Angels in America di Tony Kushner visto a Parigi, presso la Salle Richelieu della Comédie Française, con la regia di Arnaud Desplechin. Recensione
La pièce in due atti di Tony Kushner Angels in America (1990) è andata in scena alla Salle Richelieu della Comédie Française, sotto la regia del cineasta Arnaud Desplechin, da marzo a maggio 2023. È la seconda volta che Desplechin mette in scena la pièce di Kushner: lo aveva fatto nel 2020 con la stessa équipe, riscuotendo un successo condiviso soprattutto imperniato sul particolare tipo di adattamento scelto dal regista. La trama è questa: è il 1985, New York. L’exploit dell’AIDS ridefinirà le relazioni sentimentali degli omosessuali, ma anche le loro relazioni con il contesto politico e sociale dell’America di quegli anni. In particolare, si segue il destino di due coppie: Joe e Harper Pitt, coniugi appena sposati che vivono una crisi matrimoniale dovuta anche al repentino coming out di Joe; Prior e Louis, messi alla prova dalla scoperta della malattia del primo, alla quale consegue, da parte del secondo, la tragica tentazione di abbandonarlo al suo destino.
La scenografia di Rudy Sabounghi cerca di rendere giustizia al carattere epico del testo di Kushner. Desplechin sceglie di operare in questo modo: per realizzare il progressivo accavallarsi delle trame individuali non chiude mai una scena senza immediatamente aprire la successiva, in modo da creare un susseguirsi di 44 momenti che necessitano di un gran virtuosismo – da parte degli attori e dei tecnici – per scivolare l’uno nell’altro senza soluzione di continuità. Se questo taglio ha il merito di poter riassumere una trama molto lunga in tre ore, dall’altro lato non permette a chi assiste di lasciar decantare ciò che osserva. Elemento notato anche dalla critica che, rispetto alla prima rappresentazione, ha rimarcato come Desplechin voglia privilegiare l’efficacità allo scandalo. Per di più, anche i personaggi sembrano stretti in una morsa temporale che non lascia loro la possibilità di esprimersi se non in forma enfatica, esagerando i gesti e le voci. Il tutto sembra armonizzarsi in modo da trasformare quello che accade in scena in una serie di sketch. L’epopea diventa così commedia – e non nel senso balzachiano del termine.
Lo spettacolo ruota attorno alla performance dell’attore Michel Vuillermoz (alias Roy Cohn), l’ennemi principal della pièce. Egli incarna l’obiettivo polemico di Kushner, essendo anche l’unico personaggio calcato su misura sull’avvocato maccartista celebre non solo per aver condannato alla sedia elettrica Ethel Rosenberg, ma anche per aver rinnegato la sua omosessualità e l’essere affetto dall’AIDS – di cui morirà nel 1986. Gli altri personaggi sembrano giocare all’imitazione di sé stessi, all’auto-caricatura – come Harper Pitt, moglie dell’avvocato mormone Joe Pitt, in preda a una crisi depressiva e in una crescente dipendenza dal valium. Harper (Jennifer Decker) esaspera il carattere della Harper kusheriana – che in nessuna pagina lascia intendere che il personaggio debba comportarsi istericamente. Se guardiamo alla storica serie tv HBO – il parallelo è permesso anche dal fatto che Desplechin è prima di tutto regista cinematografico – Harper è una donna lucida (e infatti indovina prima del marito la sua omosessualità) che asserisce senza gridare e senza dimenarsi inutilmente. È insomma probabile che Desplechin abbia ricercato una certa complicità col pubblico senza destabilizzarlo. Qualcosa non torna: come è possibile uscire dalla sala di Angels in America senza essere minimamente scandalizzati, scioccati, toccati? È forse la scorza dello spettatore medio ad essersi ispessita fin troppo?
La pièce necessita, per essere compresa, di essere rivista più di una volta, proprio alla luce del flusso di impressioni inarrestabili che non consentono una riflessione immediata. In entrambe le serate in cui ho potuto assistervi alla Comédie, si poteva constatare a partire proprio dal tipo di pubblico, un controsenso. Senza considerare il calo preoccupante dell’affluenza che riscontrano le sale francesi da due anni a questa parte e che riduce drasticamente la varietà del pubblico, in Angels in America tra gli spettatori vi era una evidente assenza di quella che è chiamata comunemente “fascia giovane” – se escludiamo le scolaresche. Il processo di canonizzazione di un testo assolutamente hors norme come quello di Kushner porta a questa normalizzazione, per la quale lo spaccato di pubblico che vi assiste è, da una parte, lo stesso di chi assiste a Molière, Brecht, Cechov, dall’altra un ammasso di liceali che è probabilmente lì contro-voglia. Tutto ciò disinnesca la portata politica del testo di Kushner. In più, trattare la pièce come una sceneggiatura cinematografica non fa che accentuare – come già accennato – un ritmo interrotto costantemente dai cambi di scena, dalle fotografie di New York proiettate sullo sfondo (una sorta di caricatura della Grande Mela).
Il pubblico ride, si diverte, si compiace persino quando Roy Cohn urla “saloppe” al telefono insultando una sua cliente. Forse, l’inghippo di questa pièce, o meglio dell’adattamento di Desplechin, è quello di averla annacquata (per la seconda volta) al fine di renderla commestibile. Cosa che, rileggendo il testo originale, è lungi dall’essere verosimile. Insomma, questa rappresentazione ha il merito di sollevare un punto nevralgico: ammesso che, come Desplechin, si scelga di non riadattare alla contemporaneità la pièce – che, ricordiamo, si svolge negli anni ’90 –, è ancora possibile non cedere il passo a una mercificazione dei suoi contenuti più significativi? È possibile, cioè, trovare un canale comunicativo che non si lasci a sua volta corrompere dallo stereotipo e dal sensazionalismo?
Artin Bassiri
Parigi, Aprile 2023, Comédie-Française
French text: Pierre Laville
Stage version and direction: Arnaud Desplechin
Scenography: Rudy Sabounghi
Costumes: Caroline de Vivaise
Lights: Bertrand Couderc
Sound Sébastien Trouvé
Artistic c****ollaboration : Stéphanie Cléau
Stage assistant: Stéphanie Leclercq
scenography and video assistant: Julien Soulier
Costumes assistant : Magdaléna Calloc’h