Nel centenario della nascita di Italo Calvino, il Piccolo Teatro di Milano produce Il barone rampante, adattamento e regia di Riccardo Frati. Uno sguardo allo spettacolo e una riflessione.
Per l’arte e la cultura le ricorrenze sono insidiose, autoritarie, tendono a plasmare contenuti e forme, a direzionare finanziamenti, a tramutare in “commissione” ogni pur mirabile sforzo creativo originale, in questo presente così innamorato del passato.
La domanda iniziale è se sia più esistita, nella nostra letteratura e oltre, una figura come quella di Italo Calvino – che oggi avrebbe compiuto cent’anni – altrettanto in grado di spaziare tra i generi e insieme sovvertirli, sollecitare ragionamenti e concretizzare dubbi, armonizzare trame, personaggi e contesti facendone scrigni contenitori di riflessioni di oceanica profondità e però pure disarmante levità, una forma fluida e però forbita, costruzioni del pensiero affilate e però accessibili alla lettura da parte di ogni generazione.
Di certo una delle caratteristiche delle opere o degli ingegni senza tempo è quella di sfuggire a ogni possibile etichetta, per rifugiarsi in una fortezza di eccellenza, rispetto dell’antico, curiosità per il nuovo, rifiuto dei codici. Importante allora è dare ancora spazio a un tale caleidoscopio di intuizioni come la trilogia I nostri antenati (Il visconte dimezzato, Il barone rampante, Il cavaliere inesistente), scritta e pubblicata in soli otto anni, dal 1952 al 1959.
Ciascuno dei tre romanzi, letto in giovane età o riletto poi, genera meraviglia perché pone e di continuo sposta le premesse d’analisi di diverse circostanze dell’umano, opera slittamenti di prospettiva che disorientano per poi ricongiungere ogni aspetto di significato in una relazione organica, che schiude folgoranti epifanie di senso.
Nel nostro paese Calvino è tra le prime grafie che si incontrino a scuola, tra le ultime frequentate dalle menti anziane. Forse perché indirizza un garbato ma energico invito al riconoscimento tramite l’immaginazione e, così facendo, fornisce a chiunque una chiave d’accesso alla storia, alle storie, alla Storia. Ma, se a riconoscimento e immaginazione accostiamo rappresentazione e astrazione, il teatro – che amministra una libertà di linguaggio forse inarrivabile per le altre arti – può esattamente lo stesso; e oltre.
Gennaio ha portato in dono un gioiello di sorprendente fattura, un adattamento de Il barone rampante firmato e diretto da Riccardo Frati, prodotto dal Piccolo Teatro di Milano e fino al 5 febbraio in un Teatro Grassi andato esaurito in brevissimo tempo. Raffinata è la capacità di dialogare con la complessità dell’opera d’origine costruendo, strato dopo strato, una drammaturgia di azioni, visioni e suoni cui non sfugge quasi nulla del labirintico progetto narrativo.
Siamo nella Liguria al tramonto del «secolo decimo-ottavo». L’ormai anziano
Biagio (Giovanni Battaglia) ricorda e narra la sorte del fratello maggiore, il capriccioso baronetto dodicenne Cosimo (Francesco Santagada) che, ribellandosi all’odiato piatto di lumache, abbandona il nobiliare desco di famiglia e s’arrampica su un albero dal quale dichiara che mai più scenderà. E mantiene la promessa.
Nel progetto di Frati spicca una grande maturità scenica, portata in spalla da sette interpreti in ottima sintonia.
A parte i due citati e Diana Manea (straziante nella militaresca madre), il resto del cast sale su una giostra di personaggi: con agilità Mauro Avogadro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri e Marina Occhionero entrano ed escono dai (sempre) sorprendenti costumi di Gianluca Sbicca materializzando le figure cardine di un viaggio che ritrae, allacciandole e confondendole tra loro, infanzia e senilità. Nel mezzo c’è spazio per discutere di tutto e per tutto mostrare. Le millimetriche scene di Guia Buzzi disegnano un bosco fatto di mobili passerelle pensili che è il regno e insieme il confino di Cosimo; le luci magiche e chiaroscurali di Luigi Biondi colorano scene d’amore, duelli di cappa e spada, irresistibili sketch da cinema d’altri tempi, inserti meditativi, slanci poetici.
Attraverso questa cangiante macchina dei sogni Calvino può manifestarsi al proprio meglio: giocando anche in terza persona con la forma narrativa, la drammaturgia cuce insieme affondo storico, riflessione ambientalista, allegoria morale e monito messianico sull’utopia della rivoluzione, dà spazio all’uccisione dei padri, all’avventura picaresca, all’apologo illuminista, alle follie d’amore, al ex voto della lettura come salvezza dell’anima (in questo è esemplare la rapida e folgorante parabola del brigante Gian dei Brughi).
Se, lanciando un sagace sberleffo a Voltaire, Cosimo è quasi un Candide più consapevole, al suo interprete si chiederebbe una prodezza in più per toccare con maggior cura i tasti della leggerezza, laddove invece sceglie il solo ricorso a una voce bambinesca, che indebolisce la complessità.
Ma questa è davvero l’unica nota a margine di un lavoro che riesce a parlare con (e non a) ogni fascia d’età e che infatti si libera dall’obbligo di dichiarare un target. Uno spettacolo per tutte e tutti che farebbe bene anche al teatro per le nuove generazioni, minacciato da un circuito asfittico e con pochi mezzi a disposizione. Se qui i mezzi produttivi non mancano, resta sempre da scavalcare l’ostacolo più impervio al giorno d’oggi, la distribuzione. Perché lavori pensati e realizzati con cura, come questo, non debbano inerpicarsi e saltare da un piccolo ramo all’altro per essere visti e abbiano invece modo di correre di territorio in territorio per ricordarci che cosa può il teatro.
Sergio Lo Gatto
Piccolo Teatro Grassi, Milano – gennaio 2023
Il barone rampante
di Italo Calvino
adattamento e regia Riccardo Frati
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
disegno luci Luigi Biondi
composizione musicale e sound design Davide Fasulo
animazioni Davide Abbate
con (in ordine alfabetico) Mauro Avogadro, Giovanni Battaglia, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Diana Manea, Marina Occhionero, Francesco Santagada
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa