Intervista. A seguito delle repliche al Teatro Elfo Puccini di Milano di Riccardo III, nella regia di Kriszta Székely, abbiamo intercettato l’attore protagonista Paolo Pierobon per una conversazione sulla sua pratica teatrale. Spettacolo in tournée a Modena, Padova e Roma.
In Riccardo III, Shakespeare restituisce il complesso ritratto di un despota privo di moralità, un personaggio nero disposto a tutto pur di appropriarsi delle sfere del potere. Kriszta Székely (nell’adattamento di Ármin Székely) cala l’opera all’interno di un ambiente moderno, un lussuoso chalet di montagna – per un moderno Riccardo interpretato dall’attore Paolo Pierobon – giocando sul confine scivoloso tra originale e sua riscrittura. Nella rappresentazione, infatti, l’oscurità del protagonista apre delle fratture nel dramma, attua dei continui sconfinamenti e deborda in platea chiamando in causa il giudizio del pubblico. Qualche giorno dopo la visione dello spettacolo al Teatro Elfo Puccini di Milano, abbiamo raggiunto telefonicamente Paolo Pierobon, curiosi di indagare le modalità della sua ricerca nella costruzione dei personaggi che interpreta.
Inizi a recitare negli ambienti teatrali con registi italiani come Lorenzo Loris ed Elio De Capitani ma rientri anche subito all’interno di spettacoli diretti da registi internazionali come Eimuntas Nekrosius. Che direzioni hanno tracciato queste personalità nel processo della tua formazione?
Devo dire che ognuno è stato un viaggio a sé che mi ha dato tantissimo. Ci sono state collaborazioni più durature rispetto ad altre e registi più continuativi con i quali ho lavorato. In realtà, la primissima parte della mia carriera è sempre stata un po’ underground, perché prima di arrivare a recitare per Nekrosius o De Capitani ho passato anni in cui facevo in media quattro o cinque spettacoli a stagione, in primo luogo per una questione economica che penso conosciamo tutti. Poi a Milano ha cominciato a diffondersi un clima diverso. Sulla scena si stava sviluppando quel teatro indipendente di giovani gruppi che sono stati raccolti da Antonio Calbi durante le diverse edizioni di Teatri 90, una rassegna che è stata davvero importante per dare visibilità e attenzione alla scena emergente ai margini della produzione spettacolare.
La collaborazione con Ronconi avviene a partire dal 2009, quando portate Il gabbiano di Čechov al Festival di Spoleto in una versione inedita, “altra”. Entri in contatto con una modalità di fare teatro innovativa e di sperimentazione, una sorta di laboratorio in divenire. Da lì nasce poi un sodalizio intenso…
Con Luca ho imparato che se vuoi decodificare il codice devi saperlo davvero bene e devi entrarci dentro, altrimenti non lo codifichi. E questo avveniva a partire dalla lettura dei testi; lui ci metteva nelle condizioni di sperimentare un open mind continuo, grazie al quale emergevano sempre elementi imprevisti rispetto all’intenzione di un’opera, di un personaggio, di una battuta. Lì capisci davvero che quel lavoro ti sorprende e non solo nella testa ma anche nel corpo perché lui riusciva sempre a darti una visione altra, inedita, più approfondita rispetto alle intuizioni che potevi avere tu come attore. E poi si trattava di scegliere quale era quella più giusta, quale era quella che si riusciva ad abitare meglio. Le stesse prove riflettevano questa ricerca sulla scena, erano soprattutto un proporre a partire dalle premesse che Luca poneva. Ho trovato nel lavoro con lui una combinazione particolare e necessaria di autonomia e disciplina.
Contemporaneamente cominci a lavorare negli ambienti cinematografici.
Nel 2009 vengo chiamato da Luca Ronconi per interpretare Trigorin a Spoleto e abbiamo continuato a lavorare assieme per almeno dieci anni, fino alla Lehman Trilogy. In quello stesso anno ho cominciato a fare serie con la tv e a trovare una mia confidenza con la telecamera. Erano anni in cui si girava davvero tantissimo e avevo preso parte ad alcuni episodi di cinema indipendente con Marina Spada. In realtà, credo che alla base non ci fosse una scelta precisa e consapevole di voler fare cinema o televisione, erano anni di difficoltà economiche per l’ambiente teatrale e fare i provini per l’industria cinematografica rappresentava un’occasione. Poi il set per me è stato, ed è ancora, un luogo meraviglioso, ma il teatro è casa, è qualcosa di più, ha una priorità storica ed è un legame forte e inevitabile con le origini della recitazione e dello spettacolo. È il terreno che mi appartiene, è il mio abito.
Nel corso della tua carriera di attore sia per il teatro che per il cinema e la televisione hai interpretato numerosi caratteri, spesso anche diversi tra loro nelle personalità, nelle rese, nelle intenzioni. Cosa ricerchi all’interno di un personaggio e come si differenzia il tuo lavoro nella sua costruzione identitaria?
Nella costruzione di un personaggio devi innanzitutto partire da qualcosa di concreto che conosci. Poi si tratta di riconoscere nel personaggio quel qualcosa che ti appartiene; alle volte ti capita anche di non trovare nulla in quel carattere che sia tuo, nulla che ti riguardi e magari lo detesti. Ad un certo punto devi però oltrepassare questo primo approccio critico, che comunque è costruttivo per il processo recitativo, e sospendere il giudizio morale dettato dalla tua storia personale, altrimenti accade che l’attore sovrasti il ruolo. Io preferisco, invece, servirlo e immaginarlo sempre come se fosse più grande di me, al di sopra del mio essere attore. Questo sforzo, di far avanzare il personaggio all’attore che lo interpreta, è ciò che mi permette di vivere uno stato di alterazione e di dare il meglio, proprio perché passo attraverso una piccola crisi. Scopri di arrivare in un campo inesplorato in cui si verificano – nel senso che si mettono alla prova – le tue forze, e questo ti porta a sondare altre zone e ad avvertire quel sentore di pericolo e quella scintilla che ti fanno trovare nuove e recondite energie. Questo è il mio metodo, forse un po’ spericolato… le ricerche sul personaggio ovviamente ci sono e costituiscono la base perché si sedimentano nel lavoro performativo, però è importante capire che non si tratta tanto di un discorso meramente mentale quanto di appropriarsi fisicamente di qualcosa; è un lavoro che prende in causa l’immaginazione più che il pensiero, un vedere e provare fisico più che un pensare. Se rimani solo nella dimensione riflessiva e mentale, il personaggio in scena diventa sterile perché perde quella sfera creativa che pertiene prima di tutto allo sforzo del corpo.
In questi termini, secondo te quale equilibrio si crea dentro e fuori dalla scena? Si può parlare anche di una relazione di negoziazione tra attore e personaggio, vita e opera?
Certamente il personaggio deve essere una creazione circoscritta al luogo di sperimentazione quale è il teatro. Poi è vero che qualcosa te lo porti sempre dietro, nella vita reale, e lì devi fare attenzione a creare un equilibrio interno. Per questo prima, in relazione a Ronconi, parlavo della combinazione potente di autonomia e disciplina che mi ha impresso il suo modo di fare teatro, perché è importante dare forma e ordine all’invasione del carattere, alle mille voci, ai mille pensieri che si innescano nella pratica sulla scena ma che, in fondo, abbiamo un po’ tutti anche al di fuori di essa. Finché fai resistenza a queste voci non vai da nessuna parte, poi quando cominci ad ascoltarle diventano un arricchimento, non solo professionale ma soprattutto umano. Il personaggio che abiti ti cambia dentro perché ti apre ad un modo di pensare e di agire completamente diverso. Lì entra in gioco la negoziazione di cui parli tu e che mi sembra esaurisca bene un processo più complesso: la ricerca performativa è uno scavo che avviene all’interno degli stessi gesti abituali del personaggio – dal posizionare un gomito sul tavolo al sistemarsi i capelli – ma anche all’interno della sua immaginazione. Di tutto questo l’attore si appropria e stabilisce i termini della relazione.
Oggi si potrebbe parlare dell’emergere di un nuovo pubblico, sempre più globale e diffuso grazie all’accelerazione tecnologica che ha permesso l’imporsi di piattaforme dai contenuti sempre disponibili. All’interno del teatro, ma anche del cinema, quanto senti che abbia influito questa trasformazione nella ricezione spettatoriale?
Personalmente, credo che la differenza risieda nel tipo di temperatura che questi ambienti offrono; da una parte lo sbadiglio, l’applauso, la risata, dall’altra il like, il repost, il commento. A teatro senti la carne di una collettività che respira, le stesse emozioni sono amplificate dallo stare in presenza, dal vedersi reali. E devo dire che la capacità del giovane pubblico di reagire alle cose che l’attore veicola dal palco è più pronta di quanto si immagini. Ci si aspetta delle persone ibernate con la soglia dell’attenzione bassissima e invece ho trovato nelle nuove generazioni una reazione stimolante e positiva, forse di pari passo anche ad una sorta di ribellione e avversione che si sta diffondendo rispetto a ciò che è virtuale. Credo ci sia una gran voglia di uscire dopo l’esperienza pandemica, di vedere la gente in carne ed ossa e di levarsi dallo streaming con una consapevolezza nuova. Questa poi è una percezione assolutamente personale che deriva dalla mia esperienza sul palco.
Parliamo ora dell’ultimo lavoro portato al Teatro Elfo Puccini di Milano e diretto da Kriszta Székely. Sulla scia di Shakespeare, la regista scava davvero a fondo nella malvagità di Riccardo III, ne estrae il lato più infimo ed oscuro e lo fa con un taglio che vuole essere molto contemporaneo, oltre che esplicitamente politico.
È la seconda volta che lavoro con Kriszta. Qualche anno fa abbiamo collaborato per mettere in scena Zio Vanja di Čechov. Nell’adattamento, lei e Ármin hanno questo metodo, riscrivono tutto e lasciano intatti degli estratti originali. In questo modo, e inserendosi anche all’interno di una lunga tradizione che ha usato questo espediente prima di loro, vanno al concreto di una rappresentazione e riescono a portare i classici ad un pubblico che li comprende. Quello che mi cattura di questa regia è l’aspetto estetico rispetto a certi linguaggi. Ad un certo punto, in scena, fanno entrare dei cadaveri ma parallelamente si sta volgendo altro sul palco e si crea un certo spaesamento nel pubblico. In questo c’è il montaggio delle attrazioni di Ėjzenštejn, ma anche la destrutturazione della scena tipica di Tadeusz Kantor. In generale trovo molto consapevole l’uso che Kriszta fa della telecamera, forse quello è, più di tutti, il vero atto politico perché attraverso di essa registra situazioni che da Shakespeare si attualizzano, si ripetono e che vediamo tutt’oggi.
Andrea Gardenghiù
Date tournée Riccardo III Kriszta Székely con Paolo Pierobon
3-7 maggio 2023 Modena Teatro Storchi
10-14 maggio 2023 Padova Teatro Verdi
16-21 maggio 2023 Roma Teatro Quirino