Questa recensione fa parte di Cordelia, gennaio 2023
Tra densità materica e vibrazione emotiva si muove il lavoro coreografico di Trajal Harrell, Dancer of the Year, elaborato a partire dal riconoscimento ottenuto nel 2018 dal Taz Magazine. Pensata come capitolo conclusivo della stagione teatrale della Triennale di Milano, la ricerca dell’artista americano attua un importante momento di riflessione sui codici della storia della danza contemporanea. La particolarità di questo momento è evocata anche dal luogo pensato per la fruizione: a raccogliere il pubblico non è più la tradizionale platea del teatro della Triennale ma il retro del palco, in un ribaltamento non solo della prospettiva narrante ma anche di quella spettatoriale. Al di là del palco, al di là delle quinte di scena, vi è infatti uno spazio circoscritto, intimo, embrionale. Al centro, un tappeto rosso. Harrell entra, vi cammina sopra a passi sospesi e si posiziona seduto su uno sgabello di fondo, indossa una maschera e sceglie al computer la traccia musicale che andrà a performare. L’avvio del ritmo sonoro scandisce la naturalezza dei gesti e richiama alla mente l’esplosione mite di un ricordo; la sintassi coreografica procede poi attraverso un flusso dinamico innescato dalle mani e dalle braccia, scivolando come fibrillazione organica in tutto il corpo. La performance, di cui Sara Jansen firma la drammaturgia, procede per costruzione di immagini, sede dell’incontro tra storia personale e trasmissione culturale, stratificando e interiorizzando una polisemia di stili, dal voguing al boto. Colpisce per immediatezza e fragilità il fluttuare di questo artista; durante le sei sequenze, a cui corrispondono diversi costumi e vestizioni, Harrell si commuove, trasfigura il linguaggio della carne in un sentimento, dilata l’eredità storica attraverso una scia identitaria, riuscendo con delicatezza ad offrire un’immagine sensibilissima della propria carriera. (Andrea Gardenghi)