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COME NEVE (coreografia di Adriano Bolognino)

Questa recensione fa parte di Cordelia, aprile 2023

Difficile davvero sospettare che dietro al recente lavoro di Adriano Bolognino, Come neve, ci possa essere il tema del benessere. Il gelo che affonda, forse. L’algido nitore del cristallo, piuttosto. L’affanno convulsivo di neuroni in corpi di sasso. La compiaciuta atmosfera di un malessere sempre in procinto di precipitare, sempre trattenuto e arginato da maglie e da reti intessute dal tempo, e attraverso cui resistere. Più che la neve, è forse la velocità della sua caduta a interessare l’arguto coreografo napoletano, che non ci pensa proprio ad assolvere il tema di una commissione: piuttosto lo trasforma, perentorio, nel suo rovescio. In scena, è un duo quasi tutto speculare e ossessivamente sincronizzato, secondo le compulsioni mentali più irrefrenabili, le paure mentali più obbliganti. Tenute a bada da due straordinarie (inquietanti il giusto) interpreti, Rosaria Di Maro e Noemi Caricchia, che sembrano prefiche nordiche, beghine artiche, pinzocchere boreali: come in un Hansel&Gretel versione horror. Compiutamente agghindate di costumi con gonna a terra tessuti in filato multicolore, con tanto di ampio guardinfante, ottimamente pensati, disegnati e realizzati (dal Club dell’uncinetto di Napoli). Ed è tutto un proliferare di passi nascosti, movimenti repentini di gambe e ginocchia, anche a terra, faticosi eppure sempre perfettamente dissimulati. E tutto funziona, splendidamente, non si può che ammirare tanta intelligenza scenica, cura interpretativa e sapere compositivo. L’impressione è che, in termini coreografici, sia possibile perfezionare e intensificare il gesto nel disegno soprattutto drammaturgico. Il compimento non è mai solo una conclusione della coreografia: ma lo scongiurare che qualcosa della performance vada perduta. Come per la musica: se Olafur Arnalds è perfetto per l’atmosfera di avvio, dopo una lunga muta transizione Bolognino cede alla tentazione di un finale rassicurante, dunque sedativo, con l’indie pop di Josin, quando forse meglio si sarebbero precisati, per esempio, gli inquietanti loop glaciali di un Thomas Köner, o chessò dei dropped pianos alla Tim Hecker. (Stefano Tomassini)

Visto al Festival Danza in Rete del Teatro Comunale Città di Vicenza: coreografia di Adriano Bolognino, danzatrici Rosaria Di Maro e Noemi Caricchia, musiche di Olafur Arnalds/Josin, costumi Club dell’uncinetto (Napoli), produzione Körper – Centro Nazionale di Produzione della danza, coproduzione Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza – Festival Danza in Rete con il sostegno di Orsolina28.

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Stefano Tomassini
Stefano Tomassini
Insegna studi di danza e coreografici presso l’Università Iuav di Venezia. Nel 2008-2009 è stato Fulbright-Schuman Research Scholar (NYC); nel 2010 Scholar-in-Residence presso l’Archivio del Jacob’s Pillow Dance Festival (Lee, Mass.) e nel 2011, Associate Research Scholar presso l’Italian Academy for Advanced Studies in America, Columbia University (NYC). Dal 2021 è membro onorario dell’Associazione Danzare Cecchetti ANCEC Italia. Nel 2018 ha pubblicato la monografia Tempo fermo. Danza e performance alla prova dell’impossibile (Scalpendi) e, più di recente, con lo stesso editore, Tempo perso. Danza e coreografia dello stare fermi.

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