una dichiarazione di guerra: Gabriele D’Annunzio e Paolo Villaggio sono i due letterati che hanno cambiato l’italiano parlato e le modalità di rappresentare la vita attraverso la lingua nel Ventesimo secolo. D’Annunzio si percepisce più in filigrana, Villaggio è diffusissimo in ogni generazione, si è talmente impossessato dell’immaginario che ho trovato l’idea di farlo a teatro decisiva per l’evoluzione attuale del nostro paese, perché c’è sempre un po’ di pudore verso chi è così profondamente comunicativo, un difetto di autoreferenzialità della cultura cosiddetta alta, mentre ritengo Paolo Villaggio un sommo poeta delle umane fragilità.

Agamennone. Foto Federico Pititto

Come ti poni rispetto alla questione della parità di genere e alla difficoltà per le donne di avere accesso alle opportunità di carriera?

Se in questi anni ho prodotto delle regie femminili non è certo per un discorso di quote rosa: a me interessa la qualità e abbiamo delle donne che sono delle grandi anime di teatro; e poi, se vogliamo rendere il discorso più ampio, noi abbiamo secoli di mondo rappresentato dagli uomini, vederlo ora rappresentato dalle donne è emozionante.
Ci tengo infine ad aggiungere io una piccola cosa. Qualche tempo fa in un vostro articolo sulla mia Orestea il giornalista (Pocosgnich, ndr) ha dato spazio in apertura a una protesta di uno studente che era piuttosto critico sullo spettacolo. Mi ha molto colpito e ne sono stato felice, perché nel teatro che ho in mente voglio che ci sia anche il dissenso. Per manifestarlo intanto bisogna coltivare la coscienza della matrice: chi fa buuu nell’opera, per una nota stonata o una rappresentazione infedele, lo fa perché la conosce; se diversamente io metto in scena opere mescolate, contaminate, in cui Amleto sta insieme a Riccardo III e alle canzoni di Vasco Rossi, chi lo conosce più il testo originale? Ecco, io vorrei che il pubblico fosse attivo e potesse manifestare liberamente una critica, che uscissimo dal meccanismo del consenso a priori che è l’opposto della partecipazione.

Simone Nebbia

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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