Intervista a Michele Riondino. Abbiamo incontrato l’attore prima di una replica di Ritratto dell’artista da morto di Davide Carnevali al Piccolo Teatro Studio Melato. Un’occasione per parlare d’arte e tanto altro.
Mi saluta da lontano con il braccio alzato. Ed io che mi stavo chiedendo già da un po’, mentre aspettavo, se ci fossimo riconosciuti. Già perché Michele Riondino non lo vedevo da tempo – lontani gli spettacoli negli spazi indipendenti di Roma, lontani anche gli incontri di quartiere con qualche saluto da passeggio. E invece, lo scopro presto qualche minuto dopo, Riondino dopo il successo del cinema e della TV è ancora quello che incontri per la strada e si ferma a raccontarsi, ad ascoltare, a vivere insieme quei minuti per cui vale la pena, infine, raccogliere un’intervista. Al teatro ci torna appena possibile, quel vecchio amore che dalle processioni tarantine all’accademia non è passato mai. L’occasione gliel’ha data il Piccolo Teatro di Milano che lo vede in scena con questo Ritratto dell’artista da morto di Davide Carnevali, viaggio profondo nel rapporto tra fatti e storia, tra la realtà e la rappresentazione che ne diamo. La realtà, per quanto mi riguarda, è fatta di un piatto di ravioli ed una birra cinese, in un sabato di sole milanese, mentre il Taranto si avviava, di lì a poco, a pareggiare l’ennesima partita 0 a 0…
Per mettere in scena questa indagine sul tempo e sulla memoria avete messo sotto osservazione due diverse epoche storiche. Quali punti di contatto avete riscontrato?
C’è un ponte evidente legato alle due dittature – l’Italia del 1941 e l’Argentina del 1978 – ed è quello il luogo in cui i due personaggi in qualche modo si inseguono, facendo diventare centrale il tema della memoria storica. Ma, anche al di là di questi elementi, la cosa interessante è stato lavorare sui miei elementi biografici che sarebbero stati utilizzati per arrivare poi a raccontare quella storia. C’è il testo di Davide Carnevali, edito da Einaudi, ma si tratta di un testo diverso da quello messo in scena: ovviamente ci sono due musicisti che lavorano su una partitura durante una dittatura militare, e quello resta; però poi c’è la mia storia personale – la mia città Taranto, il mio attivismo politico, il mio successo televisivo con Montalbano di Andrea Camilleri, il mio primo film su cui stavo e sto lavorando – un’indagine che tiene insieme il ruolo dell’attore e quello del commissario per come io lo concepisco nel mio lavoro, la raccolta di quegli elementi biografici che diventano l’asse per reggere poi la storia dei due compositori.
Quali difficoltà hai incontrato, da attore, nel gestire un testo edito insieme a delle parti biografiche che un autore ha scelto di inserirvi?
Lo spettacolo inizia con delle riflessioni che sono mie proprie sul mestiere dell’attore, su quel rubare la vita agli altri, attraverso l’osservazione e la raccolta di indizi, che ne è fondamento; usare questi concetti serve proprio per arrivare a mettersi in relazione con quel testo, è quasi un abuso di biografia, si potrebbe dire, della propria esperienza reale. Che poi tutto sommato è quello che ormai siamo abituati a chiamare, nel cinema, mockumentary: usare elementi reali per andare a costruire una storia che non è vera né finta, ma verosimile.
Interessante come anche la letteratura, da tempo vocata all’autofiction, o l’arte figurativa, sempre più portata a esprimersi in maniera performativa, partecipata, abbiano introdotto elementi che sono propri del teatro, di quella pratica d’attore che mette in relazione la materia del racconto con sé stesso. Ma proprio questa sparizione del sé che l’attore mette in campo, per recuperare poi un sé più profondo, avviene attraverso una ricerca di elementi, di caratteristiche, da assimilare. Ma cosa succede quando ci si trova a “sparire” nella vicenda di chi è desaparecido? Come si recupera un’assenza?
Per noi attori quel nascondersi, o annullarsi dietro una maschera, è una via di salvezza, ci permette di essere liberi da vincoli anche sociali verso i quali magari qualcuno di noi, come me, avrebbe timidezza; questo è un tratto psicologico, quasi patologico, dell’attore. In questa storia io interpreto diversi personaggi, più precisamente ne faccio narrazione, racconto un’esperienza che io ho vissuto attraverso gli occhi miei, senza il filtro di un altro personaggio, per questo parlavo di abuso, proprio il mio corpo davanti al pubblico è usato in maniera diversa rispetto a come sono abituato a fare, quindi non c’è la protezione di un personaggio e io non posso nascondermi, sono messo davanti a un pubblico in quanto Michele Riondino.
Sei un attore impegnato su molti fronti, dal cinema alla serie TV, dal teatro all’attivismo politico con Uno Maggio Taranto che è diventato un riferimento nel dibattito politico nazionale. Come trovi il tuo punto di equilibrio o di contatto tra i diversi mondi?
Al di là dei diversi tipi di attività, quel che mi interessa sempre è il processo creativo, quello che va dall’idea alla realizzazione. Io parto dal presupposto che non salverò il mondo facendo l’attore, al massimo posso provare a salvare me stesso proprio per mezzo del processo creativo: se io attraverso la finzione, la rappresentazione, posso arrivare a fare delle riflessioni per capire come funziona il mondo, riesco a concepire la mia utilità all’interno della società, perché sono un individuo consapevole delle cose che dice. Questa consapevolezza me la rende l’atto artistico. E questo prescinde dal fatto che sia per il cinema, il teatro, la TV, perché per noi che lo abbiamo fatto vedere poi il film o la serie è un po’ il funerale di quel processo, mentre invece a essere vitale, a darmi conoscenza, è tutto il percorso precedente.
Proprio in virtù del successo arrivato da diversi dispositivi di rappresentazione – l’assenza del cinema o la viva presenza del teatro – come senti sia cambiato, evoluto, il tuo rapporto con il pubblico nel tempo?
Io sono molto timido, la mia relazione con il pubblico cambia a seconda di come lo spettatore mi accoglie, o mi invade; sono in difficoltà di fronte a un’invasione anche fisica che non mi permette di scambiare quei due minuti insieme, però la rispetto ovviamente, mi rendo conto che la mia funzione è anche quella di offrirmi, che è a tutti gli effetti una – pessima – performance. Quando invece riesco grazie a questo mestiere a riparlare con qualcuno che mi riporta a un vissuto, che si pone con disponibilità, allora è diverso, diventa come aprire l’album dei ricordi, godere di una materia comune nata proprio dalla visione di uno spettacolo o di un film.
C’è un oggetto che per il tuo mestiere d’attore è stato importante e magari ti porti dietro in camerino?
Ma sai che non sono per niente feticista? Non ho oggetti, non ho niente. Tanto è vero che in tournée, trovandomi a passare per i camerini dei colleghi, ogni volta trovavo la bambola, il trucco, il fiore, la candela… mi dicevo spesso: vedi che bello? Ne avevo una certa invidia, i miei camerini sono sempre stati vuoti, con il copione sul tavolo, la camicia della sera prima sulla sedia… ultimamente ho almeno la foto delle miei figlie, ecco, quando passano loro adesso se portano qualcosa quell’oggetto, quel disegno, diventano parte delle mie serate.
Ogni attore, lo abbiamo detto, parte dall’osservazione degli altri, dell’ambiente, del mondo. Ma, certo, anche del teatro stesso. C’è stato uno spettacolo che ti ha fatto dire “Io voglio stare lì”?
La mia fascinazione per l’atto performativo, la mia genesi, è la Processione della Settimana Santa a Taranto; fin da piccolo ero abituato ad andare a vedere con la famiglia le processioni che partono di giovedì santo e finiscono il sabato, praticamente un rave: vanno avanti per 48 ore consecutive. E lì ho trovato una teatralità che poi ho faticato a rintracciare altrove: la sacralità, il misticismo, quello che solo grandi spettacoli sanno dare. Ci sono 50 o 60 elementi incappucciati, a piedi nudi, che portano queste statue durante la Via Crucis come un simbolo rituale potentissimo; tutti hanno un ruolo diverso ma colui che proprio mi ha colpito più di tutti è il crucifero, quello che porta la croce: ce ne sono tre durante la processione perché rappresentano le tre cadute di Gesù, vanno avanti per 48 ore, curvi, a portare la croce sul proprio corpo.
Quando poi sono entrato in accademia, durante il mio percorso didattico, Totò principe di Danimarca di Leo de Berardinis è stato lo spettacolo che mi ha fatto capire che il mio teatro, quello che avrei voluto fare, era diverso da quello che mi insegnavano in accademia o che si poteva vedere nei grandi teatri di Roma.
Per concludere, fuori dal teatro: entro fine anno uscirà il tuo primo film da regista. Di cosa si tratta?
Il film è pronto, siamo nella fase di scelta proprio del periodo di uscita. È frutto di un’indagine che ho fatto fin dal 2017, la storia della Palazzina LAF (questo sarà il titolo) dell’Ilva di Taranto dove, tra il 1996 e il 1998, 79 lavoratori non operai – alti quadri come ingegneri, geologi, informatici – erano costretti a restare perché non accettavano delle regole imposte dalla nuova dirigenza. Quindi nel 2017 ho iniziato questa ricerca con Maurizio Braucci e Alessandro Leogrande che aveva fatto un’inchiesta sui reparti lager e che poi, purtroppo, è mancato nel 2017, proprio in un giorno in cui dovevamo vederci per lavorare. Il suo impegno è stato ed è fondamentale per questo film.
Simone Nebbia
Leggi la recensione di Ritratto dell’artista da morto su Cordelia di marzo 2023