Questa recensione fa parte di Cordelia, marzo 2023
Quattro secoli prima che Jeffrey Eugenides lo ponesse in esergo al suo romanzo The marriage plot, François De la Rochefoucauld scriveva che «nessuno si innamorerebbe se non avesse mai sentito parlare dell’amore». Se la concezione occidentale di amore si fonda (è Denis de Rougemont a dirlo) sui romanzi cortesi, l’amore, di quella tradizione, costituisce il solo elemento superstite: la pietra dello scandalo, certo, ma anche quella tombale. Nella riscrittura firmata da Giovanni Ortoleva e Riccardo Favaro si avvertono gli echi di una lunga storia letteraria e cinematografica (da Chretien de Troyes a Robert Bresson) ma, al contempo, anche la loro mise en abyme. Lancillotto e Ginevra appaiono in forma di fendenti (e la luce si imprime sulla scena come lacerazione, primaria e verticale, del buio) di una vicenda che si è edificata, nei secoli, attraverso le proprie sistematiche rinarrazioni. Tutte le scelte (verbali, espressive, scenografiche) concorrono a una composizione profonda e disadorna che evoca, degli amanti, i profili carnali eppure esangui, precedenti la leggenda. Sono impegnati in un dialogo continuo, intessuto di visioni: le armi nere, la mano che gronda sangue, i capelli chiari e lucenti. Ma, di tutte le visioni, le più struggenti sono quelle sacrificate per sempre al dettato dell’amore: la benedizione della spada, gli scudi che, come pietre preziose, riflettono le fiamme delle torce, i boschi, gli stendardi, il legno della tavola rotonda che affratella i cavalieri. Tutto ciò che sulla scena non appare, per cedere invece lo spazio centrale a un’armatura smontata, simile a un guscio, a un detrito, a un sembiante. Edoardo Sorgente è un Lancillotto delicato ed eroso, che contrappunta con il proprio disarmo la perfezione con cui Leda Kreider aderisce all’incanto di Ginevra. Se lo sfondo non esiste più, sono il buio e il silenzio a custodire la verità: il primo è ferito appena dalla grazia di ciò che si intravede, dal secondo affiorano le parole, testimonianze dolenti di un eterno insondabile. La felicità più alta, quella che sarebbe dovuta essere taciuta e che determina la rovina, finisce per appartenere a tutti, in forma di leggenda. E dunque ci innamoriamo. (Ilaria Rossini)
Visto al Teatro Basilica, Crediti: di Riccardo Favaro e Giovanni Ortoleva; regia di Giovanni Ortoleva: musiche di Pietro Guarracino; luci Massimo Galardini; con Leda Kreider e Edoardo Sorgente; produzione Teatro Metastasio di Prato con il supporto di Centro di Residenza della Toscana (Armunia -CapoTrave / Kilowatt), KanterStrasse, ResidenzaArtistica Olinda/TeatroLaCucina