Al Kunstenfestivaldesarts per un’intervista con uno dei due direttori, Daniel Blanga Gubbay. Un dialogo che mette al centro le possibilità plurali del festival, lo sguardo al mondo e la responsabilità condivisa della curatela.
“Parlo la mia lingua in terza persona”. Così la poetessa libanese Mirene Arsanios inquadra il proprio distanziamento, rispetto alla lingua di appartenenza. Questo iato, questa adesione non simmetrica, crea un varco che può descrivere la realtà, senza tuttavia corrisponderle.
In questo spazio fertile di possibilità, si colloca il Kunstenfestivaldesarts. – l’importante festival internazionale delle arti contemporanee di Bruxelles, dall’11 maggio al 3 giugno – in una ventottesima edizione che esplode il tema dei linguaggi e ne coglie le varie rifrazioni.
Tra gli artisti presentati: Ahilan Ratnamohan che investiga la relazione, costantemente in divenire, tra linguaggio e identità; Sarah Vanhee attraverso la figura della nonna e il rapporto con il fiammingo, racconta la lingua moderna e la società; Calixto Neto esplora con una coreografia le tecniche di apprendimento linguistico; l’installazione di Basel Abbas e Ruanne Abou-Rahme evidenzia il potere di resistenza della forma poetica. E ancora Léa Drouet, Kate McIntosh, Gosia Wdowik, Amir Reza Koohestani, Victoria Lomasko, e Rayyane Tabet e molte/i altri/e. Presenti anche I Kepler 452 che, con Il Capitale, portano in scena gli occupanti della fabbrica GKN di Campi Bisenzio per raccontare l’emersione delle vite, quando si arresta la produzione.
Dal 2018 la direzione del festival è affidata a Daniel Blanga Gubbay, insieme a Dries Douibi.
Ricercatore e curatore, ha preso parte al progetto Live Works, a Centrale Fies, ha curato diversi programmi discorsivi e performativi (per Homo Novus a Riga, Manifesta a Palermo, Biennale di Yekaterinburg). Ha conseguito la laurea specialistica con Giorgio Agamben a IUAV, a Venezia, e un dottorato in Studi culturali a Palermo, ed è professore all’Académie des Beaux Arts di Bruxelles. Insieme a Paola Villani, diede vita alla compagnia sperimentale Pathosformel, con cui vinse il Premio Ubu per il progetto speciale e il Premio Scenario.
Lo abbiamo incontrato a Bruxelles, per raccogliere alcune riflessioni intorno al Kunstenfestivaldesarts, che continua a svolgersi in una molteplicità di spazi, permettendo un attraversamento di diversi quartieri della città e incontrando le tante comunità attive.
Cosa sono le pratiche di co-curatela/co-immaginazione e come le applichi nel contesto del Kunstenfestivaldesarts?
Da anni mi ero interessato a una riflessione teorico/filosofica intorno al concetto storico di co-curatela, chiedendomi quali siano dunque le azioni rispetto alle possibilità del pensiero condiviso e dell’immaginazione come uno spazio da coabitare, che si forma e modella a partire da diverse corresponsabilità.
Nell’ambito del lavoro di direzione artistica del Kunstenfestivaldesarts – insieme a Dries Douibi – la co-curatela esiste come una pratica presente su due livelli. In primo luogo, noi non componiamo il programma separatamente, decidiamo insieme ogni lavoro; assumendo la differenza irriducibile di affinità e sensibilità tra noi due, selezioniamo un lavoro quando siamo entrambi convinti della nostra abilità a difenderlo, affinché non ci sia cioè uno scarto di responsabilità. C’è poi un secondo livello di co-immaginazione: il Kunstenfestivaldesarts è un festival di creazione, ci sono perlopiù première, molti lavori debuttano e hanno una fase di creazione in quelle date; perciò le conversazioni tra noi curatori e artisti vertono intorno a cose che ancora non esistono. Lavoriamo verso l’ignoto, a progetti che ancora non esistono, in una molteplicità di spazi che cerchiamo a partire dalle creazioni: il festival ha dunque questa possibilità di non irrigidirsi in un formato o in uno spazio dato. Per me questo apre a una modalità tangibile e profonda di co-immaginare con gli artisti perché a partire dall’idea del progetto artistico ci si va a interrogare sulle condizioni ottimali che permettono la sua condivisione al pubblico.
Perché lo sforzo di una curatela condivisa?
Io e Dries [Dries Douibi NdR.] abbiamo partecipato insieme, con un’unica domanda, alla candidatura al festival nel 2018. Al tempo c’erano forse molte meno direzioni bicefale o collettive, anche a Bruxelles. Ci domandiamo se la direzione artistica in questo senso sia una posizione o un progetto. La funzione rimane definita anche quando è condivisa, il festival ha una complessità di struttura tale che per noi era importante rivendicare questa possibilità, piuttosto che centralizzarla su un’unica persona. Dall’open call a oggi, continuiamo a trovare che sia una scelta incredibilmente fertile, tra noi e oltre noi. Per me queste pratiche hanno a che fare con una riflessione sull’idea di interdipendenza e intelligenza collettiva.
Parliamo della programmazione internazionale del festival.
Il Kunstenfestivaldesarts ha sempre avuto vocazione internazionale: la maggior parte dei progetti provengono da artisti e artiste che non vivono in Belgio, e spesso nemmeno in Europa.
Una delle questioni per me centrali è cercare di non ridurre mai artisti e artiste a ambasciatori di una cultura altra. La perdurante eredità di un immaginario coloniale si traduce ancora oggi in una consumazione esotica della cultura, di riduzione di un contesto complesso ad immagine semplificata. Ci piace pensare al festival come un luogo per poter aggiungere complessità a quello che si sa o presume di sapere, non di restituire al pubblico quello che si aspetta di vedere da un territorio, ma anzi di mostrarne le contraddizioni. Per questo, ad esempio, non comunichiamo la nazionalità degli artisti, ma la città in cui abitano. Si tratta di un piccolo scarto, ma crediamo che il luogo in cui si abiti possa raccontare di più del modo in cui si arrivi a un festival rispetto alla nazionalità di provenienza, che rischia invece di scivolare in una violenza omogeneizzante. In questi giorni c’è la prima di Amir Reza Koohestani, il quale una volta mi disse:“Al Kunstenfestivaldesarts ho l’impressione che il pubblico venga in sala a vedere i miei lavori perché si tratta di me in quanto artista e non in quanto artista iraniano”.
In fondo facciamo un festival internazionale soprattutto perché il pubblico di Bruxelles ha bisogno di essere posto di fronte a una polifonia di voci da diverse città del mondo: la complessità che genera è a livello locale ed è a vantaggio dei cittadini, della scena artistica locale, della cultura immateriale di un territorio. Ribadirlo è importante perché troppo spesso c’è l’equivoco che dietro a una programmazione internazionale ci sia un afflato di solidarietà, mentre non è questo il focus, è molto di più quello che questi artisti danno a noi, rispetto a ciò che noi diamo a loro.
Quale pubblico partecipa al festival?
Il Kunstenfestivaldesarts è nato – per opera di Frie Leysen e Guido Minne – come strumento per federare diversi luoghi della comunità francofona e fiamminga a Bruxelles, una delle poche istituzioni cittadine a mettere insieme due comunità linguistiche differenti. La sua stessa esistenza è resa possibile dalla collaborazione con altri partner e luoghi, l’interdipendenza riveste un aspetto essenziale. Adesso il festival avviene in 30 luoghi differenti della città, in venues che partecipano al festival, ma abbiamo anche aperto la collaborazione con molti nuovi luoghi. Il festival lavora molto con le associazioni, le scuole, non solo come potenziale pubblico, ma con la possibilità di costruire dei progetti insieme. Anche questo si lega a uno degli aspetti della co-immaginazione: non pensare un progetto per altri, ma aprire alla possibilità di una riflessione rispetto a quello che il festival può fare insieme.
Puoi spiegare il progetto di Tania Bruguera, The School of Integration?
In Belgio ci sono due lingue nazionali: francese e fiammingo, e devono essere imparate per essere pienamente integrate. The School of Integration ribalta il concetto comune di integrazione, rivelando invece come sia possibile immaginare l’integrazione come un processo orizzontale di conoscenza dell’altro e non come inscrizione all’interno di una cultura egemonica.
Tania Bruguera ha accompagnato e formato cittadini e cittadine, la cui lingua madre non è né il francese, né il fiammingo, a dare corsi di lingue per la durata di tutto il mese del festival: corsi di arabo, lingala, mandarino, cinese, portoghese, ucraino – tutte lingue legate a comunità che hanno storie diverse, condizioni diverse al loro arrivo a Bruxelles. L’importanza del progetto è anche nella non omogeneizzazione dei percorsi di migrazione, molto spesso generalizzati.
Giulia Muroni
Un video su The School of Integration, progetto di Tania Bruguera