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Pasolini e il silenzio del mondo. Pilade di Giorgina Pi

Abbiamo incontrato Giorgina Pi, regista di Pilade, in prima assoluta a Bologna nel progetto di ERT “Come devi immaginarmi” dedicato a Pier Paolo Pasolini.

Foto Anna Faragona

Il progetto “Come devi immaginarmi” – inaugurato da Fabio Condemi e dal suo Calderón a novembre 2022 – è una “dedica” di ERT a Pier Paolo Pasolini nel centenario della nascita, che sta portando per la prima volta alla messinscena delle sei principali tragedie scritte in un breve giro di mesi a metà degli anni Sessanta.
L’idea è anche quella di offrire a registe e registi anagraficamente e/o artisticamente più giovani l’opportunità di dire qualcosa di diverso su questo grande autore, idealmente convocando nel lavoro certe peculiarità del percorso artistico. È il caso di Pilade, che porta la firma di Giorgina Pi. Ma chi conosce questa artista sa che sarebbe miope non considerare, assieme a lei, anche un folto gruppo di figure che, gravitando attorno all’Angelo Mai di Roma e sotto il nome di Bluemotion, da tempo pensa e realizza formati di spettacolo caratterizzati da una profonda interdisciplinarietà, attenta ricerca sulle drammaturgie dell’immaginario, riconoscibile impegno in una politica della creazione fieramente indipendente.

Cupo, messianico e però vibrante di tenacia anti-nichilista, lo spettacolo conserva l’indubbia complessità del testo, chiede molto al pubblico e tuttavia si presenta essenziale e preciso fin dall’impianto scenico, che ritrae bassifondi urbani dove sorgono carcasse di automobili e roulotte e pile di copertoni come tracce di rovine di questo tempo che fu.
Forse tesa a creare una camera d’ascolto favorevole all’ostico linguaggio tragico pasoliniano è l’evidente staticità dei quadri e dell’azione scenica, che a tratti ricorda certe regie liriche: se pure si senta il bisogno di uno spazio in grado di accogliere il pubblico in un rituale più intimo, anche in visione frontale risalta l’aggraziata regia di toni e movimenti. Solide e unite da ottima sinergia, le figure in scena evocano sul palco la foresta di simboli eretta da questo ideale sequel dell’Orestea di Eschilo.

Foto Guido Mencari

Un esperimento di «mitopoiesi» (così lo definisce Massimo Fusillo, qui anche dramaturg, nel prezioso approfondimento del foglio di sala), un «dialogo ideologico» con la tragedia classica in cui inserire come reagenti elementi sì contemporanei, ma che mirano a conquistare – e non sempre ci riescono – una stessa potenza archetipica.
Unita da un guinzaglio al piccolo Niko, cagnetto meticcio, Giorgina Pi la incontriamo a un tavolino lungo via Righi, a pochi passi dall’Arena del Sole di Bologna, per una conversazione all’indomani del debutto.

Una volta l’approdo a una produzione sostenuta dal “grande circuito” degli stabili pubblici era, per una compagnia indipendente, un punto d’arrivo. Oggi alcuni nuclei artistici riescono con maggiore facilità a intercettare commissioni dirette o a trovare sostegno da parte dei grandi organismi di produzione, anche se resta il problema oggi più urgente, quello della distribuzione e della circuitazione. Che cosa significa per Bluemotion produrre uno spettacolo di grande formato con due teatri nazionali?

Foto Guido Mencari

Bisogna specificare che le condizioni produttive, in generale, non sono comunque facili. Il problema è sempre principalmente legato ai tempi. Mi riferisco al tempo che si ha a disposizione per la creazione di progetti complessi che spesso necessiterebbe di essere più lungo per sostenere anche le fasi di lavoro precedenti alla sala prove – lunghe, approfondite e spesso vivono nell’incertezza. Arrivare a una produzione del genere è un percorso di valore soprattutto se, come nel mio caso, non si convocano degli scritturati, ma delle persone che fanno parte di un gruppo che, in nome di una visione comune, attraversa le contraddizioni del sistema teatrale italiano e si interroga su ciò che può fare. La grande responsabilità di stare su un palco come questo – e poter lì accogliere il gruppo quasi al completo – sta anche nel continuare a dire ciò che diciamo qui con lo stesso spirito che useremmo in quei contesti più piccoli dove siamo cresciute e cresciuti. Nel caso di Pilade ha significato anche dare lavoro a delle persone rifugiate, che aveva un senso nella lettura del testo, ma anche e soprattutto un’urgenza rispetto al presente: il problema che io definisco struggente, che Pasolini chiama «il silenzio immedicabile del mondo», è che non c’è più nessuna azione di cittadinanza nel teatro italiano. A chi stiamo parlando? La prima urgenza perché il teatro torni davvero pubblico è quella di parlare con la gente, e allora un’opportunità simile prende senso solo se davvero riesce a farci parlare a più persone, se davvero ci fa entrare in dialogo quando poi finalmente si apre il sipario.

foto Guido Mencari

Apriamo il sipario, allora. Rispetto al vostro percorso, che cosa ha significato lavorare su Pasolini?

Sono molto interessata ai nessi sotterranei che Pilade ha con Petrolio, su cui nel 2012 avevamo costruito una creazione collettiva all’Angelo Mai di Roma, con anche trentasei giornate di lettura integrale pubblica. Questo ci ha dato forza, perché, nel ritrovare in questo testo certe stesse ombre e luci politiche, ci stavamo riconnettendo alle nostre origini. Il teatro di Pasolini ha la necessità di entrare in uno scontro con il regista, perché richiede di continuo di non essere pacificato. In ogni suo scritto c’era una forte istanza di provocazione indirizzata direttamente all’élite intellettuale borghese. Soprattutto dal punto di vista linguistico, questo ti crea attorno una struttura da cui non puoi uscire; è stato molto importante lavorare con un dramaturg come Massimo Fusillo, perché le intuizioni di regia devono essere supportate dalle ragioni del testo, attraversate da una persona altra, che guardi a quei significati senza necessariamente doverli proteggere a spada tratta, ma guidando la regia nel suo lavoro compositivo.

Foto Guido Mencari

Quali interventi ci sono stati sul testo?

Abbiamo operato alcuni tagli e ricostituito un ordine dei personaggi: è molto forte l’identità degli eroi, degli dei, ma compare, nel coro, tutto un altro mondo contadino (il ragazzo, la serva, il vecchio) e su questo abbiamo lavorato molto per creare uno spettacolo corale. Tracciando un’immagine dell’Africa come universo rurale, sfruttato, arcaico e visionario, abbiamo vagheggiato la speranza che in un futuro proprio le persone sfruttate possano diventare i nuovi partigiani, cercando così di rompere gli argini nichilisti che il testo costruisce. E allora il vecchio, interpretato da Anter Abdow Mohamud, consegna le notizie in somalo ed esse vengono tradotte da Cristina Parku, giovane attrice italo-ghanese, espressione di una seconda generazione che raccoglie il testimone dei padri. Tra lei e Pilade abbiamo creato un dialogo privilegiato, immaginando che Antonio Gramsci (sul cui modello Pasolini chiaramente scrisse il personaggio di Pilade) potesse parlare a una giovane afrodiscendente di oggi.

Foto Guido Mencari

A proposito della possibilità di un dialogo tra una e l’altra generazione e della traduzione e tradizione del pensiero. Oggi quel linguaggio e quell’immaginario a chi possono parlare? In una nota al progetto il co-ideatore insieme a Valter Malosti, Giovanni Agosti sostiene che Pasolini sia l’ultimo intellettuale del Novecento a essere ancora conosciuto dalle nuove generazioni di oggi.

Beh, stamattina eravamo in un liceo di Bologna, di fronte a studenti con un forte bagaglio culturale. Ma quasi tutti hanno risposto, sinceramente, di non aver mai letto Pasolini. Questo non mi preoccupa, perché di fronte avevo persone estremamente intelligenti e capaci di stare nel presente. Il problema forse non è Pasolini, ma chi continua a parlare di Pasolini. Io credo che farlo possa essere un atto forte, ma solo se si lascia spazio alle domande più che andare in cerca delle risposte; dunque se, ancora una volta, non si cerca di pacificare Pasolini e di inscriverlo in una visione agiografica.
Nel suo cinema io trovo che i tratti più efficaci siano proprio i corpi, che sono forse un precipitato di tutta quella lunga scuola di storia dell’arte fatta a Bologna con Roberto Longhi. E allora, fin dall’inizio, ho voluto condividere il progetto su Pilade con Giorgio Zacco, che ha avuto una formazione teatrale ma che si dedica come volontario al salvataggio in mare nel Mediterraneo. Era molto importante che in un testo così verboso e statico ci fossero dei corpi che raccontassero di per sé qualcosa, perché ci sono diversi passaggi del testo che chiamano a questa misteriosa fascinazione per “corpi altri”: abbiamo coinvolto le persone rifugiate con cui lavora il gruppo Cantieri Meticci di Bologna, ma anche portato sulla scena un’attrice attivista transessuale (Nicole De Leo) per raffigurare le Furie tramutate in Eumenidi e poi ri-trasformate da Atena, lavorando con un attore transgender come Nico Guerzoni sull’ambiguo fascino esercitato da un giovane fascista.

Foto Guido Mencari

In Pilade ci sono diversi livelli di lettura del mito: il fato, la maledizione, la razionalità che demolisce l’inconoscibile, la bestemmia verso ogni divinità che promuova la ragione come soluzione. Concludo allora chiedendoti come il modo in cui Pasolini rilegge il mito si inserisca in una ricerca che per te ha attraversato già molte tappe.

Questo è uno dei motivi per cui, tra le sei tragedie, io ho scelto Pilade. Il grande interesse che ho per il mito ha ragioni forse simili a quelle di Pasolini stesso, che pure quando tende a inserire dei filtri razionali, subisce il fascino del mito perché esso custodisce il mistero della realtà, l’impossibilità di spiegare tutto. E queste sono qualità proprie di tutto il teatro, almeno per me. In Pilade il mito è quello che Pasolini rilegge attraverso il filtro di Carl Jung, è ricco di simboli, ancora una volta, non pacificati. Kae Tempest in Tiresias, per esempio, esprime una forte assonanza: anche lì il mito è usato per parlare della propria biografia. E questo rende il mito – questo mito – davvero contemporaneo, la possibilità di usarlo per comunicare qualcosa di intimo. Più libero, in Pilade Pasolini abbandona definitivamente i “maestri del sospetto”, cioè Freud e Marx, si allontana dalla lettura del mito data, nel 1960, dalla traduzione di Orestea, stupenda ma “incastrata” in una visione marxista. Ora passa a concentrarsi direttamente su Gramsci, sull’analisi di Ernesto De Martino, su questo mondo magico che si porta dentro l’esperienza di viaggio in Africa e una nuova visione politeista e pagana del mistero della vita, in cui una figura come Atena – nata dalla testa e che nella testa rimane, dominandola – è completamente negativa perché opposta alla dimensione del ventre. E questo, per concludere, dimostra che esistono alcuni aspetti del mondo reale e dell’essere che non puoi davvero mai pacificare.

Sergio Lo Gatto

PILADE
di Pier Paolo Pasolini
uno spettacolo di Bluemotion
regia, scene, video Giorgina Pi
con (in o. a.) Anter Abdow Mohamud, Sylvia De Fanti, Nicole De Leo, Nico Guerzoni, Valentino Mannias, Cristina Parku, Aurora Peres, Laura Pizzirani, Gabriele Portoghese
e con Yakub Doud Kamis, Laura Emguro Youpa Ghyslaine, Hamed Fofana, Géraldine Florette Makeu Youpa, Abram Tesfai
dramaturg Massimo Fusillo
ambiente sonoro Collettivo Angelo Mai
musica e cura del suono Cristiano De Fabritiis – Valerio Vigliar
disegno luci Andrea Gallo
costumi Sandra Cardini
assistente alla regia Giorgio Zacco
direttore tecnico Massimo Gianaroli
direttrice di scena Paola Castrignanò
capo macchinista Mauro Fronzi
capo elettricista Andrea Gallo
fonico Cristiano De Fabritiis
sarta Elena Dal Pozzo
scenografa decoratrice Benedetta Monetti
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova
in collaborazione con Angelo Mai e Bluemotion

nell’ambito del progetto “Come devi immaginarmi” dedicato a Pier Paolo Pasolini

foto di scena Guido Mencari
ritratti Anna Faragona
immagine Mattia Zoppellaro/Contrasto

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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