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SE CI FOSSE LUCE (di Francesca Garolla)

Questa recensione fa parte di Cordelia, maggio 2023

ph Luca del Pia

Buio. Il suono dei passi. Dal baule Anahì Traversi estrae un videoproiettore e lo posa su un lungo tavolo centrale. Lo spettacolo prende avvio dall’immagine, le diapositive scure si susseguono con le note scritte dalla regista Francesca Garolla e introducono lo spettatore in una zona instabile, di penombra visiva ma anche segnica, di cui è difficile scorgere i confini. Marco Grisa ne costruisce gli ambienti con essenziale precisione, per restituirci un nucleo percettivo denso, dal sapore freddo e metallico. Lo spazio che si crea è un non-luogo di discussione e revisione, usato da Garolla per analizzare «Quando la colpa entra nella libertà e la pietà entra nella colpa» e dove mettere l’essere umano sotto giudizio nel tentativo di comprendere ancor prima che condannare. Riprendendo nel titolo le parole di Aldo Moro, Se ci fosse luce, rappresenta il terzo capitolo di una trilogia drammaturgica che affronta il tema della libertà di scelta e le sue implicazioni tra responsabilità personali e collettive. L’indizio è il suono proveniente da un mangiacassette che riproduce l’ultima telefonata avvenuta il 9 maggio 1978 tra il brigatista Valerio Morucci e Francesco Tritto. Quattro personaggi poi entrano in scena e raccolgono ciò che di quella registrazione è traccia mnemonica, ossessivamente ripetuta dai gesti materici che generano un’eco alle serrate conversazioni. Le voci di due donne, figlie anonime delle vittime, e di due uomini, padri colpevoli, ricostruiscono i frammenti di quegli avvenimenti, concentrandosi, nell’intento di Garolla, sulle complesse psicologie, sulle implicazioni morali, sociali, politiche. Sulle sfere umane. La drammaturga dimostra così una interessante capacità di rilettura di un fatto storico già ampiamente conosciuto e l’indagine della sua scrittura genera intrecci, riferimenti e collegamenti tra vicende, in un connubio disorientante davvero ben riuscito tra realtà e finzione, attraverso le modulazioni sofisticate di una ricerca sintattica in perenne tensione. Tensione che nelle scelte registiche – rigorose ma troppo contenute – andrebbe maggiormente maturata e dilatata, per aprirsi alla percezione di un pubblico che il peso di quella Storia nascosta ancora oggi non l’ha del tutto compreso né elaborato. (Andrea Gardenghi)

Visto al LAC di Lugano. Crediti: testo e regia Francesca Garolla, con Giovanni Crippa, Angela Dematté, Paolo Lorimer, Anahì Traversi, scene Davide Signorini, costumi Margherita Platé, disegno luci Luigi Biondi, suono Emanuele Pontecorvo, assistente alla regia Francesca Merli, direttore di scena e datore luci Marco Grisa, fonici Emanuele Pontecorvo, Antonello Ruzzini, sarta di scena Margherita Platé, produzione LAC Lugano Arte e Cultura, in coproduzione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale. Ph Luca Del Pia

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Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi, nata in Veneto nel 1999, è laureata all’Università Ca’ Foscari di Venezia in Conservazione e Gestione dei Beni e delle Attività Culturali. Prosegue i suoi studi a Milano specializzandosi al biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali dell’Accademia di Brera. Dopo aver seguito nel 2020 il corso di giornalismo culturale tenuto dalla Giulio Perrone Editore, inizia il suo percorso nella critica teatrale. Collabora con la rivista online Teatro e Critica da gennaio 2021.

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