| Cordelia | aprile 2023 

 

Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.

Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo.

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#ROMA

ABOUT ELIZABETH (Elliot Teatro)

Nella pellicola del 1998 diretta da Shekhar Kapur Cate Blanchett avanza verso la cinepresa, il volto imbiancato è la sua ascesi, Elisabetta è ora un'entità più vicina a Dio che agli esseri umani. Ha rinunciato agli affetti, ha rinunciato alla propria carne per farsi regina. La giovane compagnia Elliot Teatro prendendo spunto da Orlando di Virginia Woolf ribalta questa visione: la regina ha bisogno di “staccare”, oggi si direbbe, e così trova qualcuno che possa prendere il suo posto. Di fronte al pubblico di Fortezza Est la vicenda è agita dal momento in cui il poeta Orlando chiede udienza in cerca di fortuna, il giovane oltre a mettere in mostra le proprie capacità artistiche rivela un'identità complessa, fluida, in cui Elisabetta scorge la possibilità del femminile. Sarà Orlando a vestire i panni della regina; Elisabetta d’altronde è stata anche la monarca che ha dato il proprio nome all’epoca d'oro della rappresentazione, quella di Shakespeare e dei suoi contemporanei; storia e leggende si mescolano trovando sul palco un punto di fusione in cui la parola è solo una delle espressioni in gioco. Leonardo Bianchi, regista del gruppo e interprete del ruolo di Orlando, inventa un linguaggio teatrale in cui l’impianto visivo e soprattutto la stratificazione sonora (nelle musiche di Gian Maria Labanchi) chiedono allo spettatore di lasciarsi trasportare dai diversi livelli linguistici. Elisabetta è sempre pronta alla festa, sul fondo Labanchi con il suo tavolo di regia è uno sprezzante musicista di corte. Nei microfoni la regina di Maria Campana trova riverberi ed effetti vocali sorprendenti. Degli abiti rinascimentali rimangono le gorgiere e la ricerca di certi fasti che però si mescolano con un gusto e un’ironia moderni, come per gli occhiali da sole delle due dame di corte. E appunto l’ironia e la leggerezza sono tratti distintivi di un lavoro di gruppo che non rinuncia alla spettacolarità, mescolando la ricerca sonora live con le contaminazioni pop, ma sempre con un rigore generale in grado di tenere insieme i diversi piani. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Fortezza Est. Drammaturgia Leonardo Bianchi Gian Maria Labanchi Regia Leonardo Bianchi Con Leonardo Bianchi Maria Campana Anna Chiara Fanelli Claudia Guidi Gian Maria Labanchi Luigi Pedranzini Musiche Maria Campana Gian Maria Labanchi Progetto grafico Alessandro Bianchi Comunicazione Giulia Tremolada

GUARDARE IL SOFFITTO (di e con Giulia Francia)

Guardare il soffitto, neonato progetto dell’attrice e performer Giulia Francia scandaglia, mette in moto e ferma degli assunti sulla persona, semplici e empaticamente condivisibili, e nel mentre l’attrice li elenca, sola nella scena di Fortezza Est, dice di farlo. Una scrittura che è quindi una didascalia ridondante, circolare su se stessa, che si avvoltola come una coperta attorno alle fragilità: «Non voglio ricevere insulti. Non voglio ricevere complimenti. Non voglio niente. Solo quello che mi spetta. Mi aspetto tanto. Mi aspetto molto. Ma non arriva niente. Allora aspetto ancora». La malìa per la paranoia, e anche lo sforzo impiegato per allontanarsene, freme il corpo, lo sguardo, i nervi delle mani, le spalle: «Ma ci ho messo del tempo a capire che le forze della natura, sono un turbinio di forze confuse, travolgenti, che fanno fatica a direzionarsi». Nella pesantezza delle parole pronunciate impersonando diversi punti di vista, la bambina capricciosa, la donna sola, la vecchia rancorosa, l’attrice che si abbandona allo spiegone curatoriale; e nelle domande che incalzano questo esercizio di complessità - «Cosa ho scritto? Ti sei mai sentita così? Anche tu ti sei sentito così, qualche volta? Siamo tutti uguali?» traspare il riferimento all’osservazione della vita da parte degli Hikikomori che tuttavia non è definito, non c’è nella drammaturgia quella esasperazione del ritiro sociale, anzi, è un’eventualità…E nonostante la prossemica delle diverse voci debba ancora essere rodata, il finale aggiustato nel ritmo per dare incisività al salto, alcune parti limate per non farle tendere alla lamentatio; G.I.S, acronimo di “guardare il soffitto”, come indicato nel copione, è uno sfogo utile, un singulto necessario all’atterraggio, per cui si ha la sensazione di cadere ma poi in fondo non si cade e in quella sospensione del percorso da un punto all’altro, si può scegliere di tornare su: «Stavo pensando. Ho visto in tv che ci sono delle funi dove tu ti ci lanci, ma sei attaccato».

Visto a Fortezza Est: di e con Giulia Francia

#NAPOLI

SOGNO DA UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE (regia di Rosario Sparno)

Portare in scena Shakespeare è un esercizio teatrale e immaginativo di non poco conto che non ha nulla a che vedere con la ricerca dell’originalità scenica, quanto piuttosto con l’intelligenza (e l’interesse) di creare una prossimità irresistibile col pubblico, e di portare la magia della finzione per terra tra i piedi degli spettatori. Lo spazio del palcoscenico non è fatto di delimitazioni, ma di condivisione d’aria. Sogno d’una notte di mezza estate è effettivamente un gioco tra reale e finzione, tra il di qua e il di là, uno spazio cangiante in cui fate e uomini (e attori) convivono. Attori e uomini non sono la stessa cosa; il corpo dell’attore è lo spazio della scena, elemento evocativo dell’altra realtà: quando spalanca le braccia può diventare un muro, e se allarga le dita vuol dire che quel muro è crepato. Quando getta una manciata di foglie secche per terra, vuol dire che pochi attimi dopo potrà apparire una fata perché quello è il suo bosco. Attorno all’altalena di Puck (Lukas Lizama) si dispongono gli attori; nella realtà, uomini e donne improbabili, un po’ meschini e alquanto ridicoli, nella finzione, eroi indimenticabili. C’è chi (Angelica Bifano) nella vita vera è una macchietta con difficoltà locutorie, e nella finzione diventa la bellissima Ermia, promessa sposa di Demetrio (Luca Iervolino), amica di Elena (Biagio Musella) e innamorata di Lisandro (Gennaro Apicella). Ma Elena e Lisandro possono essere anche fate, così come Puck può diventare un albero, così come Elena e Demetrio possono diventare un muro. Il brillante riadattamento di Rosario Sparno rispetta la complessità dell’attore come spazio della finzione, e le sue maschere come architetture del teatro. Architetture più che mirabili: in particolare, Musella e Apicella, solidi e generosi, avanzano come una nuova convincente generazione di giovani attori che fanno della maschera un elemento della modernità, mai nostalgici e pieni d’inventiva. Il pubblico gioisce di un gioco così portentoso.

Visto a Sala Assoli, Napoli; Crediti; Da William Shakespeare; Adattamento e regia di Rosario Sparno; Aiuto regia Antonella Romano; Con Gennaro Apicella, Angelica Bifano, Luca Iervolino, Lukas Lizama, Biagio Musella; Scena Omar Esposito; Luci Simone Picardi; Costumi Giuseppe Avallone; Foto di scena Pino Miraglia; Produzione Casa del Contemporaneo.

PRÓXIMO (di Claudio Tolcachir)

Pablo ed Elian (Lautaro Perotti e Santi Marín) condividono uno spazio ristretto; elementi d’arredo molto diversi tra loro si  dispongono in un appartamento in cui i due possono muoversi un po’ a fatica. Ma la loro non è che la piacevole impressione di stare sempre assieme, poiché comunicano solo per mezzo di videochiamate. Non si sono mai fisicamente conosciuti: uno è un famoso attore spagnolo della televisione, l’altro è un lavoratore argentino emigrato in Australia. Il loro è uno spazio di proiezione emotiva, ma realistico proprio per quella familiarità con cui i due protagonisti vi si muovono. Un realismo "manualistico" fa della scena una teca priva d’aria. Le regole mielose del melodramma gestiscono le loro esistenze ben inquadrate in meccanismi di riconoscibilità narrativa; i ruoli e le azioni con le loro ragioni sono talmente smascherate da risultare facilmente prevedibili, se non proprio scontate. Anche i principi del genere sono seguiti con eccessiva pedanteria, senza vigore o estro. Ciò che li identifica è l’appartenenza a classi diverse: Pablo è un ricco viziato e un po’ superficiale, figlio oppresso di un politico reazionario, e con difficoltà ad accettare completamente la propria sessualità; Elian si arrangia come può tra numerosi lavori, una vita isolata, la preoccupazione per la madre malata, e il pressante problema dei documenti scaduti. Non ci sarebbe nulla di male se tutti questi elementi non avessero una sola funzione molto semplice: strutturare una storia d’amore che possa piacere a colpo sicuro a chiunque. L’aspetto emblematico della vicenda è mortificato dalla debolezza delle sue motivazioni: di sicuro coerente con l’idea che le brevi chiamate e la distanza aprano dei vuoti e delle mancanze nella visualizzazione di un individuo. Ma Pablo ed Elian non hanno vita; ciò che potrebbe meglio caratterizzarli viene lasciato allo stato di bozza, esattamente come i contesti in cui sono immersi, probabilmente perché non sono utili: approfondire con cura, scavare, vuol dire incontrare il gusto di alcuni e non di tutti.

Visto a Teatro Sannazzaro, Napoli; Crediti: Scritto e diretto da Claudio Tolcachir; Con Lautaro Perotti e Santi Marín; Scene Sofia Vicini; Costumi Cinthia Guerra; Luci Ricardo Sica; Produzione Timbre 4 – Carnezzeria

#ROMA

STAND UP POETRY (di Lorenzo Maragoni)

Una storia che ci contenga tutti, che ci faccia sentire parte di un destino collettivo, oppure una storia qualsiasi di una persona qualsiasi persa nel supermercato a inventarsi nuove identità da acquistare in offerta. Di questo ha bisogno Lorenzo Maragoni, poeta, attore e campione mondiale di Slam Poetry 2022: di una storia. Perciò questo fa, radunando attorno a sé il pubblico dell’Argot Studio: racconta storie. Il suo è il sorriso accogliente del poeta che nel 2023 non può e non vuole mettersi in posa, perché ha bisogno che la poesia sia una cosa viva, che viaggi per il mondo “dritta”, che vada a capo solo per lasciare quel vuoto utile a farsi riempire ancora. Il suo spettacolo fonde la Stand Up Comedy con la Slam Poetry, servendosi del classico palcoscenico sgombro, di uno sgabello utile solo a sorreggere un sorso d’acqua e dell’asta di un microfono cui poggiarsi. Con leggerezza i versi sciolti si alternano alle rime e alla prosa, in un’ora di saliscendi tra universale e quotidiano, miseria e sublime, gioia e profondo dolore. Tutti sono poeti, meglio sarebbe non esserlo eppure quanto ne gioveremmo se tutti scrivessimo, riconoscendo alla poesia il potere di essere la porta su questo mondo incomprensibile, consolazione e condanna, altrove e hic et nunc. Maragoni sfrutta benissimo la propria fresca presenza, la mimica facciale allenata a quel dire che tocca la performance, ma non si prende mai sul serio. Con gli occhi e il sorriso corre incontro al pubblico finché il suo declamare diventa un sussurro e inavvertitamente ci si ritrova sul palco con lui, vicini e protesi alla verità del suo scanzonato giocare con le parole. (Sabrina Fasanella)


Visto all’Argot Studio.
Di e con Lorenzo Maragoni.
produzione TRENTO SPETTACOLI

1936#CERCO MIO FIGLIO#SI CHIAMA FEDERICO (di M. Carniti)

Non c’è biografia che possa contenere l’anima di un poeta, i suoi paesaggi interiori, il suo sguardo sul mondo. Neanche declamarne i versi può restituire più di un’ombra della persona e del suo destino, antologia di segni. Soprattutto se il poeta è Federico García Lorca, il cui corpo barbaramente ucciso e mai rintracciato giace ancora nelle fosse comuni della guerra civile spagnola. Marco Carniti sceglie di raccontarlo consegnandone i versi a una voce altra e medesima, quella della madre che lo ha perso. La lettera iniziale del suo nome, lapide mai esistita, campeggia proiettata su uno schermo quando Carniti - spirito, guida, cronista – giunge dalla platea a inaugurare il viaggio. In un teatro da distruggere, spoglio e scarno, pronto a farsi abitare soltanto dalla vibrante presenza invisibile del duende, Caterina Vertova è Vicenta Lorca Romero. L’urlo soffocato del suo appello è cante jondo e fierezza, finestra aperta e cancello chiuso. La drammaturgia di Francesco Tozzi è frutto di un’attenta selezione: non c’è invenzione, ma composizione di un mosaico di versi del poeta che splendono di profetica efficacia sulle labbra della madre. Vertova è terra e sangue, piedi nudi e voce che esplora senza esitazione. Attorno a lei, come spiriti vorticanti, le scene di luce proiettata del pittore catalano Frederic Amat. Pochi gli elementi che la circondano, un tablao che è insieme palco e ambone, qualche fotografia, un ventaglio, mai didascalici. La messa in scena alterna verso e cronaca, volo e schianto, nel dialogo tra Carniti e Vertova: l’uno presta la voce alla Storia, all’inchiesta, al fatto reale. L’altra lo assorbe, se ne fa abitare, nella veglia permanente del dolore, con la dignità muta e ferma della perdita, l’ostinazione contro l’ingiustizia, la fede nella bellezza. “Quando morirò, lasciate il mio balcone aperto”: i versi di congedo di Lorca si compiono nello spettacolo. Il balcone è aperto, quell’universo poetico è così potentemente evocato che potrebbe fare a meno del racconto didascalico dei fatti. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro Off-Off. Con Caterina Vertova e Marco Carniti. Testi di Federico García Lorca. Drammaturgia Francesco Tozzi /Marco Carniti. Scenografia Video Frederic Amat. Musiche Originali David Barittoni. Aiuto regia Francesco Lonano. Regia di Marco Carniti

MARINELLA (Di S. Riggi Regia C. Pagliucchi)

Marinella, Miché, Don Raffaé e Cicirinella: impossibile nominarli senza canticchiare le melodie che Fabrizio de André ha dedicato loro, ispirandosi a protagonisti della cronaca che la sua musica ha reso archetipi. Salvatore Riggi, classe 1996, prende in prestito questi nomi e destini e li fa incontrare nella Napoli degli anni 80, immaginando un intreccio che convergerà nell’epilogo raccontato da Faber. Cicirinella e Michele sono amici e complici di piccoli reati, uniti soprattutto dall’amore per Marinella, giovane prostituta che sogna di cambiare vita per amore. L’attrice che la interpreta (Roberta Di Somma) è delicata e innocente fin nel costume, a rappresentare più che la malavita, la freschezza della gioventù, la possibilità di riscatto, il desiderio di una vita libera. Ma Don Raffaele, boss giovane ma già potente e colluso con la polizia, ha in mano le loro vite. Se Marinella è l’oggetto del desiderio, Cicirinella (Mariano Viggiano) è il personaggio drammaturgicamente più efficace e completo: scanzonato e furbo, è lui a muovere la vicenda, disposto a sacrificarsi in nome dell’amicizia in un efficace climax emotivo. Il mood è quello di una storia di malavita, amicizia e amore, con gli ingredienti tipici del cinema e della tv di genere. La messa in scena si serve di contributi video che punteggiano lo svolgimento drammaturgico mutuandolo all’inchiesta televisiva; seppur ben realizzati e utili a gestire i diversi salti temporali della storia, a tratti compromettono il ritmo e la fluidità della narrazione, già divisa visivamente sui due palcoscenici perpendicolari del teatro Lo Spazio. Anche le scelte musicali, escludendo a ragione il repertorio di De André, sembrano confermare l’immaginario cinematografico/seriale che la regia di Christian Pagliucchi assegna alla messa in scena: naturalistica e al servizio della vicenda, dunque priva di quello slancio onirico/poetico che avrebbe maggiormente coronato la derivazione dai celebri brani del cantautore genovese. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro Lo Spazio. Di Salvatore Riggi. Regia: Cristian Pagliucchi. Con: Bruno Ricci, Roberta Di Somma, Cristian Pagliucchi, Luca Carbone, Mariano Viggiano. Video: Matteo Genovese.

MADRE (Teatro delle Albe)

Prima delle parole di Marco Martinelli c’è Nora, “non volevo diventare come lei: era vecchia, aveva mani grosse e dure[...], la gente diceva che era una strega”, scrive Ermanna Montanari nel curatissimo libro di sala di Madre. E poi c’era il pozzo dove la vecchia Nora portava la bambina, sollevandola per farla guardare in basso, nel vuoto, “nel gran buio, un’eco assordante del boato della nostra voce”. La voce appunto, suono interiore, cercato nei decenni passati, perché Ermanna Montanari è ancora qui, presente alla sua ricerca, intenta a cercare quei toni, quei colori scuri, striduli con i quali dare voce alle streghe. Questo amore, questa cura da parte dell’artista verso il proprio talento, la propria ricerca, dopo tanti anni è commovente. Siamo nella sala studio dell’Auditorium, qui il Teatro delle Albe ha portato un concerto scenico, un lavoro suggestivo fatto di suoni dal vivo, quelli del contrabbasso di Daniele Roccato, delle voci spaventevoli di Montanari e delle immagini create, anche queste dal vivo, da Stefano Ricci. E, dalla prima fila, di Ricci si posso sentire i respiri, gli affanni, la fatica tutta performativa che impiega in questo atto quasi mistico, nel quale abbandona se stesso a una sorta di trance artistica in cui elabora e poi cancella ciò che appare proiettato su un fondale circolare, il pozzo della nostra visione. La storia ribalta la consuetudine, non è il solito incubo genitoriale, non è il figlio a cadere nel buco. Nei primi attimi, mentre Ricci disegna un ragazzo di spalle, Montanari suona il proprio strumento vocale creando fruscii, respiri, fiati tra le canne. Il ragazzo corre verso il pozzo, ha saputo che la madre ci è caduta dentro. Eppure in questo dialogo tra il figlio e la madre non sembra esserci possibilità per la tenerezza, è la durezza della campagna a manifestarsi. E allora quel dialetto romagnolo quando arriva non ha nulla di sorridente e affabile, è lingua spietata, affilata, diventa una macchina che macina parole e suoni, dal buio di un pozzo. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Studio, Auditorum. di e con Ermanna Montanari, Stefano Ricci, Daniele Roccato poemetto scenico di Marco Martinelli regia del suono Marco Olivieri realizzazione elementi di scena squadra tecnica Teatro delle Albe produzione e promozione Silvia Pagliano

#PALERMO

LA LUPA (regia di Donatella Finocchiaro)

Nelle intenzioni di Donatella Finocchiaro, regista de La lupa, il proprio recente rifacimento della novella verghiana, visto al Biondo di Palermo in questi giorni, dovrebbe «fornire un’inedita interpretazione grazie a un punto di vista per la prima volta totalmente femminile». La vicenda della 'Gna Pina, donna ossessionata dalla passione carnale per il giovane Nanni, era stata tratteggiata dal verista come manifestazione allucinata di un istinto animalesco incontrollabile, descritto a tinte cupe, già espressionistiche. Ora Finocchiaro decide di intestarsi una lettura superficialmente femminista della vicenda, enfatizzando della protagonista il suo essere vittima delle convenzioni sociali. Un'operazione prevedibile, concretizzatasi infatti in un allestimento da fiction. Il femminile descritto finisce per rinforzare gli stereotipi oggetto della presunta messa in discussione; la complessa sessualità della protagonista verghiana viene qui tradotta dalla regista, che oltretutto ne veste i panni, in una sorta di velata ninfomania pruriginosa e ammiccante. La scena è un quadro banalmente descrittivo: mura rustiche, paglia, polvere, lenzuola stese, mobili di legno, utensili agricoli. Tra giorno e notte, buio e luce, le donne sono depositarie silenziose e maliziose di una sensualità lasciata emergere in scenette di lontano gusto emmadantesco. La rigidità degli uomini vi si oppone senza troppa padronanza. Nelle scene di gruppo i numerosi intepreti affastellano la scena piuttosto caoticamente, nell'assenza di una concertazione corale dello spazio. L'elemento popolare vive in facili soluzioni comiche, mentre l'eloquio di attori e attrici è per lo più un fatto letterario, declamato in modi e pose affettate, poco verosimili. In questa co-produzione del Teatro Stabile di Catania e Teatro della Città ci si compiace del solito sicilianismo di maniera, che intercetta agevolmente il gusto della borghesia più provinciale ammiccando alle sue reminiscenze scolastiche. Il risultato: un drammone sentimentale da prima serata. (Tiziana Bonsignore)

Visto al teatro Biondo. Crediti: di Giovanni Verga, regia Donatella Finocchiaro, progetto drammaturgico e collaborazione alla regia Luana Rondinelli, movimenti di scena Sabino Civilleri, con Donatella Finocchiaro, Qui il cast completo

ION (regia Dino Lopardo)

Il Teatro Libero di Palermo ha recentemente ospitato Ion, da un'idea di Andrea Tosi, scritto e diretto da Dino Lopardo, già vincitore come miglior progetto al festival inDivenire 2019. In una stanza squallida e misera, arredata con pochi mobili industriali, abitano i due fratelli Paolo (Alfredo Tortorelli) e Giovanni (Lorenzo Garufo). Il primo è agile, scattante e insofferente: sul suo corpo grava una tuta proletaria, simbolo di quel mezzo utile a rasentare la sussistenza. Il secondo è un omone chino su se stesso, raccolto in un mondo di immagini poetiche, di simboli plasmati da un italiano cesellato, inconciliabile con l'asperità dialettale dell'altro. Due mondi a confronto: quello fittizio, della produzione, della catena di montaggio lungo il cui nastro si fabbricano sogni di plastica ma necessari alla sopravvivenza; quello immateriale e verissimo del come se, dell'arte che si erge sulle ceneri del come è rimanendovi irrimediabilmente estranea. Nulla accomuna Giovanni e Paolo, se non la condivisione di una vita che non hanno scelto e li costringe in una manciata di metri quadri. È tutto teso tra la crudezza del quotidiano arrancare e la fuga in una dimensione altra, questo Ion: dualità che si riverbera sulla concreta povertà nella quale i due protagonisti sono immersi, imponendovi atmosfere oniriche, lunari. Da queste emerge il contenuto traumatico latente: la violenza domestica, l'abuso, la "colpa" dell'omosessualità di cui Giovanni, anima delicata in un sud troppo profondo, si è macchiato agli occhi della parentela. La madre (Iole Franco), appare evanescente in episodi rievocati in flashback, chiave di volta per la comprensione del vissuto dei due. I movimenti dell'arredo scenico accompagnano questo processo di agnizione, aprendo la casa dei protagonisti ad altri universi. Le luci colpiscono ed evidenziano corpi, volti e particolari, ed enfatizzano l'essenziale fotografia: l'intero allestimento è una macchina di sogni crudeli. (Tiziana Bonsignore)

Visto al Teatro Libero. Crediti: diretto da Dino Lopardo da un'idea di Andrea Tosi con Iole Franco, Alfredo Tortorelli e Lorenzo Garufo. Gommalacca Teatro / Dino Lopardo / Collettivo I.T.A.C.A. Foto di Giovanni Lancellotti

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#MILANO

SONOMA (coreografia, in collaborazione coi danzatori, di Marcos Morau)

Il gruppo spagnolo La Veronal di Marcos Morau è tornato al festival FOG di Triennale a Milano. Sonoma è lavoro ispirato alle opere e alla vita del regista Luis Buñuel, maestro del cinema surrealista. Riprende un precedente lavoro, nato per il Ballet de Lorraine nel 2016, dal titolo Le Surréalisme au service de la révolution, già visto a Les Recontres Chorégraphiques Internationales de Seine-Saint-Denis. All’epoca ricordo non mi convinse perché la dimensione teatrale non sembrava connettersi con quella coreografica, e l’impressione era di un mondo di segni ancóra incompiuto. Ora invece la macchina scenica è perfetta, sotto molti punti di vista: nove straordinarie interpreti, quasi sempre tutte in scena, orchestrano fughe e abbandoni, tra disciplina religiosa e trasgressione folklorica, come se nella dimensione onirica e in quella dell’istinto potesse prefigurarsi una nuova realtà. «È una storia strana, lontana, legata a una leggenda sulla valle di Sonoma, in California, dove i nativi americani credevano che la luna si accoccolasse», scriveva Anna Bandettini nel 2022 da Rovereto. Ed è davvero una luce lunare qui tutta in caduta libera. Le citazioni (anche musicali) naturalmente si inseguono e si sovrappongono, ma ciò che più colpisce è l’alta tenuta, l’intensa durata di una organizzazione scenica alla fine semplice, quasi elementare, anche poco coreografica. Nel senso che la gestica, così come i fitti percorsi e le entrate con costumi a effetto, sono intensamente ripetuti ma per disposizione (spaziale) non per invenzione (cinetica). Mentre la dimensione visiva della composizione è prevalente su quella psichica, così come la disposizione del set dilaga sempre in una maniacale frontalità. Fino allo splendido finale, con tanto di pieno accordo in crescendo di nove tamburi di Aragona, che conducono all’ultimo intenso climax prima degli applausi. Ora forse meglio comprendo il facile-facile testo d’avvio di El Conde de Torrefiel, La Tristura e Carmina S. Belda, tutto invocante cambiamento e salvezza nell’abbandono alle verità catartiche (ritmico-dinamiche) del sogno. (Stefano Tomassini)

Visto a FOG, Triennale di Milano. Ideazione, direzione artistica: Marcos Morau coreografia: Marcos Morau (in collaborazione con i danzatori) danzatori: Alba Barral, Angela Boix, Julia Cambra, Laia Duran, Anna Hierro, Ariadna Montfort, Núria Navarra, Lorena Nogal, Marina Rodríguez testo: El Conde de Torrefiel, La Tristura, Carmina S. Belda répétiteurs: Estela Merlos, Alba Barral consulenza artistica e drammaturgica: Roberto Fratini assistente vocale: Mònica Almirall direzione tecnica, luci: Bernat Jansà direttore di scena, oggetti di scena, effetti speciali: David Pascual suono: Juan Cristóbal Saavedra voce: María Pardo scenografia: Bernat Jansà, David Pascual costumi: Silvia Delagneau sartoria: Ma Carmen Soriano modisteria: Nina Pawlowsky maschere: Juan Serrano (Gadget Efectos Especiales) creazione giganti: Martí Doy oggetti di scena: Mirko Zeni produzione

EUROPEANA. BREVE STORIA DEL XX SECOLO (di Lino Guanciale)

Lino Guanciale. Europeana. Un secolo nel frullatore. È il titolo di un articolo che appare nei primi risultati del web e che mi colpisce, perché ben restituisce l’effetto dello spettacolo portato dall’attore/regista abruzzese nelle sale del Piccolo Teatro di Milano. Guanciale parte dall’ingarbugliato testo dello scrittore Patrik Ouředník, denso di informazioni sul secolo appena trascorso e frenetico nel suo sviluppo paratattico, per restituire “una mirabile costruzione di ecolalie coordinative”, in cui gli eventi “non accadono in modo lineare, ma si incrociano”. Così, per tutta la durata della vorticosa pièce l’attore resta in piedi, inchiodato su di un leggìo, e passa in rassegna tutti gli accadimenti che hanno caratterizzato un periodo storico travagliato, dall’invenzione dell’aspirapolvere alle guerre mondiali, dalle lotte femministe alla distribuzione massificata di Barbie e poi il positivismo, l’esistenzialismo, il dadaismo. Allora con forza mette piede sull’acceleratore. Muovendosi su una dimensione anacronistica del tempo le sue parole rimbalzano e si susseguono velocissime e le immagini che costruisce – anche tramite oggetti feticcio – inciampano senza fiato le une sulle altre. Diremmo che è decisamente agitata, questa Europeana, rispettosa anche dello stile linguistico del suo autore, e Guanciale non ne sembra spaventato: la sua prova attorale è vivida e impegnata e assume quelle tonalità strappate di un urlo affaticato. Nelle scelte registiche però, si percepiscono alcune incertezze che mostrano un certo immobilismo nella resa finale; l’insistere sulle potenzialità del racconto si trasforma in una rinuncia alle possibilità di un più elaborato lavoro sulla scena e l’elemento musicale, dolce e malinconico nella fisarmonica di Marko Hatlak, invece di sollecitare un dialogo con le parti del testo ne riempie solamente i buchi, come un respiro momentaneo. Una montagna di indumenti “alla Pistoletto” è l’immagine lapidaria di questa breve storia del Novecento; il narratore vi preleva ripetutamente le maglie/simbolo che la costituiscono, le indossa una sopra l’altra, assumendo su di sé la stratificazione dei segni tangibili di un’intera epoca. (Andrea Gardenghi)

Visto al Piccolo Teatro Grassi di Milano. Crediti: di Patrik Ourednik, traduzione Andrea Libero Carbone © 2017 Quodlibet srl, diretto e interpretato da Lino Guanciale, musiche eseguite dal vivo da Marko Hatlak, fisarmonica, costumi ed elementi di scena Gianluca Sbicca, luci Carlo Pediani, coproduzione Wrong Child Production e Mittelfest2021, in collaborazione con Ljubljana Festival. Foto di Luca A.D’Agostino

#MILANO

AZUL. GIOIA, FURIA, FEDE Y ETERNO AMOR (di Daniele Finzi Pasca)

Accade di rado che il teatro acquisti quella sfumatura naturale e spontanea di una grassa e grossa risata. Accade di rado che l’improvvisazione si trasformi in spassoso divertimento, al di fuori del controllo di regista, tecnici e attori stessi. È quando il personaggio prende il sopravvento, si emancipa da coloro che l’hanno plasmato e comincia a fagocitare tutto, anche la distanza tra platea e palco. Sulla scena del Franco Parenti, Stefano AccorsiLuciano ScarpaSasà PiedepalumboLuigi Sigillo si calano così nei panni di quattro amici di lunga data, e amici sembrano esserlo per davvero nelle loro interpretazioni goliardiche e sincere. Al mondo ci sono piombati come dei superstiti, con soprannomi fiabeschi e orfani di madre, ma del tiepido grembo materno riescono a ritrovare traccia tramite l’ardore di una passione calcistica condivisa. S’ incontrano allo stadio, animati dalla voglia di fuggire le monotone liturgie dell’esistenza. Ma su quegli spalti si agitano, palpitanti, saltano e gridano, aprono mente e petto per accogliere ciò che dell’euforia continua a vibrare anche dopo che la partita è finita. Daniele Finzi Pasca si cala da maestro in questo immaginario comune e dona il ritratto di un’amicizia duratura con genuina semplicità. La sua scrittura sembra provenire da nessun posto e a nessun posto andare, ma nelle immagini aleatorie e trasognate che restituisce getta le basi per la costruzione di un terreno ludico, dove i personaggi possono sbizzarrirsi ed essere davvero sé stessi. A questo esercizio di libertà drammaturgica, il regista accosta frizzanti suoni jazz abbracciati da proiezioni video dalle calde tonalità fluide. Qui, si staglia il protagonismo della voce di Accorsi, modulata e avvolgente sul palco, matura e curiosa quando sconfina in platea nei tentativi di interrogare il pubblico per renderlo parte di questi eterni amori e delle amare disillusioni, di come tutto finisca ma sia destinato sempre ad avere un nuovo inizio. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Franco Parenti di Milano. Crediti: testo e regia Daniele Finzi Pasca, con Stefano Accorsi e con Luciano Scarpa, Sasà Piedepalumbo, Luigi Sigillo, designer luci Daniele Finzi Pasca, scene Luigi Ferrigno, costumi Giovanna Buzzi, video designer Roberto Vitalini, musiche originali Sasà Piedepalumbo. Foto di Filippo Manzini

COME UNA SPECIE DI VERTIGINE. IL NANO, CALVINO, LA LIBERTÀ (di Mario Perrotta)

Il palco spoglio è tutto ciò di cui Mario Perrotta ha bisogno. Vi si siede al centro con una struttura che regge un microfono, su di una postazione di immobile fissità. Luogo trasformativo però, perché spazio dello sdoppiamento (tra attore-autore-caratteri) dove prendono continuamente vita i personaggi di Calvino da “una trilogia sul come realizzarsi esseri umani, tre gradi di approccio alla libertà”. E di libertà si tratta, quando a parlare è un uomo imprigionato in un corpo con disfunzioni espressive e di movimento (estrapolato dai passi de La giornata di uno scrutatore). Perrotta lo chiama nano, affetto da nanismo, diversamente abile, veste abiti luccicanti e non si sposta dalla sedia su cui è saldamente bloccato. Il suo corpo si agita di fronte al pubblico, genera dei forti spasmi, l’afasia lo porta invece a riprodurre suoni lontani, incomprensibili, sospesi a metà tra il detto e non-detto. “Io non sono libero”, confessa poi. Ma quest’affermazione è una cerniera d’apertura, accecante come l’intensità della luce che ci fa chiudere gli occhi pur di non reggerne il confronto, perché raccoglie in sé una spinta vigorosa, una verità taciuta che è motore del racconto di un viaggio personalissimo nell’universo di Italo Calvino. Qui, ancora niente è perduto e il testo del regista si rivela essere una ricerca nostalgica, attenta e fedele nei sentimenti, che trova un’ancora salda ed evocativa nella capacità interpretativa, spaziando dal racconto al canto ai versi rap. Perrotta si addentra così nelle trame calviniane e agisce su di esse come un ricamatore, aggiunge dettagli, intensifica passioni ed estrae delle riflessioni sul valore dell’autodeterminazione e sulla questione dell’alterità, per recuperare infine la meraviglia, quella delle città invisibili, le possibilità metamorfiche dell’armatura vuota di Agilulfo e il silenzio disincantato di Palomar. E la febbrile disobbedienza di Cosimo, Cosimo che rifiuta le lumache, Cosimo che vive sugli alberi, Cosimo che ancora s’innamora. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Carcano. Crediti: di e con Mario Perrotta, aiuto regia Paola Roscioli, co-produzione Permàr, Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale. Foto di Luigi Burroni

#NAPOLI

SCONOSCIUTO. IN ATTESA DI RINASCITA (di Sergio Del Prete)

Un uomo è immesso all’interno di un perimetro rettangolare, illuminato da led e asfissiante; più che altro viene partorito con estremo dolore per lui. È vestito con giacca e cravatta, è agitato. È al mondo perché la madre, tempo prima, ha dovuto abortire. Il dolore e le mancanze, la quotidianità devastante di una famiglia disfunzionale, e la frustrazione per una vita indesiderata, costruiscono il suo stare al mondo. Tutt’intorno, nello spazio nero e spoglio al di fuori del perimetro – gabbia, viene evocata la vastità desolata della Periferia: un’entità distruttiva che fagocita le esistenze e ne rigetta carne senza spirito. Sergio Del Prete dona un’interpretazione preziosa: si muove con una disperazione che tende i nervi, i suoi e di chi osserva, oltre il sopportabile; la sua voce strozzata incalza i ricordi di una vita miserabile inchiodando lo spettatore al suo posto. La capacità di costruire immagini di una materialità pesante e ingombrante è il risultato di una penna che filtra la realtà attraverso la poesia e la restituisce più vivida; l’utilizzo realistico del dialetto, più sporco e volgare di quello cittadino, o di una strascicata cadenza contribuisce a reificare la bruttura di certi contesti sociali. E, tutto sommato, se la città è una città di miserabili pezzenti e bugiardi, perché la sua periferia dovrebbe essere meglio? Come devono essere gli uomini e le donne che vivono in luoghi dove l’amore non è altro che «una botta di culo» che non capita quasi a nessuno, o dove la tenerezza è un momento fugace rubato alla disperazione? L’uomo si chiede perché vivere col peso di tanti silenzi, e domanda stizzito a quel fratello inesistente perché non poteva prenderselo lui tutto questo peso. Forse questi frammenti di monologo profondamente intimo con il fratello peccano, oltre che per il numero di poco superiore al necessario, di un retorico che si lega poco all’andamento del resto; ma siamo alla minuzia, a una quasi impercettibile stortura in una costruzione pressoché perfetta. (Valentina V. Mancini)

Visto a Sala Assoli; Crediti Scritto diretto e interpretato da Sergio Del Prete; Elaborazioni sonore e musiche dal vivo Francesco Santagata; Scene e disegno luci Carmine De Mizio; Costumi Rosario Martone; Foto di scena Pepe Russo.

IN NOME DELLA MADRE (di E. De Luca, regia G. Barbadori)

Nella cultura ebraica non esiste una tradizione figurativa fino alla seconda metà dell’Ottocento, per cui la sola parola, che è parola quasi esclusivamente di legge, reifica la realtà. Forse questo aveva in mente Gianluca Barbadori nel portare in scena il testo di Erri De Luca, dal momento che l’unica immagine presente in scena è quello del corpo di Miriam (Galatea Ranzi) più simile a un’icona cristiana, mentre alla sola parola è concesso il compito di evocare il mondo (fatto anche esso di parole) a cui appartengono. Il racconto dall’Annunciazione alla Natività, così come è stato manomesso, diventa un racconto rivoluzionario perché passa per bocca di donna. E maggiormente rivoluzionario perché è il racconto carnale di uno spirito solidissimo; una rivolta che sorride nella temperatura beata di una vocalità tiepida e monotona, che è fatta di gesti minuti e morbidi. Galatea Ranzi si fa lieve e riduce l’espressività fino all’imperturbabile, appiana la voce e alleggerisce il passo, copre la testa e con un sorriso che le distende le labbra: la sua Miriam, ormai matura, narra del miracolo che l’ha fatta donna e che l’ha resa presente a sé stessa in quanto donna; una donna che ha amato il suo Josef nel modo che le è più congeniale, che ha accolto la maternità come un modo per conoscere davvero il proprio corpo, che ha preso decisioni secondo la propria coscienza, che non si è vergognata delle decisioni prese. Le parole, nella gaiezza della voce che le veicola, scorrono fluide e senza ritmo, come se fosse una litania ma più leggera. La poesia non è in quelle parole, feriali e quotidiane, ma in ciò che viene raccontato. La finzione si insinua nel sacro con gli espedienti delle luci, cariche di colori brillanti dell’ocra del verde e del blu, che pervadono lo spazio scenico e lo fanno mistico. In un blu sospeso e silenzioso, la beatissima, ormai madre, ritorna per un attimo donna e, a capo scoperto e col braccio teso verso l’alto, urla che quel figlio non le muoia troppo presto. (Valentina V. Mancini);

Visto a Ridotto del Mercadante; Crediti Di Erri De Luca; Regia Gianluca Barbadori; Con Galatea Ranzi; Costume Lia Francesca Morandini; Produzione Teatro Biondo Palermo; Foto Rosellina Garbo In collaborazione con soc. coop. Ponte tra Culture / AMAT – Associazione Marchigiana Attività Teatrali.

#ROMA

MADRE (Teatro delle Albe)

Prima delle parole di Marco Martinelli c’è Nora, “non volevo diventare come lei: era vecchia, aveva mani grosse e dure[...], la gente diceva che era una strega”, scrive Ermanna Montanari nel curatissimo libro di sala di Madre. E poi c’era il pozzo dove la vecchia Nora portava la bambina, sollevandola per farla guardare in basso, nel vuoto, “nel gran buio, un’eco assordante del boato della nostra voce”. La voce appunto, suono interiore, cercato nei decenni passati, perché Ermanna Montanari è ancora qui, presente alla sua ricerca, intenta a cercare quei toni, quei colori scuri, striduli con i quali dare voce alle streghe. Questo amore, questa cura da parte dell’artista verso il proprio talento, la propria ricerca, dopo tanti anni è commovente. Siamo nella sala studio dell’Auditorium, qui il Teatro delle Albe ha portato un concerto scenico, un lavoro suggestivo fatto di suoni dal vivo, quelli del contrabbasso di Daniele Roccato, delle voci spaventevoli di Montanari e delle immagini create, anche queste dal vivo, da Stefano Ricci. E, dalla prima fila, di Ricci si posso sentire i respiri, gli affanni, la fatica tutta performativa che impiega in questo atto quasi mistico, nel quale abbandona se stesso a una sorta di trance artistica in cui elabora e poi cancella ciò che appare proiettato su un fondale circolare, il pozzo della nostra visione. La storia ribalta la consuetudine, non è il solito incubo genitoriale, non è il figlio a cadere nel buco. Nei primi attimi, mentre Ricci disegna un ragazzo di spalle, Montanari suona il proprio strumento vocale creando fruscii, respiri, fiati tra le canne. Il ragazzo corre verso il pozzo, ha saputo che la madre ci è caduta dentro. Eppure in questo dialogo tra il figlio e la madre non sembra esserci possibilità per la tenerezza, è la durezza della campagna a manifestarsi. E allora quel dialetto romagnolo quando arriva non ha nulla di sorridente e affabile, è lingua spietata, affilata, diventa una macchina che macina parole e suoni, dal buio di un pozzo. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Studio, Auditorum. di e con Ermanna Montanari, Stefano Ricci, Daniele Roccato poemetto scenico di Marco Martinelli regia del suono Marco Olivieri realizzazione elementi di scena squadra tecnica Teatro delle Albe produzione e promozione Silvia Pagliano

PERFETTI SCONOSCIUTI (di Paolo Genovese)

«Anche fosse, che fai glielo dici?», la battuta, e domanda retorica, è ormai diventata sineddoche di Perfetti sconosciuti, commedia drammatica firmata da Paolo Genovese che - dopo il film del 2016 campione di incassi, vincitore di David di Donatello, Nastri d’argento, Globo d’oro e Ciak d’oro e nel Guinness dei primati come film con più remake nella storia del cinema, ben 25 – arriva a teatro al debutto romano all’Ambra Jovinelli. Quasi una diretta filiazione dall’opera originale che già di per sé conteneva in nuce quell’impostazione drammaturgica da sviluppare per la scena, tant’è che il copione rispetta fedelmente la sceneggiatura (di Genovese, Filippo Bologna, Paolo Costella, Paola Mammini e Rolando Ravello). Al suo primo esordio teatrale, Genovese gioca facile: il testo si conferma un’opera da manuale, capace di dare risalto con fedeltà all’antopologia delle relazioni interpersonali nell’era digitale e nel suo corrispettivo reale, quotidiano. Bauman stesso ne godrebbe. Durante una serata di eclissi di Luna, il gioco, “al massacro”, che un gruppo di amici borghesi legati fin dall’infanzia decide di fare a cena lasciando i propri smartphone alla mercé di tutti e tutte, continua a emozionare il pubblico, si ride con precisione quasi matematica alle battute ormai classiche, si sta in tensione, ci si commuove anche. Nonostante si rimanga affezionati a quello del film, il cast di attori e attrici - Dino Abbrescia, Alice Bertini, Marco Bonini, Paolo Calabresi, Massimo De Lorenzo, Anna Ferzetti, Valeria Solarino – non delude e regge il confronto, dando propria interpretazione ai caratteri – empatici, complessi e versatili Calabresi, Ferzetti e De Lorenzo – e restituendo fluidità anche nella lettura degli sms e email, che di certo stavolta non possono essere “inquadrati”. Alla prima, qualche problema tecnico non ha compromesso la prova attorale e il sold out ha spinto proprio stamane il teatro a comunicare delle repliche aggiuntive.(Lucia Medri)

Visto al Teatro Ambra Jovinelli di Roma. Con (in ordine alfabetico) Dino Abbrescia, Alice Bertini, Marco Bonini, Paolo Calabresi, Massimo De Lorenzo, Anna Ferzetti, Valeria Solarino, prodotto da NUOVO TEATRO diretta da Marco Balsamo in coproduzione con Fondazione Teatro Della Toscana e Lotus Production. Foto di Salvatore Pastore

AL COSMO lettura corale (di Ateliersì)

Porpora Marcasciano, attivista, sociologa scrittrice e fondatrice nel 1979 del MIT (Movimento Identità Trans) è un corpo-mente splendente; dai suoi testi, e recenti articoli, l’ultimo dedicato alla memoria di Lucy Salani, unica transgender sopravvissuta all’orrore dei lager nazisti, non possiamo che cogliere doni di pensiero che esulano dalla fissità definitoria diventando esperienza nella dialettica politica delle cose, delle persone, dei tempi di cui parlano. Al cosmo è una lettura corale – ideata e creata da Fiorenza Menni (Ateliersì) insieme a_partecipanti dei percorsi laboratoriali tenuti nel 2022 all’Angelo Mai e a Short Theatre – dedicata a Tra le rose e le viole. La storia e le storie di travestiti e transessuali di Porpora Marcasciano edito da Manifestolibri nel 2008 e ristampato nel 2020 da Alegre. Dalle 18 alle 24 di venerdì scorso all’Angelo Mai in un’oasi di libertà, a piedi scalzi e su cuscini e coperte, Toni Allotta, Giulia Felici, Sofia Gerosa, Laura Giannatiempo, Andrea Alessandro La Bozzetta, Francesca Macci, Elena Martusciello, Alex Paniz, Luce Sant’Ambrogio, Emilia Verginelli leggevano, senza alcun obbligo di interpretazione attoriale, frammenti di questo diario manifesto di Marcasciano in cui la sua biografia diventa strumento di indagine socio politica di denuncia. Nonostante il pubblico in ascolto potesse entrare e uscire dallo spazio a piacimento, veniva la voglia, sperimentata in prima persona, di prendere in mano una copia del testo e di partecipare al rituale di lettura, rispettando il gioco dell’alzata del libro a indicare la volontà di leggerne un estratto. Una linea unisce la parola-azione di Marcasciano con quella fotografica di Lisetta Carmi, ritrovata nella nuova ristampa del suo storico reportage: è il rifiuto del ruolo imposto da una tradizione autoritaria e il vibrante desiderio di rivendicare la libertà di essere ciò che si vuole e si sente, come dice Marcasciano «dimenticarsi del trans e far emergere me stessa». (Lucia Medri)

Visto all'Angelo Mai: a cura di Fiorenza Menni con Toni Allotta, Giulia Felici, Sofia Gerosa, Laura Giannatiempo, Andrea Alessandro La Bozzetta, Francesca Macci, Elena Martusciello, Alex Paniz, Luce Sant’Ambrogio, Emilia Verginelli; in collaborazione con Angelo Mai e Short Theatre. Foto di Fiorenza Menni

LA COMMEDIA PIÙ ANTICA DEL MONDO (de I Sacchi di Sabbia)

C’è risata e risata. Non è vero in assoluto che il “potere” teme la comicità, come spesso si dice, poiché v’è certamente un modo di ridere accondiscendente, mellifluo, disposto a favore dello stato delle cose. Si potrebbe andare oltre e distinguere fra un ghigno amaro e fatalista, conservatore ma a suo modo apotropaico, e la risata violenta, a orologeria, disposta dal potere per segregare e ridicolizzare – la risata del bullo, o la risata dei media di massa, dal Bagaglino a Pio e Amedeo. Ma la risata può anche contorcersi e ritorcersi, fino a diventare “ostile”, a far mostra della dentatura da sotto in su quando la bocca si spalanca e il collo flette all’indietro, a erompere in un suono sguaiato che libera un’energia atavica. Per I Sacchi di Sabbia la risata della commedia più antica del mondo, la risata più profonda i tutte, è questa – insolente e sboccata, pronta a misurarsi violentemente con la violenza. Gli Acarnesi di Aristofane, la commedia più antica giunta a noi (portata in scena al concorso lenaico del 426 a.C), diventa il canovaccio per una brillantissima lectio sul senso del ridere e sulle geografie impossibili che la risata può tracciare in una realtà ingiusta e perennemente in guerra. Massimo Grigò, solo in scena, è un anfitrione virtuosissimo e spassoso, che nella sala piccola del Teatro Tor Bella Monaca riesce a disegnare una moltitudine di presenze foltissime: ci sono i personaggi del testo greco, ci siamo noi impietriti, poi stanchi, poi sbadati di fronte alle notizie di guerre vicine e lontane. Senza ricorrere a viete retoriche e didascalie cronachistiche, il testo greco è riscritto in una lingua viva e originalissima fra la sardonica verve toscana e l’iperlingua grecista dei dipartimenti accademici, pur trattenendone con lieve ironia tutto il gusto per la metrica e la filologia greca. Con Grigò, su un tavolino di legno che è cattedra e scranno d’osteria, una candida scultura di fallo (di Noela Lotti) dà forma a un mondo che contrappone all’orgia del sangue e della becera convenienza l’orgia incarnata di una sessualità popolare, precristriana, terricola. Con uno spassoso slittamento, il protagonista della commedia diventa Dickeopoli, che infine trionfa sull’antieroe Lamaco, generale delle armate ateniesi. Ma la commedia più antica del mondo è in fondo una tragedia, e questa vista in scena un'utopia amara che racconta brillantemente la complessità politica e psicologica del ridere, oggi. (Andrea Zangari)

Visto al Teatro Tor Bella Monaca. Con Massimo Grigò, con la collaborazione di Francesco Morosi, scultura Noela Lotti, produzione I Sacchi di Sabbia

#VICENZA

SULL’ATTIMO (coreografia di Camilla Monga)

Superba Monga nel «tempo senza tempo» che danza l’istante. Sull’attimo è un vero gioiello compositivo, proprio nella sua (apparente) semplicità. Visto al Festival Danza in Rete del Teatro Comunale Città di Vicenza, dura quaranta minuti ma si vorrebbe non finisse mai. È costruito in diretta pèrmuta, fatta di ascolto e sintonía, con le tecniche di improvvisazione e contaminazione jazz del polistrumentista Emanuele Maniscalco. Tutte le strategie di presenza sono con lui negoziate in scena, oltre che da Camilla Monga, da Stefano Roveda e Francesco Saverio Cavaliere. Tre corpi diversi, strategicamente complementari ma attivati in una relazione sempre convergente, capace in termini cinetici di produrre differenze. La musica per prima, d’accordo. Maniscalco al pianoforte anche percuote ritmicamente le corde esposte dello strumento, mentre scivola in lentissimi e meditativi swing. Ma nella performance dei corpi, che si concepisce tutta nell’istantaneo, le strutture e gli spazi aperti dalle ripetizioni, dagli accordi di ingressi e uscite, dagli appuntamenti raggiunti e dalle forme plurali dell’abbandono e della restanza, sono tutte figure del cambiamento. La durata allora non predispone cadute nella cronologia, ma ritrova e libera istruzioni per riconoscere, in ciò che può la coreografia, tutto il vivente. Oltre l’umano, al fondo di questa creazione traspare un’idea estetica transpecie: non in termini di rappresentazione, ovviamente, ma di gerarchie. La natura qui non ama nascondersi. Il tempo dell’istante di musica e danza, è allora quello dell’avvento. Gli elementi sono pochi: un tappeto bianco in parte segnato da cromie geometriche che si inseguono autonome; un disegno luci calibrato sui vuoti necessari a ogni epifania. Tutto è misura, equilibrio e affermazione sottile di una ipotesi generativa di bilico, di frattura, di errore. Forse qualche improvvida scivolata in velocità, o l’appoggio improvviso e in gravità di un braccio a terra lo sono letteralmente. Ma ciò che più importa, è che l’errore è la variazione di ciò che agisce nell’imprevedibile. (Stefano Tomassini)

Visto al Festival Danza in Rete del Teatro Comunale Città di Vicenza: progetto di Camilla Monga ed Emanuele Maniscalco, concept e coreografia di Camilla Monga, danzatori Camilla Monga, Stefano Roveda e Francesco Saverio Cavaliere, musica dal vivo Emanuele Maniscalco (pianoforte, batteria), collaborazione artistica e realizzazione arazzo Meris Angioletti produzione Van

COME NEVE (coreografia di Adriano Bolognino)

Difficile davvero sospettare che dietro al recente lavoro di Adriano Bolognino, Come neve, ci possa essere il tema del benessere. Il gelo che affonda, forse. L’algido nitore del cristallo, piuttosto. L’affanno convulsivo di neuroni in corpi di sasso. La compiaciuta atmosfera di un malessere sempre in procinto di precipitare, sempre trattenuto e arginato da maglie e da reti intessute dal tempo, e attraverso cui resistere. Più che la neve, è forse la velocità della sua caduta a interessare l’arguto coreografo napoletano, che non ci pensa proprio ad assolvere il tema di una commissione: piuttosto lo trasforma, perentorio, nel suo rovescio. In scena, è un duo quasi tutto speculare e ossessivamente sincronizzato, secondo le compulsioni mentali più irrefrenabili, le paure mentali più obbliganti. Tenute a bada da due straordinarie (inquietanti il giusto) interpreti, Rosaria Di Maro e Noemi Caricchia, che sembrano prefiche nordiche, beghine artiche, pinzocchere boreali: come in un Hansel&Gretel versione horror. Compiutamente agghindate di costumi con gonna a terra tessuti in filato multicolore, con tanto di ampio guardinfante, ottimamente pensati, disegnati e realizzati (dal Club dell’uncinetto di Napoli). Ed è tutto un proliferare di passi nascosti, movimenti repentini di gambe e ginocchia, anche a terra, faticosi eppure sempre perfettamente dissimulati. E tutto funziona, splendidamente, non si può che ammirare tanta intelligenza scenica, cura interpretativa e sapere compositivo. L’impressione è che, in termini coreografici, sia possibile perfezionare e intensificare il gesto nel disegno soprattutto drammaturgico. Il compimento non è mai solo una conclusione della coreografia: ma lo scongiurare che qualcosa della performance vada perduta. Come per la musica: se Olafur Arnalds è perfetto per l’atmosfera di avvio, dopo una lunga muta transizione Bolognino cede alla tentazione di un finale rassicurante, dunque sedativo, con l’indie pop di Josin, quando forse meglio si sarebbero precisati, per esempio, gli inquietanti loop glaciali di un Thomas Köner, o chessò dei dropped pianos alla Tim Hecker. (Stefano Tomassini)

Visto al Festival Danza in Rete del Teatro Comunale Città di Vicenza: coreografia di Adriano Bolognino, danzatrici Rosaria Di Maro e Noemi Caricchia, musiche di Olafur Arnalds/Josin, costumi Club dell’uncinetto (Napoli), produzione Körper