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Oltre la maschera. L’umanità nel teatro di Familie Flöz

Intervista. Una conversazione a distanza con Hajo Schüler, cofondatore e direttore artistico della compagnia tedesca Familie Flöz e regista dell’ultimo spettacolo portato in scena a gennaio al Teatro Menotti, Hokuskopus.

Foto Simon Wachter

Mi piacerebbe partire con una domanda che torna alle origini della vostra pratica. Fin da subito avete deciso di portare avanti un lavoro che coniuga diverse realtà: dal teatro di figura, alla clownerie, al teatro delle maschere. Quali sono le ragioni di questa scelta stilistica?

Il punto di partenza del nostro lavoro come compagnia è sempre stato la maschera. Ma forse sarebbe più appropriato parlare di terreno, per la sua estensione, perché la questione della maschera non è soltanto un punto di riferimento del nostro fare teatro, ma è lo sfondo e al tempo stesso la radice germinale del nostro lavorare come un gruppo. Specialmente in questo lavoro, Hokuskopus, che stiamo portando in tournée e che ha visto un’importante tappa al Teatro Menotti di Milano, abbiamo pensato di avviare una riflessione sul concetto di maschera tout court. E questo si avverte già a partire dall’ambientazione: sul palco abbiamo pensato di allestire un’isola costruita con pareti mobili, smontabili e apribili. Al centro di essa le maschere appaiono e scompaiono, in quanto personaggi della storia e veri protagonisti della vicenda che abbiamo voluto raccontare.

Foto Simon Wachter

L’unico a rimanere “nudo” ed esposto sul palco è il creatore, il suo volto è infatti scoperto, proprio perché è l’unico in grado di dare avvio non soltanto alla storia ma alla vita stessa dei personaggi.  Per questo motivo quando penso al punto di partenza parlo di maschera. Sono diverse, poi, le influenze che si sono intrecciate e che hanno offerto un tracciato alla nostra pratica artistica. Un aspetto fra gli altri che ci affascina molto è la comprensione della complessità di una figura come il clown. Gli altri linguaggi che hai menzionato – che, dopotutto, sono vere e proprie forme teatrali – derivano da una scelta forte che abbiamo attuato a monte ed è la rinuncia al testo. Quando decidi di negare la parola recitata è come se avessi bisogno di un altro linguaggio per raccontare e dare voce alle idee: i movimenti, la danza, la relazione col pubblico, il suono musicale assumono il valore di questo non-detto verbale. Nella nostra esperienza teatrale abbiamo notato che quando lavori senza testo è come se nella mente del pubblico accadesse qualcos’altro, è come se si attivasse un meccanismo “integrativo” nel chiamare in causa altri agenti partecipativi, ed è qui che subentra il ruolo dell’immagine. Il lavoro di costruzione visiva attiva una relazione curiosa tra pubblico e stage: lo sguardo, in mancanza di qualcosa è sempre teso a colmare il vuoto, la lacuna, finendo per completare ciò che rimane in sospeso. È questo particolare modo di relazionarsi con lo spettatore che a noi interessa. Non si tratta di una scelta programmatica o concettuale ma di una più intima e subliminale scelta poetica.

Foto Simon Wachter

Hai parlato della centralità delle immagini nella vostra esperienza teatrale. Ci sono degli artisti che vi hanno ispirato nella costruzione visiva?

I nostri punti di riferimento sono quei lavori visivi dove, appunto, il testo non è dominante e che veicolano il potere delle immagini nel teatro. Ci sono anche approcci molto distanti dal nostro, che però hanno avuto una rilevante influenza per lo sviluppo della nostra poetica. Penso al lavoro di Robert Lepage, sono sempre stato attratto dalla sua pratica visiva anche se usa il testo, perché in grado di legare insieme le immagini in modo evocativo. C’è anche una compagnia francese, che adesso purtroppo non è più attiva, la Compagnie Jérȏme Deschamps. Loro combinano in un modo meraviglioso una tipologia di teatro accessibile e comico, ma al tempo stesso usano una particolarissima poesia visuale, si affidano alla bellezza delle immagini e conferiscono “delicatezza” ai personaggi. Ultima, ma non meno importante, la poetica di Pina Bausch, noi veniamo dalla sua scuola e siamo legati artisticamente al suo lavoro.

Foto Simon Wachter

L’impiego di maschere così grandi sembra innescare non poche difficoltà. Come riuscite a coordinare la resa performativa con la questione più tecnica relativa all’utilizzo della maschera?

La difficoltà più ovvia e superficiale è che mentre agiamo mascherati sul palco siamo ciechi. Nella maggior parte dei casi gli interpreti non vedono quello che succede e quindi c’è bisogno di una coreografia precisa che coordini i movimenti di tutti. Anche i gesti che appaiono più naturali e spontanei sono frutto di una ricerca, di uno studio meticoloso che conduciamo, non solo sulle dinamiche di gestione dello spazio da parte degli attori ma anche sul tempo e il ritmo che essi devono seguire affinché il meccanismo teatrale funzioni. Accanto a questa difficoltà tecnica, che impedisce al performer di vedere o sentire quello che succede on stage, c’è la questione della complessità di linguaggio di un corpo stratificato. Dopotutto, io credo che la coscienza del pubblico sia la grande specialista nel linguaggio del corpo, tutti quanti noi abbiamo nel profondo un’innaturata conoscenza di questo codice perché è qualcosa che abbiamo ereditato con la storia della cultura. Il pubblico, quindi, legge le azioni dei personaggi in un modo molto preciso e così il nostro performare, dal muovere un braccio, il capo, allo stesso atto del respirare e del modulare la presenza scenica deve essere estremamente chiaro. Oltre alla scelta di questa forma governata da strutture, regole, codici – e che prende in causa le sequenze performative – siamo chiamati a riempire la forma di un contenuto. E per noi, ogni maschera ne porta con sé uno. Ogni maschera ha già dentro di sé una storia latente che vuole essere raccontata. E il pubblico, questa storia che la maschera contiene in principio, la vede, la percepisce, la sente. Dunque, la parte fondamentale di ogni spettacolo diventa trovare quella storia, scoprire quei gesti, quelle dinamiche che in qualche modo sono già lì, pronte ad essere disvelate.

Foto Simon Wachter

Hai parlato di un processo di lettura dei gesti davvero interessante, che di recente è stato approfondito anche negli studi antropologici applicati alla storia dell’arte. In un saggio, per esempio, David Freedberg parla di “neuroni specchio”.

Esattamente, la nostra ricerca affonda in qualche modo le radici in questo studio della simulazione che coinvolge le basi neuronali della mente umana. In primo luogo, la nostra pratica parte da un processo di analisi; dalla decostruzione naturalistica delle azioni umane passiamo poi alla ricostruzione di queste a partire dall’agire della maschera, che di per sé è uno strumento artificiale. Nonostante questa dicotomia, tra naturale e artificiale, tra studio e improvvisazione, quella che si viene a creare è una particolarissima connessione fisica. Quello che accade, durante lo spettacolo, è un effetto di riflessione: se il personaggio sul palco non respira, così il pubblico in platea finirà per trattenere il fiato. Si tratta di una relazione istintiva, primordiale, che chiama in causa degli agenti di simulazione, anche empatica, che caratterizzano da sempre l’essere umano.

Un ruolo importante è assunto anche dalla musica. In Hokuskopus, per esempio, lo spettacolo inizia con un motivo sonoro.

Sempre su un piano tecnico, usare il linguaggio del corpo e rinunciare all’elemento testuale crea un grande silenzio e questo può determinare una serie di problemi per la messa in scena. Le persone non si sentono a loro agio con il silenzio perché questo viene a produrre significati ulteriori rispetto a quelli previsti dalla rappresentazione, il pubblico stesso avverte la mancanza di qualcosa. L’elemento musicale si inserisce qui come elemento per risolvere questo “disturbo”. In Hokuskopus l’atto dello spettacolo coincide con l’atto all’origine dell’esistenza: il respiro. Lì è l’inizio della musica, del canto, è la nascita della vita.

Foto Simon Wachter

Assenza di testo, elemento musicale, linguaggio del corpo mascherato, sono tutte scelte che si situano all’origine di un fare teatro molto chiaro. D’altra parte, quanto invece l’improvvisazione modella il lavoro drammaturgico sulla scena?

A dire il vero, improvvisiamo in un modo formale, non libero. Noi prepariamo l’improvvisazione durante le prove. Non si tratta, dunque, di uno spazio totalmente aperto ma di uno spazio scenico preparato. Il teatro, per noi, non mostra tanto le idee ma la vita e il teatro con le maschere cerca proprio questo, cerca quelle idee che trovano vita e che diventano qualcosa di animato nello spazio. Per questo motivo all’inizio del nostro lavoro c’è molta improvvisazione, nell’intento di trovare e scoprire tessuto drammaturgico, poi nella seconda parte c’è l’intenzione di darvi una forma compiuta e dunque una fase di riorganizzazione del materiale sulla scena.

Foto Simon Wachter

I vostri spettacoli affrontano delle tematiche ricorrenti: il fallimento e lo sviluppo delle relazioni umane e dei rapporti famigliari, lavorando molto su un meccanismo che suscita sentimenti contrastanti…

Sì, si tratta di una scelta consapevole, ricercata. Alla fine, siamo abituati a pensare che la commedia e la tragedia siano due generi molto distanti tra loro, agli antipodi. In realtà, anche la commedia emerge da situazioni tragiche. Al cuore del discorso dei nostri spettacoli c’è l’idea del fallimento. La storia di questo fallimento è un modo di creare una connessione con il pubblico perché è una situazione che tutti sperimentiamo prima o poi nella vita, a qualsiasi grado della società. Al tempo stesso, l’aspetto comico è il motivo che permette il riscatto; la risata che cerchiamo di suscitare è fondamentale nella nostra concezione di teatro perché nel gesto stesso del ridere il corpo si comporta come una finestra: quando ridi il tuo corpo si muove, cambia il modo di percepire ciò che lo circonda, si apre ai sentimenti e accoglie le emozioni. È essenziale per noi tenere insieme questi due aspetti del reale e la maschera, all’interno di questo contesto, non si mostra semplicemente come un oggetto ma è vero strumento, veicolo di trasmissione, rapporto tra enti. È sia uno schermo fisico di separazione e di distanza, sia un ostacolo visivo che il pubblico tenta incessantemente di superare, per afferrare ciò che si trova oltre. Si tratta di un aspetto dialettico che permette l’innescarsi di una relazione continua.

Nell’ultimo spettacolo presentato al Teatro Menotti assistiamo all’emancipazione della maschera dall’attore, del personaggio dal creatore. Quale rapporto intercorre tra i due?

In quest’ultimo lavoro abbiamo voluto rappresentare un passo della Bibbia, il Genesi, che affronta la questione di dio e della creazione. Quello che ci interessava era allargare un po’ la prospettiva entro cui siamo soliti agire e approfondire l’analogia tra creatore/uomo e attore/personaggio, un modo per dire che quando facciamo teatro creiamo i personaggi e in qualche modo mettiamo in gioco dio e la possibilità di dare una forma espressiva all’esistenza.

Andrea Gardenghi

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Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi, nata in Veneto nel 1999, è laureata all’Università Ca’ Foscari di Venezia in Conservazione e Gestione dei Beni e delle Attività Culturali. Prosegue i suoi studi a Milano specializzandosi al biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali dell’Accademia di Brera. Dopo aver seguito nel 2020 il corso di giornalismo culturale tenuto dalla Giulio Perrone Editore, inizia il suo percorso nella critica teatrale. Collabora con la rivista online Teatro e Critica da gennaio 2021.

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