HomeArticoliNuovo Teatro Sanità. Cosa vuol dire restare al buio

Nuovo Teatro Sanità. Cosa vuol dire restare al buio

Chiude, dopo dieci anni di attività, il Nuovo Teatro Sanità. Cosa succede quando il benessere della città è ignorato dalle Istituzioni?

Foto di Salvatore Pastore

In quanto invenzione civile, il teatro è di pertinenza esclusiva del contesto che lo accoglie. La città tutta è lo spazio del teatro, ed è fuori da qualunque principio che le Istituzioni interferiscano o impediscano le sue attività. Quando l’esistenza di un teatro, come di qualunque luogo in cui si operi cultura, si lega in maniera profonda al luogo che lo ospita fino a farsi momento di vita degli abitanti, allora ecco che nasce il prodotto culturale: non è l’oggetto in sé, ma l’umanità che vi si compone attorno. «Noi abbiamo provato in un luogo che era abbandonato; un luogo in cui non c’era niente come per molte chiese a Napoli. Abbiamo cercato di non farla distruggere. Abbiamo cercato di accendere in questa piazza, che era piazza di spaccio, una luce la sera che in qualche modo cambiasse l’habitat. Teniamo quella luce accesa come se fosse quella di un altarino per strada, per segnalare che ci siamo e che qualcosa qui avviene». Mario Gelardi, direttore artistico del Nuovo Teatro Sanità, parla dell’edificio che ha avuto in cura per dieci anni. L’esperimento di convivenza del ntS ha effettivamente caratterizzato la struttura di un pezzo del quartiere, che storicamente ha una realtà complessa e problematica.

Foto Alessandro Pone

Quella luce, quell’unica luce accesa, ha coinvolto gli abitanti che, riconoscendo la presenza del teatro, hanno compiuto lo sforzo di contribuire attivamente alla ricomposizione di quel territorio. «Noi siamo partiti con le persone che non potevano arrivare in zona. Veniamo dagli anni degli accoltellamenti nel vicolo, da Genny ucciso in piazza (Gennaro Cesarano, diciasettenne vittima di una stesa nel 2015). Noi facevamo teatro in quegli anni lì». Il presidio permanente del teatro ha agito secondo una visione culturale che prevedesse la fruizione non come eccezionalità, come un lusso da potersi concedere di tanto in tanto, bensì come possibilità di accesso a un nuovo modo di concepire lo spazio, le relazioni e anche sé stessi. «Quando trovi delle formule di comunicazione diverse e vai tu incontro al pubblico, questo riconosce la bontà di quello che fai», ragion per cui, il meccanismo funziona nel momento in cui esiste una reciprocità nell’intenzione di trovare terreno di confronto: la strada. Tur de vasc è stato uno dei format che hanno visto la compagnia del Nuovo Teatro Sanità impegnata nell’alfabetizzazione teatrale del quartiere; ci si inserisce adagio nel tessuto quotidiano di certo non per colonizzarne l’immaginario o gli equilibri, bensì per creare un terreno di confronto in cui è inconcepibile che qualcuno ne resti escluso. «Il primo spettacolo che abbiamo portato nei bassi è stato L’orso di Čechov».

Foto Mario Gelardi

Di nuovo: il teatro, la cultura tutta, non solo è l’oggetto fruito; è vita, è dialogo, è emancipazione, è mondo, è spirito. Viene in mente l’esempio altissimo di operazione culturale degli sceneggiati RAI tra gli anni Sessanta e Settanta, che sono una memoria storica e civile fondamentale: la cultura (diventata) “alta”, passando attraverso il diffuso medium televisivo, diventa un bene comune; volendo forzare non poco la teoria, questa sarebbe l’evoluzione del romanzo popolare. «È un esempio che faccio spesso anche io. Ricordo mia nonna che aveva solo la quinta elementare, e conosceva I fratelli Karamazov», dice Gelardi, per l’appunto. Anche Do not disturb è un format dalla felice attività: ideato nel 2014 (quindi il primo prodotto autoriale del Teatro, nato nel 2013) da Gelardi e Claudio Finelli, è un progetto itinerante che vede il coinvolgimento di edifici privati come gli hotel. I giovani attori sono competenti e brillanti, i testi sono agili e accattivanti, e il pubblico è un gruppo composito di conoscenti e curiosi che gusta l’idea di poter godere della compagnia e del teatro ovunque, attraverso la città: non passa inosservato quanto l’attenzione e il coinvolgimento siano rinvigoriti da tutti questi stimoli. Ridisegnare attraverso il teatro gli equilibri della città, ormai mutata dalla turistificazione più feroce, riportare lo spazio urbano a una dimensione di attraversamento quotidiano inclusivo, sono questioni civili (esattamente come lo è il teatro) e delle chiare visioni di progettualità. Quel presidio ha successo, è un fatto. Com’è possibile, allora, dover subire la mortificazione di non vedere riconosciuta la bontà e la serietà di questa visione? Il Nuovo Teatro Sanità per le Istituzioni cittadine non è un vero Teatro: la struttura è del Comune ed è stata affidata alla Curia, per cui è una chiesa. Divisi tra Stato e Chiesa, al momento accidentale di difficoltà di lavori di ristrutturazione, e al mancato possesso di certificato di agibilità da parte dell’Associazione, l’unica opzione contemplata è stata la sospensione del cartellone prima e, sei mesi dopo, l’effettiva chiusura.

Foto Ciro Battiloro

«Adesso posso dirti che la questione dell’agibilità non è il reale problema, perché si sarebbe facilmente risolto. Avremmo potuto chiedere un prestito bancario. Credo ci sia proprio una mancanza di volontà che qui si continui a fare teatro. Anche se facessimo i lavori non avremmo l’agibilità, perché dovrebbe cambiare la condizione d’uso. Questa è responsabilità sia del Comune che della Curia, e attualmente non si sono nemmeno incontrati. Nell’ultimo incontro in Comune hanno spiegato che il bene era di proprietà comunale e che quindi il Comune poteva farsi rivalere verso di noi come occupanti abusivi e chiederci dieci anni di arretrati d’affitto. Eppure nel 2017 c’è stata una vertenza tra Comune e Curia, e il Comune ha dovuto accettare che il bene era della Curia». L’attività laboratoriale, sempre gratuita e sempre donata, è l’unica attività parallela al teatro concessa perché «la Chiesa ci insegna che il teatro è vanità», continua Gelardi ridendo con l’afflizione negli occhi. Siamo all’assurdo, alla violenza dell’abbandono, alla prepotenza dell’inettitudine. Considerata la ormai conclamata sofferenza di una città che non appartiene più ai suoi cittadini, come ci si può permettere la negligenza in merito al soddisfacimento di una reale necessità cittadina. Considerato che Napoli (ma non è l’unica città, sia chiaro), non ha l’Assessorato alla Cultura («ha la delega di occuparsi di noi Chiara Marciani, Assessora alle Politiche Giovanili»), per cui non esiste un disegno di identità culturale in città che coinvolga la vita della città stessa. Basti pensare che l’unico grande momento aggregativo cittadino è il Campania Teatro Festival. Il resto sopravvive per Bandi. «[Qui] Avviene qualsiasi cosa per renderci vivi. Alla fine siamo teatranti, e non ci puoi togliere il teatro dalle nostre attività. La formazione è meravigliosa e dà un senso alle nostre azioni. Qui c’è un teatrino di marionette costruito da uno dei nostri ragazzi: dal momento che non è più possibile fare spettacoli al chiuso, lui offre gratuitamente i suoi per il quartiere. Sasà avrebbe bisogno di uno spazio: è un’esigenza così semplice, così basilare». Allora, per le Istituzioni: quando si spegne una luce, difficilmente si riesce ad accenderne un’altra. Quello che resta poi è niente.

Valentina V. Mancini

Napoli – Marzo 2023

Telegram

Iscriviti gratuitamente al nostro canale Telegram per ricevere articoli come questo

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Pubblica i tuoi comunicati

Il tuo comunicato su Teatro e Critica e sui nostri social

ULTIMI ARTICOLI

Devozione e smarrimento. Giorgina Pi legge Roberto Zucco

A Romaeuropa Festival un altro atteso debutto: Giorgina Pi, regista del collettivo romano Bluemotion, si confronta con l'ultima opera di Bernard-Marie Koltès, Roberto Zucco....