In questi ultimi giorni l’associazione Amleta ha riacceso il dibattito sul MeToo in Italia sul la Repubblica e sui social. Tra le attrici coinvolte: Pamela Villoresi, Margherita Laterza, Fioretta Mari. Il 16 gennaio si è tenuta una conferenza stampa a Roma.
«Basta, in Italia il MeToo non è mai iniziato»: così un articolo di Eugenia Nicolosi, pubblicato su la Repubblica il 7 gennaio, ha salutato il nuovo anno all’indomani delle festività. Il titolo allude ai fatti del 2017, quando attrici di fama internazionale avevano accusato il produttore Harvey Weinstein per reati di natura sessuale. Da allora è stato un susseguirsi di testimonianze e nomi, come quello di Jan Fabre in Europa. Il relativo movimento di opinione, raccoltosi intorno all’hashtag #MeToo, ha conosciuto rapida diffusione planetaria. In Italia è stata nello specifico Amleta, collettivo nato nel corso del primo lockdown e poi istituitosi come associazione di promozione sociale, a far luce sulle condizioni professionali delle donne nello spettacolo. Il lancio dell’hashtag #apriamolestanzedibarbablù ha scoperchiato un sistema di odiose consuetudini noto a tutti e tutte, ma sul quale si è steso, per paura (da parte delle donne), o per complicità (soprattutto da parte degli uomini), un velo di ostinato silenzio. Nella conferenza Un MeToo italiano? tenutasi a Roma ieri, 16 gennaio, la presidente di Amleta Cinzia Spanò ha analizzato i numeri della questione, sulla base delle segnalazioni ricevute. Su 223 casi, la stragrande maggioranza di abusi è stata compiuta da uomini, per lo più registi, seguiti da attori, produttori e altre figure. Nel 93% le vittime sono state donne. Altre donne sono state aguzzine, in posizione “ancillare”, solo in un paio di vicende.
In questi giorni la Repubblica ha rilanciato la questione, subito prima dell’uscita nelle sale italiane di Anche io – She Said, film di Maria Schrader sul caso citato, e dell’arrivo di Kevin Spacey, indagato per molestie, come ospite di un festival a Torino. Tuttavia, precisa Spanò, molte attrici già da tempo avevano alzato, inascoltate, la propria voce. Le esperienze sono troppe e troppo simili. Professioniste trascinate, con la forza o l’inganno, in luoghi appartati per improbabili provini sfociati in violenza; l’incapacità o l’impossibilità di opporsi, la rimozione dal cast successiva al rifiuto delle avances; la generale indifferenza. Teatro e cinema si rivelano ambienti non sicuri nei quali la presenza femminile, oltre a essere oggetto di abuso, è anche sottodimensionata. Già un report di Amleta aveva fatto chiarezza sulle cifre della questione, registrando una significativa minoranza di professioniste (come scrivevamo). Svariate le conseguenze: tra queste, una minore quantità di testi efficaci nello scardinare le consolidate narrazioni del femminile. Perché il problema è anche qui, nel concetto di rappresentazione e nel suo rapporto con il corpo attoriale.
L’essere uomo possiede il privilegio di non doversi narrare. Per il sociologo Pierre Bourdieu «la forza dell’ordine maschile si misura dal fatto che non deve giustificarsi […] e non ha bisogno di enunciarsi in discorsi miranti a legittimarla». Essa si impone come dato di fatto, circostanza naturale. L’essere donna, concepito dall’egemonia patriarcale quale alterità rispetto alla propria norma, è chiamato invece a una costante auto-rappresentazione che ne possa validare l’identità. Se mancano regie e drammaturgie dirette e scritte da donne, allora si verifica il riproporsi di narrazioni nelle quali il femminile può essere proiezione di uno sguardo estraneo, potenzialmente maschiocentrico. Questi drammi si inscrivono poi nel corpo delle interpreti e così, piuttosto che educare l’uomo al rispetto dell’altrui spazio fisico, il mondo dello spettacolo diviene un ribalta dove emergono, più evidenti, i rapporti di potere propri della società “reale”.
Per comprendere la dinamica si può scomodare Judith Butler: negli anni ’80 la filosofa ha dimostrato come il genere (gender) sia sempre l’esito di social acts, ovvero movimenti, gesti, vere e proprie interpretazioni agite fisicamente, la cui secolare iterazione plasma l’identità sociale dell’individuo. Al pari di un’attrice o un attore, il soggetto comune impersona un ruolo regolato da convenzioni – maschiliste – arbitrarie, introiettate come fatto naturale a causa del loro storico riprodursi. Tuttavia, da quanto emerge dalle interviste, sul fisico della performer tali consuetudini gravano due volte. L’attrice, che per lavorare usa il proprio corpo offrendolo all’incarnazione del personaggio, diviene per produttori, registi, colleghi e talvolta colleghe, una persona che deve usare il proprio corpo, e deve farlo in modo servile, sottomesso, per ottenere la parte. Le donne coinvolte vivono un orrore agito dalla collettività come un fatto quotidiano, irrilevante, naturale appunto, e sono – da sempre – tenute ad accettare un ruolo affine a quello della prostituta quale modo di essere e imprescindibile condizione di lavoro. Intanto la vita del cast diviene anch’essa un’enorme messinscena, in cui tutti vedono, sanno, ma vestono i panni di chi non è a conoscenza. E l’abuso si traveste da piccola bravata.
Come osservano Spanò (in interviste come questa) e le altre attiviste, il mestiere dell’attrice prevede, più di altre professioni, l’esposizione della propria persona al contatto fisico (durante la performance) e all’approvazione (durante i provini) dell’altro. È soprattutto in questi momenti che si consuma l’abuso, anche se non mancano episodi avvenuti nel corso della formazione, come Spanò ha dichiarato nel corso di Un MeToo italiano?. Che fare? Data la sua sistematicità, il maschilismo non è un problema risolvibile nel giro di due ore, soprattutto in un paese incline alla vittimizzazione secondaria per tradizione cattolica, per immarcescibili nostalgie fasciste. Certo sono stati compiuti importanti passi, come l’Osservatorio per la parità di genere, organo consultivo del Mic, presieduto da Celeste Costantino e istituito su iniziativa dell’ex-ministro Dario Franceschini. Fin dall’insediamento, avvenuto lo scorso 24 novembre, si è sottolineata l’importanza di un intervento specifico nell’ambito dello spettacolo; a questo proposito sono state consultate differenti realtà quali Amleta, Dire Fare Cambiare, Unita, Woman in Film Television Media Italia e Alice nella città. Ma purtroppo, come si legge negli articoli de la Repubblica citati in apertura, la legge ha le «armi spuntate».
Tra le soluzioni discusse in questi giorni è l’adozione di un intimacy coordinator, presente sul set al fine di prevenire situazioni di disagio (in particolare durante le scene di nudo o di sesso). Tuttavia, osserviamo come buona parte dei casi denunciati sia avvenuta fuori dalla scena, anche in contesti privati. Il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano propone di ritirare i finanziamenti pubblici ad aziende e produzioni coinvolte in casi di violenza di genere. Ma il problema è a monte, nelle scoraggianti difficoltà che le donne italiane – tutte, non solo le attrici – incontrano al momento di denunciare la violenza subita. A ciò si aggiunge il fatto che in Italia è disciplinata solo la materia relativa alle violenze sessuali, ma non alle molestie (espressioni volgari a sfondo sessuale o atti di corteggiamento invasivo e insistito, art. 660 c.p.). Lo spettro di reati introdotti dal Codice Rosso nel 2019, piuttosto limitato, non garantisce sufficiente tutela e, a questo proposito, negli ultimi giorni la senatrice Valeria Valente (Pd) ha presentato un disegno di legge. Infine l’adozione del Codice di condotta, sottoscritta da Federvivo e dai Sindacati di base nel 2019 allo scopo di tutelare uomini e donne da mobbing, molestie e discriminazioni sul posto di lavoro, per Spanò è ancora «lettera morta», a differenza di quanto accade nel resto d’Europa.
Una chiusa ottimistica potrebbe sembrare forzata, ma il coraggio manifestato dalle artiste coinvolte lascia intravedere molto più di un semplice barlume di speranza. Il proliferare di denunce e testimonianze, allo stato attuale unico strumento utile, oggi ha permesso di sollevare una questione davvero atavica, finora percepita come insindacabile. I volti delle donne che, chiavi strette al pugno, aprono ogni giorno una nuova stanza sui social di Amleta, incoraggiano a condividere un’esperienza spesso celata come una punizione meritata, anche e soprattutto per colpa dell’ambiente circostante. Ma non è così: l’abuso degrada abusante e complici, non la vittima.
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Tiziana Bonsignore
Coferenza stampa 16 gennaio 2023. Il video della diretta Facebook