Abbiamo dialogato con la coreografa Giovanna Velardi, fondatrice della compagnia che porta il suo nome e promotrice di Pindoc, attorno a come la danza debba e possa essere il mezzo di un discorso politico attivo. Un’intervista.
Quando Giovanna Velardi ti parla, guarda dritto negli occhi; il suo tono è tanto volitivo quanto vivace. Qualche volta ci siamo trovate a parlare del problematico rapporto tra formazione e professione, dello stato dell’arte in uno stato che vuole fare a meno dell’arte. Ha un approccio energico, pragmatico. Politica, scuola, lavoro culturale: sono tutte questioni alle quali Velardi ha cercato, e cerca di offrire, giorno per giorno, una risposta concreta. Nel corso degli anni Duemila ha coperto differenti ruoli istituzionali. Tra le altre cariche, è stata commissaria consultiva tecnica del Mibac per la danza, membro del CID (Concilio Internazionale di Danza) dell’UNESCO, presidente del CORE (Coordinamento Regionale Lazio della Danza Contemporanea e Arti Performative). Tutto questo perché «solo nel politico è possibile un intervento reale». Allo stesso tempo è formatrice, attività che ha svolto presso la Université Grand Sud in Francia e alla Friche di Marsiglia. Per limitarci alle ultime esperienze, ha insegnato presso la scuola del Teatro Biondo diretta da Emma Dante, al Dams di Palermo e al liceo coreutico Regina Margherita della stessa città. Nei suoi discorsi finisce sempre per parlare delle “sue” ragazze: «il punto è trovare un modo per renderle più consapevoli. Devono capire che quello che fanno è importante».
Adesso sembra quasi rifiutare l’idea dell’intervista. Cerca sempre un confronto orizzontale anche se, per forza di cose, ora è chiamata a parlare di sé: ma «alla fine si può sempre fare un discorso più ampio», suggerisce. Così partiamo dall’inizio. Coreografa e danzatrice, Velardi è diplomata presso l’Accademia Nazionale di Danza a Roma. Dagli anni Novanta lavora tra Italia e Francia, dove entra in contatto con la Nouvelle Danse. Sono anche gli anni in cui intanto, in Belgio, Anne Teresa De Keersmaeker trascorreva la sua residenza a La Monnaie.
Cosa ha significato per te la possibilità di vivere, in quegli anni, un’esperienza di respiro europeo?
Ho lasciato l’Italia in un momento in cui la Francia offriva un vero welfare, basato sul sostegno, sul ricambio generazionale, sulla volontà di investire nel talento. Una struttura di questo tipo permette la creazione di sinergie impreviste, ed è fondamentale. Il nostro lavoro è impensabile senza l’incontro, senza la possibilità di conoscersi. Con Geneviève Sorin ho approfondito quanto riguarda l’anatomia del corpo, la sua percezione articolare, l’importanza della ripetizione per risalire all’essenza del movimento. Abbiamo lavorato sull’improvvisazione, sull’ascolto, sulla pulizia qualitativa. Trovare l’essenza non è una questione puramente estetica. È a partire da questa ricerca che è possibile costruire una scrittura personale, immediata ed estemporanea. Credo sia questo il compito del maestro: guidare all’espressione. Ma ciò è davvero possibile solo se si ha una visione politica delle cose. Oggi più che mai è necessario trovare le modalità giuste per cambiare dialettica, rendere produttive le energie giovani. Bisogna trovare modelli più sani, fondati su una formazione responsabile, su una produzione “sincera”, che tenga conto dei tempi necessari e non sia iperproduzione. E su una distribuzione pensata per la crescita culturale del territorio.
Insomma, si tratta di intendere l’arte come alternativa politica a una struttura economica basata sul profitto…
Il gesto è sempre un atto politico, compiere un gesto è come prendere una decisione. Per questo è fondamentale che la danza abiti il contesto urbano. L’artista deve assorbire gli stimoli che lo circondano, deve essere un outil de communication. Dobbiamo chiederci: che ruolo ha l’artista? Per me l’artista è l’elemento sensibile della società: il suo esprimersi deve fornire un punto di vista libero. Guardiamo al presente, al disastro della globalizzazione, all’individualismo basato sul traguardo e non sul processo, alle condizioni salariali dei lavoratori. Soltanto l’arte può riavviare un discorso sull’uomo, perché insegna anzitutto a vivere in comunità. L’atto creativo è possibile soltanto nella relazione con l’altro e non può essere diversamente. Pindoc [Organismo di produzione, promozione e diffusione della danza contemporanea, tra le cui promotrici è anche Velardi, ndr] è nata così, dal lavoro con Danila Blasi, Dora Argento e gli altri. Abbiamo lavorato insieme, volevamo che insieme si potesse creare qualcosa di buono.
Hai parlato di libertà dell’artista. Ciò è interessante, perché nella tua drammaturgia molto è legato all’indagine sulla gestualità della marionetta. In fondo, la marionetta esprime in modo esemplare il problema del rapporto tra controllo e libertà.
Il punto è questo: per il danzatore, agire come una marionetta è una dichiarazione di autonomia politica perché nel “come se” del burattino può sperimentare il funzionamento attivo del proprio corpo. Non c’è un burattinaio esterno. Il performer è al contempo burattino e burattinaio, contenuto e contenitore: lo studio della marionetta consente di lavorare sulla composizione e sul proprio corpo. Questo poi avviene in una dimensione ludica. Attraverso il gioco, anche attraverso le goffaggini si può scendere fino al livello dell’infanzia, dove il controllo sociale comincia a esercitare il proprio dominio. Anche il clown [figura ricorrente nelle coreografie di Velardi, ndr] rappresenta una condizione di libertà infantile perduta, e la danza può farla riemergere. È quello che cerco di fare con la pratica del cuore articolare. L’articolazione unisce le ossa alle altre parti del corpo, le tiene assieme; con “cuore articolare” intendo un dispositivo simbolico, collocato nella cavità addominale, che mette la persona in relazione all’ambiente e restituisce la parola a quella parte del sé repressa dalla società. Attraverso il suo esercizio, il danzatore può regolare la propria emotività, può imparare a risolvere e gestire il trauma innescato dal controllo imposto dall’esterno. La liberazione del corpo è necessaria alla soluzione del conflitto, dei conflitti – perché le sensazioni dobbiamo viverle e riconoscerle, prima di imparare a gestirle. Vedo ogni giorno come l’essere umano sia sempre meno educato al gesto, a compiere un atto con reale intenzione. E invece tutto ha un’importanza, e delle conseguenze: pure stare seduti, pure decidere di rimanere fermi e non fare nulla ha un significato.
Dici che l’articolarità, così intesa, possa restituire parola all’istinto negato. Proprio la parola, in particolar modo quella dialettale, è parte integrante della tua poetica, e mi pare che contribuisca a mettere in evidenza il contrasto, la rottura. A partire da quello tra i sessi…
Esatto. Già l’esercizio di training prevede uno sviluppo testuale. Per me la danza esiste anche nella relazione col testo, all’interno di un discorso drammaturgico e meta-teatrale. Per esempio I broke the ice and saw the eclipse nasce dalla collaborazione con Federico Brugnone, attore di formazione. L’uso della parola nella performance amplifica la mia condizione fisica, la esprime, e allo stesso tempo mi permette di dialogare con l’altro. È qui che nasce la difficoltà tra i sessi, ed è strano, perché in fondo siamo tutti il risultato dell’incontro tra un ovulo e uno spermatozoo. Nelle mie coreografie il femminile è una condizione fuori dalle righe, e tende a schiacciare l’uomo. Incarna una potenza archetipica, legata alla forza riproduttiva e all’abbondanza, come in Core/Demetra 2.0, un progetto multimediale al quale ha lavorato anche Dominik Barbier [col quale Velardi aveva già lavorato ad Hamletmachine all’indomani della morte di Heiner Müller, ndr]. Qui ricorro a simboli che rimandano a un ideale sociale matriarcale. Demetra è presente sulla scena come una statua parlante, una figura oracolare. Possiede il controllo di una circolarità che può cogliere e cambiare il corso delle cose. Ma Core è anche il racconto della caduta nell’Ade dopo l’abbandono della casa, di quell’aggressività violenta e incontrollata che riduce l’essere umano a carne da macello. Anche, soprattutto nella rappresentazione della violenza è la verità. Io ho scelto di portare sulla scena sia la bellezza che la bruttezza.
Che poi, la catarsi è liberazione dai piaceri e dalle paure del corpo…
Per questo è fondamentale essere educati all’arte: perché ci consente di immedesimarci, di conoscere e comprendere la storia degli altri, nonostante tutto. Penso che il conflitto sociale nasca proprio qui, dalla difficoltà dello stare insieme. Non riusciamo più ad abbandonarci veramente, non siamo più disposti a lasciar andare qualcosa di noi. Piuttosto, ci rifugiamo in un principio di piacere fine a se stesso. Siamo stati abituati a bistrattare il valore intimo dello stare insieme, perché è rivoluzionario. Invece dobbiamo imparare a vedere il positivo, a captare una speranza da quanto ci circonda. L’arte serve anche a questo.
L’artista ha il potere di dissolvere una sfiducia che, alla fine, non è neppure reale.
Tiziana Bonsignore