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MEDEA, UNA MADRE (di Liv Ferracchiati)

Questa recensione fa parte di Cordelia, marzo 2023

Si chiamano Mermero e Fere, anche se nella storia della tragedia sono più spesso nominati come “i figli di Medea”. Sulla scena di Liv Ferracchiati – qui in collaborazione drammaturgica con Piera Mungiguerra – hanno i corpi e le voci di Anna Coppola e Francesca Cutolo, e la scelta di segnare una distanza (anagrafica, prima che di genere) dilata le possibilità dell’astrazione. La figura di Medea, identificata nell’immaginario con il proprio gesto infanticida, è qui destrutturata in forma di enigma femminile e materno. La drammaturgia è composta intersecando passi tratti da Euripide, da Seneca e dalla Medea inedita di Antonio Tarantino, tra i quali si insinuano frammenti originali, e richiede alle attrici di muoversi con destrezza e mestiere, entrando e uscendo dai personaggi che convocano via via sulla scena. Grazie anche a una regia solida e misurata, le interpreti riescono a non smarrire il proprio sguardo di figli – e la propria relazione fraterna, fatta di tenerezza e di agonismo – al cospetto dell’incomprensibile. Sul fondale, in una teca, che si rivelerà accessibile, è custodito il simulacro di Medea. Troneggia nel proprio mutismo di totem ma diverrà – al di qua del tabù, della linea di sangue che ha tracciato – un oggetto che può essere smontato in parti (principessa barbara nel contesto della polis greca, maga, anche lei vittima sacrificale) e dunque, forse, destituito. Se, da un lato, in questa possibilità di ripercorrere e dimenticare sembra racchiusa la promessa della psicanalisi, dall’altro la messa in questione del valore della memoria si fa, sul finale, più radicale e insieme più dolce. Quando il mistero permane, vivere coincide con un’altra crudele cerimonia: quella durante la quale ci si mutila dell’esigenza di comprendere, e di ricordare. Si tratta dell’unica breccia che, per i due, è possibile aprire nella prigionia programmatica del meccanismo della tragedia, che è scritta per essere compiuta. Persino i figli, si dice incidentalmente, se potessero estraniarsi e assistervi, vorrebbero che si compisse. La verità più elementare della violenza pretende di essere elaborata per mezzo del rituale. E, come scrive René Girard ne La violenza e il sacro (1972), «è criminale uccidere la vittima perché essa è sacra…ma la vittima non sarebbe sacra se non la si uccidesse». (Ilaria Rossini)

Visto al Teatro Mercadante. Crediti: con testi da Antonio Tarantino, Seneca e Euripide; ideazione e regia Liv Ferracchiati; drammaturgia Liv Ferracchiati e Piera Mungiguerra; con Anna Coppola, Francesca Cutolo; aiuto regia Anna Zanetti; scene e costumi Lucia Menegazzo; disegno suono e luci spallarossa; direttore di scena Antonio Gatto; datore luci Carmine Pierri; fonico Daniele Piscicelli; sarta Luciana Donadio; produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, TPE Teatro Piemonte Europa

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Ilaria Rossini
Ilaria Rossini
Ilaria Rossini ha studiato ‘Letteratura italiana e linguistica’ all’Università degli Studi di Perugia e conseguito il titolo di dottore di ricerca in ‘Comunicazione della letteratura e della tradizione culturale italiana nel mondo’ all’Università per Stranieri di Perugia, con una tesi dedicata alla ricezione di Boccaccio nel Rinascimento francese. È giornalista pubblicista e scrive sulle pagine del Messaggero, occupandosi soprattutto di teatro e di musica classica. Lavora come ufficio stampa e nell’organizzazione di eventi culturali, cura una rubrica di recensioni letterarie sul magazine Umbria Noise e suoi testi sono apparsi in pubblicazioni scientifiche e non. Dal gennaio 2017 scrive sulle pagine di Teatro e Critica.

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