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INK (di Dimitris Papaioannu)

Questa recensione fa parte di Cordelia, febbraio 2023

Al termine, lunghi, immobili, prolungati e sentiti inchini. (Sarà che con tutta quell’acqua attorno c’è pure il rischio di rompersi il collo. Meglio quindi stare fermi.) Eppure. Gli applausi sono un momento di realtà. (I Trocks ci durano a volte più della stessa performance!) L’inchino è convenzionale, terminale, sempre un po’ troppo impegnativo se mostrato come dovuto, se dissimulato, in fondo sopravvalutato. Questi invece di Dimitris Papaioannu e Šuka Horn, al termine di Ink visto in Triennale, proprio no. Sembrano concentrati, intensificati di energia, nella stasi ancóra tutti pieni d’azione. Tale è infatti la memoria di questo straordinario lavoro (rifatto quest’anno più compatto e denso, e funziona) pieno d’acqua e di ombre, e di buio, senza quasi transizioni. La scena è composta da un irrigatore che bagna e ribagna la scena, da uno sfortunato giradischi e un vinile, ed è circondata da pareti di nylon opaco: una serra verticale, una caverna illuminata, un pozzo pieno d’aria. Le immagini ossessivamente create collegano riflessioni estremamente «universali», tutte ben documentate nel largo programma a stampa. Immagini con le quali Papaioannu interroga la vita in un’evocazione scenicamente perfetta, tra cui: lotta con l’angelo, conflitto padre e figlio, assillante nudità sempre un po’ patinata, un vago erotismo fetish e culto leather alla Tom Finland, la maternità aliena, l’inchiostro che schizza dai polpi battuti per ammorbidire il mondo. L’immaginario convocato è sì mitologico ma anche un po’ da Grande Magazzino; Alberto Savinio scriveva: «In Grecia, si sa, come da Upim, si trova tutto». E il rischio è quello di una perfezione garantita, una solarità che non brucia, un idealismo impolitico un po’ farmaceutico, un nobile, prolungato inchino alla nostalgia tornasole. Papaioannu, però, è un Balzac della danza, perché al centro del suo lavoro c’è sempre la condizione umana: è in possesso di tutto un nuovo modo di progettare la creazione, e ciò dovrebbe bastare a fornire la prospettiva ironica da cui traguardare a un riscatto nel presente, di un’amorosa pietà del passato. (Stefano Tomassini)

Visto a Triennale Milano produttore creativo ed esecutivo, assistente alla regia Tina Papanikolaouregista associato Haris Fragoulis training degli interpreti Šuka Horn foto, video Julian Mommert musica registrata da Teodor Currentzis, orchestra MusicAeterna nome dell’opera dato da Aggelos Mendis polpi creati da Nectarios Dionysatos designer visivo associato Evangelos Xenodochidis maestro degli oggetti di scena, direttore di scena Tzela Christopoulou produzione esecutiva 2WORKS (in collaborazione con POLYPLANITY PRODUCTIONS) produzione esecutiva associata Vicky Stratakiassistente alla produzione esecutiva Kali Kavvatha

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Stefano Tomassini
Stefano Tomassini
Insegna studi di danza e coreografici presso l’Università Iuav di Venezia. Nel 2008-2009 è stato Fulbright-Schuman Research Scholar (NYC); nel 2010 Scholar-in-Residence presso l’Archivio del Jacob’s Pillow Dance Festival (Lee, Mass.) e nel 2011, Associate Research Scholar presso l’Italian Academy for Advanced Studies in America, Columbia University (NYC). Dal 2021 è membro onorario dell’Associazione Danzare Cecchetti ANCEC Italia. Nel 2018 ha pubblicato la monografia Tempo fermo. Danza e performance alla prova dell’impossibile (Scalpendi) e, più di recente, con lo stesso editore, Tempo perso. Danza e coreografia dello stare fermi.

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