Aspettando Godot diretto da Theodoros Terzopoulos, con la produzione ERT e la compagnia Vetrano e Randisi. Recensione. Visto al Teatro Vascello di Roma, in scena anche al Teatro Bellini di Napoli
È nota l’affermazione che la critica Vivian Mercier fece nel 1956 su quel rompicapo spiazzante che era stato En attendant Godot tre anni dopo il debutto: «un’opera in cui non accade nulla, due volte». Su quel “nulla” – ripetuto, diremmo, almeno due volte – attorno al quale Samuel Beckett ha architettato una struttura stratificata e aperta a molteplicità di interpretazioni, sono state dedicate numerose pagine e numerosi spettacoli, nei tentativi non sempre riusciti di dare ciascuno una propria interpretazione.
La grandezza di quest’opera, tra i capisaldi del teatro dell’assurdo, d’altro canto, prevede un rigidissimo rispetto delle indicazioni fornite dal suo autore, peculiarità che ha sempre contraddistinto le messe in scena dei suoi testi, e che spesso hanno anche contemplato rischi di ritiro dei diritti di rappresentazione perché non si era tenuto conto di una indicazione specifica, dagli aspetti scenici come la presenza dell’albero nella sua doppia veste tra il primo e il secondo atto, fino alla resa dei personaggi (e conseguentemente arrivando anche al sesso degli attori scelti). Se questa visione così radicale poteva trovare una motivazione nella necessità di mantenere sempre e comunque quell’impostazione originaria, così da non “tradire” nessuno degli aspetti pensati da Beckett, alla lunga ha portato anche verso una sorta di stanchezza, di monotonia o, come si diceva prima, di cause legali, come quella contro Roberto Bacci e Pontedera che aveva prodotto nel 2005 una regia con due donne interpreti di Gogo e Didi (poi fortunatamente vinta, come si racconta in questo interessante approfondimento su Ateatro).
Quindi, da un lato un’opera monumentale che ha cambiato il modo di concepire il teatro, non più costruito su una logica causale delle azioni, basandosi su una realizzazione impossibile, quella del paradosso (dall’arrivo mai effettivo di Godot al capovolgimento continuo di ruoli di potere; dal riso che cela lo sbigottimento a un’idea di legame mutevole), dall’altro, un meccanismo drammaturgico fortemente impostato, di cui comunque tenere conto, fosse anche per sovvertire. La domanda alla base della scelta di un testo come questo può essere sicuramente quella che riguarda quale interpretazione dare (considerando anche l’estremo rifiuto da parte di Beckett di dare ulteriori spiegazioni delle proprie opere al di fuori delle stesse); ovvero, come rispettare il diktat autoriale originario e però contemporaneamente farsi carico del segno registico di chi la metta in scena. In questo periodo, tra le regie che hanno preso di petto tale questione, vi è quella di Theodoros Terzopoulos proprio di Aspettando Godot, prodotto da Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale e Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini e visto al Teatro Vascello di Roma con un cast di cinque formidabili attori, Enzo Vetrano e Stefano Randisi nei panni di Gogo e Didi, Giulio Germano Cervi, Paolo Musio, Rocco Ancarola, rispettivamente Lucky, Pozzo e il ragazzo.
Il regista greco, che ha già alle spalle un percorso di attraversamenti beckettiani (suoi spettacoli sono stati anche Dondolo, Improvviso dell’Ohio e Finale di partita), decide di rimanere dentro questa formidabile “prigione” – così la definisce – proponendone una lettura fortemente tragica, schiacciata. Schiacciato è lo spazio su cui stanno i personaggi, catturati in un attimo indefinito – dunque ripetibile all’infinito, e non solo due volte, come il riferimento ai due atti secondo Mercier – che li costringe a ripetere costantemente i propri movimenti vuoti, nella vana speranza che la parola possa diventare azione. Non è certo che sia un tempo del tutto fermato, come chiederà a un certo punto qualcuno, perché l’altro risponderà di non poterlo credere.
Questo impianto, estremamente rigoroso sul piano scenico e attoriale, si apre con un muro composito, su cui sembra scorgere un accenno di croce, salvo aprirsi in quattro pannelli e poi svelare uno stretto spazio rialzato, dai soffitti bassi e quasi bidimensionale. È in questo spazio che stanno Vladimiro ed Estragone, costretti perennemente in posture pressoché orizzontali, caratterizzati da una qualità del gesto contratta, i loro sguardi non si incrociano perché sono già i loro corpi perennemente avviluppati, in contatto tra loro, nel vano tentativo di un conforto che non arriva. Tra i due si apre una botola, prigione spaziale ancora più ridotta, da cui fa capolino Lucky, l’unico poi a scendere sul palco per il suo monologo a fine atto I (pieno di tic, nervoso, un meccanismo sul punto di scoppiare, intenso al punto da prendersi un applauso a scena aperta); o Pozzo, che nel suo ribaltamento di ruoli sbuca nella parte inferiore ma rimarrà sempre bloccato, o il ragazzo, che arriva da dietro, figura da messaggero che però non è in grado più di rinnovare la storia con una notizia.
Davanti, come a voler accontentare le indicazioni didascaliche, un piccolo bonsai, segno di quell’albero su cui i due vorrebbero impiccarsi. Ma se già nelle loro parole l’ipotesi dell’atto estremo è irrealizzabile (in quanto incastrata nell’inazione tra due desideri opposti, quello del singolo e quello dell’altro), questa scelta sottolinea l’ulteriore impossibilità, non più soltanto assurda ma tragica, resa impossibile dalle condizioni presenti. Tale tensione tragica fortemente voluta dal regista, legata in questo caso a un immaginario bellico, arriva anche attraverso altri segni, come la fila di coltelli insanguinati che piomba lentamente dal soffitto a squarciare il quadro scenico, resa ancora più nitida da un gioco di luci esemplare (del regista sono anche scene e illuminazione, mentre il riadattamento vede anche la consulenza drammaturgica di Michalis Traitsis), così come le sirene o suoni cupi che si odono in più momenti dello spettacolo. Rimane un presente di brandelli, di abiti scrostati e intrisi di quello che pare sangue rappreso, di una vita che era e che ora è quasi giunta alla fine.
L’immobilità coatta – ridotta al suo grado minimo nella letteralità delle didascalie piene di azioni, ma nel contempo estrema nella sua interpretazione della parola, nel passaggio da quel “Andiamo” al successivo “non si muovono” – approda all’impedimento della componente umoristica che tuttavia è sempre appartenuta al testo e che in questa scelta, cui si riconosce forte coerenza, nettezza e scavo originale, però viene a mancare. Stando al senso che Maurice Nadeau dava di Beckett, “humour et néant”, e partendo dalla lettura che ne fanno Carlo Fruttero e Martin Esslin, pare che Terzopoulos tralasci il riso inteso come “cavallo di Troia” per arrivare diretto a quel senso di azzeramento, puntando tutto su una dimensione, letteralmente, post-dramma. Anche perché quel riso verso cui ci spinge soprattutto la prima coppia, poi porta chi assiste a un ribaltamento di quella postura emotiva iniziale, passando per la noia, per lo sgomento e dunque arrivando poi al suo climax: privati di questo passaggio, ci si trova sempre davanti a una scena devastante, implacabile, e però già vissuta, senza quell’afflato leggiadro e senza nemmeno una presa di coscienza effettiva nei confronti di una condizione deprecabile, in grado di farci avvertire quel pirandelliano sentimento del contrario. Beckett scriveva dopo gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, si era dato il compito di riflettere su quell’orrore appena passato. Noi, adesso, ce lo abbiamo di fronte, nemmeno troppo distante.
Viviana Raciti
visto al Teatro Vascello, Roma, febbraio 2023
Aspettando Godot
di Samuel Beckett
traduzione Carlo Fruttero
copyright Editions de Minuit
regia, scene, luci e costumi Theodoros Terzopoulos
con Paolo Musio, Stefano Randisi, Enzo Vetrano
e Giulio Germano Cervi, Rocco Ancarola
musiche originali Panayiotis Velianitis
consulenza drammaturgica e assistenza alla regia Michalis Traitsis
Training attoriale – Metodo Terzopoulos – Giulio Germano Cervi
scene costruite nel Laboratorio di ERT/Teatro Nazionale
responsabile dell’allestimento e del laboratorio di costruzione Gioacchino Gramolini
scenografe decoratrici Ludovica Sitti con Sarah Menichini, Benedetta Monetti, Martina Perrone, Bianca Passanti
progettazione led Roberto Riccò
direttore tecnico Massimo Gianaroli
direttore di scena Gianluca Bolla
macchinista e attrezzista Eugenia Carro
capo elettricista Antonio Rinaldi
fonico Paolo Vicenzi
sarta realizzatrice e sarta di scena Carola Tesolin
produzione Emilia-Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
in collaborazione con Attis Theatre Company
foto di scena Johanna Weber / ritratti: Luca Del Pia.
Volevo semplicemente fare i complimenti alla dottoressa Raciti per questo prezioso contributo, gran bel lavoro… grazie.