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Come liberarsi del passato? lacasadargilla all’origine del suicidio

Recensione. Anatomia di un suicidio è il progetto teatrale di lacasadargilla sull’omonimo libro di Alice Birch, debuttato a febbraio al Teatro Piccolo Grassi di Milano. Una storia di rottura con un lutto ciclico e predestinato, la realtà di un dolore ereditario che affronta con onestà di sguardo la questione della maternità. Fino al 19 marzo 2023.

foto di Masiar Pasquali

C’è la percezione di una profonda ferita sul corpo dello spettatore che si è recato a vedere Anatomia di un suicidio al Piccolo Teatro Grassi di Milano, ma anche il calore avvolgente di un’immagine che si sedimenta nella sua memoria. È l’immagine di un paesaggio di aperta campagna; l’orizzonte terso è interrotto da macchie scure di frutteti estesi, dove la visione dell’abbondanza degli alberi di prugne è alternata dal profumo dolce dei ciliegi in fiore. Sempre lì, sul fondo del ricordo, s’intravede la struttura di una casa dalle ampie vetrate. È una casa abitata dalle ombre di ciò che è stato e che non si può cancellare, casa di silenzi e di vuoti, dimora dalle sonorità subacquee, grembo di una perdita destinata a ripetersi per un insanabile dolore, situato proprio lì, in un tratto del corredo genetico femminile. Di questo dolore, che segna tre generazioni di donne (1972, 1999, 2033), donne che sono madri, madri che sono anche figlie e figlie che decidono di rimanere semplicemente figlie, lacasadargilla ripercorre le tracce attraverso una storia che intreccia passato, presente e futuro. Lo fa portando a teatro, con un nuovo debutto, Anatomia di un suicidio della drammaturga e sceneggiatrice britannica Alice Birch, già rappresentato nel 2017 dalla regia di Katie Mitchell al Royal Court Theatre di Londra.

La scena è l’immanente anfratto di una casa, una parete a tre porte divisa in corrispettivi spazi adiacenti. I confini tra di essi, ideati con particolarità di visione da Marco Rossi, sono osmotici e permeabili come membrane sottilissime. Di questo ambiente domestico assistiamo al repentino susseguirsi degli arredi interni: c’è una stanza di ospedale che appare e scompare sulle tre scene come il richiamo di un’eco lontano. C’è una poltrona nell’interno di un salotto, il tavolo di una sala da pranzo, i palloncini colorati di una festa e una vasca nella stanza da bagno.

foto di Masiar Pasquali

Nello spettacolo diretto da Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni sono gli oggetti della scenografia a costituire il nodo visivo della rappresentazione, assumendo quel potere perturbante di un paesaggio rimosso che imperterrito ritorna; essi raccolgono i salti temporali trasponendosi da storia a storia per riattivarne i segni sui diversi piani cronologici. Il legame che si viene a instaurare è frutto di una scelta ben consapevole da parte della compagnia, che si riflette in particolar modo sul tessuto drammaturgico (il cui testo è stato tradotto da Margherita Mauro): qui, i dialoghi abitano delle formule di ripetizione atte a ricreare un’eco tra le tre storie che procedono in parallelo, trasformandosi in tracce mnemoniche di un’eredità famigliare. Questo espediente narrativo, sostenuto e amplificato da quello visivo, appare davvero efficace, in quanto permette di attivare una fruizione sincronica delle vite rappresentate – contrariamente a quanto possibile nella sola lettura del testo scritto, che costringe a comprendere i passaggi dei dialoghi per fasi successive. Ecco che le vite delle protagoniste avvengono in scena contemporaneamente ma, invece di rimanere segmenti divisi, si intrecciano nei rimandi di parole ed immagini, sconfinano dalla linearità scenica su cui sono costrette e in questo movimento coordinato da Marta Ciappina finiscono per completarsi scivolando l’una nell’altra.

foto di Masiar Pasquali

E a scivolare sono anche i personaggi (tutti di notevole caratura e capacità introspettiva), che agiscono quell’ingranaggio recitativo collettivo seguendo un ritmo precisissimo che si fonde alle note musicali “liquide” elaborate da Alessandro Ferroni e Pasquale Citera. Scivola ai bordi della propria esistenza Carol, donna esile afflitta da una grave forma depressiva che si aggira nelle stanze come un fantasma avvolto da una nube di fumo, sospeso tra la vita a cui si aggrappa e che vuole generare e la vita che alla fine si nega. Scivola anche la figlia Anna, su quella morbida, liscia poltrona del salotto, dopo l’ennesima dose di eroina, tentando di anestetizzare il trauma di un lutto materno mai compreso. Nella sublime performance di Petra Valentini, Anna rivela una tragicità viscerale e un’instabilità convulsa; ad essa tenta di porre rimedio in un centro di cura, ma a salvarla non è nemmeno l’amore che in esso vi trova. E non la salva la bimba che partorisce, perché il ruolo di madre ne accentua solo la vulnerabilità («I miei capezzoli sanguinano. Non riesco a dormire. E quando ci riesco ho gli incubi…Ho sognato di avere un figlio maschio. Io volevo un maschietto – è normale?… Ce l’aveva messa davvero tutta per nascere. Io premevo la sua bocca sul mio seno e lui smetteva di respirare letteralmente smetteva nel momento in cui entrava in contatto con il mio corpo. Semplicemente smetteva»). In questo personaggio cardine tra le due generazioni non vi è, quindi, solo la mancata elaborazione della perdita, ma il principio di un’incrinatura con un modello a cui aderire che si trasforma in un vero e proprio rapporto conflittuale con la dimensione materna.

È Bonnie, figlia di Anna e donna della terza generazione, quella del presente che si fa futuro, ad interrompere la ciclicità di questo lutto predestinato, spezzando la catena di una pesante eredità matrilineare. Bonnie sceglie di rompere con il passato (i cui sintomi sembrano inscritti nel suo codice genetico) e mette in discussione la tradizione stessa di un costrutto sociale: essere donna, anche senza essere madre. La sua è una presa di posizione forte, che ci pone di fronte a un quesito che torna oggi con urgenza. Nel dibattito che parte dalla cronaca ma che attraversa le esperienze musicali, letterarie e cinematografiche, è immediato avvertire una cultura che sente l’esigenza di scardinare un immaginario imposto che ingabbia la realizzazione – e completezza – di una donna in un ruolo sociale.

foto di Masiar Pasquali

A  tentare di tracciarne le fila ci sono state – e continuano ad esserci – delle importanti riflessioni: Annie Ernaux, ne L’evento (scritto nel 2000, ma tradotto in italiano con un ritardo sintomatico solo nel 2019), trasposto al cinema nella regia di Audrey Diwan, vincitrice del Leone d’oro al miglior film alla 78ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, parte da una vicenda autobiografica e affronta la lacerazione di una gravidanza non voluta («È orribile: sono incinta») ma anche la difficoltà di riconoscersi nella morale dettata dalla società («Era impossibile determinare se l’aborto era proibito perché era un male o se era un male perché era proibito»). Romana Petri scava ancora più a fondo e si addentra in territori bui e inesplorati; la “maternità mostruosa” che racconta attinge ai fatti di cronaca, è narrata come qualcosa che è esistito da sempre ma che viene distorto dalla comunicazione odierna dei media («Per narrare il lato oscuro del sentimento materno penso se ne debbano vedere le diverse forme e sfaccettature, penso che se ne debbano indagare le cause profonde, che sono spesso diverse: solitudine, angoscia, invidia»). A queste tematiche, si affiancano altre visioni, di un ruolo genitoriale femminile logorato dall’incapacità di corrispondere ad uno stereotipo (affrontato per esempio dalla nuova produzione cinematografica di Maggie Gyllenhaal La figlia oscura, tratta dal romanzo di Elena Ferrante, che rivela «un’esplorazione oscura e profondamente inquietante di qualcosa di molto più crudo e radicale: l’idea che la maternità possa depredare il sé in modi irreparabili»), ma anche dell’isolamento e del disagio che provoca la depressione post-partum, di cui è diventata portavoce Levante con la canzone “Vivo”.

Da questi brevi esempi emerge uno scenario complesso, che dimostra come la questione femminista viva e accolga le contraddizioni, anche quelle dell’essere madre. In Anatomia di un suicidio, lacasadargilla si inserisce all’interno di questo dibattito, decidendo quindi di portare il pubblico «a ragionare, a posizionarsi diversamente rispetto a temi spinosi, dolorosissimi, come la pulsione di morte, il rapporto con il generare, con un femminile che, ancora oggi, nel XXI secolo, è percepito principalmente come generatore di figli» (come riportato in un’intervista nel programma di sala). E, nell’apertura alla comprensione del presente, ritorna al passato, sui luoghi del dolore, risana gli strappi di una ferita profonda lunga generazioni e ne riscrive delle nuove cuciture.

Andrea Gardenghi

Visto al Piccolo Teatro Grassi di Milano – febbraio 2022

Anatomia di un suicidio

di Alice Birch

un progetto di lacasadargilla

regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni

traduzione Margherita Mauro

scene Marco Rossi

costumi Anna Missaglia

disegno luci Luigi Biondi

paesaggi musicali Alessandro Ferroni
sound designer Pasquale Citera

disegno video e cura dei contenuti Maddalena Parise

drammaturgia del movimento Marta Ciappina

con (in ordine alfabetico) Caterina Carpio, Marco Cavalcoli, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Alice Palazzi, Federica Rosellini, Camilla Semino Favro, Petra Valentini, Francesco Villano e con Anita Leon Franceschi

produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

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Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi, nata in Veneto nel 1999, è laureata all’Università Ca’ Foscari di Venezia in Conservazione e Gestione dei Beni e delle Attività Culturali. Prosegue i suoi studi a Milano specializzandosi al biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali dell’Accademia di Brera. Dopo aver seguito nel 2020 il corso di giornalismo culturale tenuto dalla Giulio Perrone Editore, inizia il suo percorso nella critica teatrale. Collabora con la rivista online Teatro e Critica da gennaio 2021.

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