| Cordelia | gennaio 2023
RECENSIONI Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.
Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo.
#PALERMO
TANGO DELLE CAPINERE
È una festa di capodanno quella che accoglie il pubblico del Teatro Biondo al termine delle vacanze natalizie. Una coppia di anziani, tra tremolii, colpi di tosse e pillole si agita, sul palco, ricercando momenti di un’intimità ancora non sopita. Così Emma Dante decide di portare sulla scena Il tango delle capinere, momento isolato dal Ballarini della sua Trilogia degli occhiali. Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri offrono il proprio corpo e la propria voce a una storia semplice, ripercorsa a ritroso grazie ai souvenir recuperati da un baule. Tra questi, un carillon e un paio di scarpe rosse da ballo che, come la madelaine proustiana, riportano i protagonisti a un tempo ormai esaurito. Il loro viaggio è un fatto puramente gestuale, corporeo, nel quale la parola si riduce a verso e la scena ad atmosfera brillante ma malinconica. Il catalogo di tormentoni, provenienti dai juke box di ogni decade passata, è la colonna sonora di una storia in fondo quotidiana, che non punta ad alcuna esemplarità per illuminarsi nelle piccole, divertenti soluzioni messe in atto dagli interpreti. Nel finale, che corrisponde al momento in cui i due si conoscono per la prima volta, interviene il dialogo a raccontare qualcosa di sé; ma per il resto, la performance è una vibrazione consumatasi nella fisicità e nelle espressioni di Civilleri e Lo Sicco. In questo Tango si alternano momenti di tenerezza passionale, poco più che accennata, e quell’aggressività rabbiosa e spezzata, cifra della regista. Ma, in fondo, sembra che qui Dante abbia voluto anzitutto, in contrasto, deporre il conflitto, per offrire una vicenda semplice e godibile. Come mai tornare proprio su Ballarini? «Intanto guarda lo spettacolo, me lo dirai tu stessa». La risposta non l’abbiamo trovata. Comunque sì, la ripresa a distanza di questa festa a celebrare una fine, all’inizio dell’anno, può aver avuto un proprio senso. La nostalgia è quello che resta. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Biondo, Palermo. Crediti: di Emma Dante; regia Emma Dante, interpreti: Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco, luci: Cristian Zucaro; produzione Sud Costa Occidentale in coproduzione con Emilia Romagna Teatro ERT - Teatro Nazionale / Teatro di Roma -Teatro Nazionale / Teatro Biondo Palermo / Carnezzeria / Théâtre des 13 vents, Centre Dramatique National Montpellier / MA Scène Nationale - Pays de Montbéliard. Foto Carmine Maringola
EPPIDEIS
Gioni abita in un mondo di plastica e cartone dal quale vorrebbe bandire ogni stortura. Così inventa un sogno ambientato a Milwaukee dove, come nella serie televisiva Happy Days, tutti sono belli e felici. Ma lei non è né bella, né felice. Nell’universo di feticci e consumi colorati che la circonda e di cui si circonda, le vere conseguenze del boom sono state smascherate. Gioni è un residuo, è ciò che rimane ai margini della corsa sociale, lungo la quale cerca di trascinare, allegra e infelice, il suo personale grumo di sofferenza e cicatrici. Sulla scena di Mela dell’Erba, un set da sit-com anni ‘50, la ragazza è condannata a vivere la vita che vorrebbe e non ha, una grande finzione individuale e collettiva nella quale tira dentro, a forza, il pubblico che sorride un po’ divertito, un po’ imbarazzato, un po’ colpevole. Il telefilm dove Gioni saltella a tempo di boogie (il suono è di Gianluca Misiti), è una disturbante, tragicomica messinscena alla quale tutti devono partecipare loro malgrado, ed è qui che in un certo senso si consuma la vendetta della protagonista, autorizzata a infierire su quanti ritenevano di poterla osservare indisturbati. Alla fine di tutto, Gioni è l’unico elemento davvero reale della farsa, anche se porta la parrucca, i baffi e un abitino che, aderendo alla fisicità muscolare di Silvio Laviano, appare grottesco e inverosimile. Sotto la frizzante patina da spot commerciale, si agita la storia di un lutto, di un suicidio, di un padre troppo debole, di un mondo interiore nel quale la parola diviene una cosa brutta e rotta, da buttare. Laviano attraversa le fasi del suo personaggio con lo slancio sicuro di un atleta imponendosi, quasi temibile, su un pubblico bistrattato di potenziali “cretini”. Così, nel corso di una sorta di cammeo, Palazzolo interviene sul corso degli eventi nella propria veste di autore, direttamente sulla scena. Non abbiamo compreso, dice. E forse ha ragione. (Tiziana Bonsignore)
Visto allo Spazio Franco, Palermo. Crediti: testo e regia Rosario Palazzolo con Silvio Laviano con le voci di Cosimo Coltraro, Manuela Ventura, Viola Palazzolo e Rosario Palazzolo scene e costumi Mela Dell’Erba musiche originali e effetti sonori Gianluca Misiti luci Gaetano La Mela assistente alla regia Gabriella Caltabiano produzione Teatro Stabile di Catania. Si ringrazia l’Associazione culturale Peppino Impastato di Salemi. Foto di Antonio Parrinello.
#MILANO
DANCER OF THE YEAR
Tra densità materica e vibrazione emotiva si muove il lavoro coreografico di Trajal Harrell, Dancer of the Year, elaborato a partire dal riconoscimento ottenuto nel 2018 dal Taz Magazine. Pensata come capitolo conclusivo della stagione teatrale della Triennale di Milano, la ricerca dell’artista americano attua un importante momento di riflessione sui codici della storia della danza contemporanea. La particolarità di questo momento è evocata anche dal luogo pensato per la fruizione: a raccogliere il pubblico non è più la tradizionale platea del teatro della Triennale ma il retro del palco, in un ribaltamento non solo della prospettiva narrante ma anche di quella spettatoriale. Al di là del palco, al di là delle quinte di scena, vi è infatti uno spazio circoscritto, intimo, embrionale. Al centro, un tappeto rosso. Harrell entra, vi cammina sopra a passi sospesi e si posiziona seduto su uno sgabello di fondo, indossa una maschera e sceglie al computer la traccia musicale che andrà a performare. L’avvio del ritmo sonoro scandisce la naturalezza dei gesti e richiama alla mente l’esplosione mite di un ricordo; la sintassi coreografica procede poi attraverso un flusso dinamico innescato dalle mani e dalle braccia, scivolando come fibrillazione organica in tutto il corpo. La performance, di cui Sara Jansen firma la drammaturgia, procede per costruzione di immagini, sede dell’incontro tra storia personale e trasmissione culturale, stratificando e interiorizzando una polisemia di stili, dal voguing al boto. Colpisce per immediatezza e fragilità il fluttuare di questo artista; durante le sei sequenze, a cui corrispondono diversi costumi e vestizioni, Harrell si commuove, trasfigura il linguaggio della carne in un sentimento, dilata l’eredità storica attraverso una scia identitaria, riuscendo con delicatezza ad offrire un’immagine sensibilissima della propria carriera. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Triennale Teatro di Milano. Crediti: coreografia, interpretazione, costumi, design sonoro: Trajal Harrell, drammaturgia: Sara Jansen, produzione: CauseCélèbre, Ph Lorenza Daverio
FAMILY. A MODERN MUSICAL COMEDY
Dire qualcosa quando tutto è già stato detto è impresa alquanto ardua. Rinunciarci è una scommessa. Gipo Gurrado non si spaventa e, ancora prima di prendere una posizione, lascia che la materia pulsante del musical parli da sé, forse anche un po’ tacendo. Family. A Modern Musical Comedy ritrae una famiglia, una come tante, una come la nostra. L’ambientazione è un passato dai sapori vintage, di cui Marina Conti costruisce fedeli scenografie ma irrealistiche e sgargianti tonalità di costumi. All’iniziale scena scarna, abitata dai genuini battibecchi di una coppia di fidanzati, subentra la tappezzeria della casa dei genitori di lei. Qui il ritorno dei figli è il pretesto di un atteso ricongiungimento di affetti. La disposizione delle mura, però, crea delle nicchie di isolamento e i personaggi vi si nascondono per ricreare l’anfratto di un ricordo: il tempo si sospende, cala il buio mentre la luce si focalizza su un componente della famiglia, intenta a dargli una voce che si esprime attraverso i motivi musicali scritti da Gurrado e coreografati da Maja Delak. Le parole del testo, fresche ed essenziali nello svolgimento narrativo come in Supermarket (in scena a dicembre), sembrano però qui mantenere traccia dell’aleatorio, dell’inafferrabile. Qualcosa, in questa famiglia, ancora non viene detto (come suggerito dalla particolarità del personaggio visibile-invisibile di Paola Tintinelli); allora la regia preme il tasto rewind e torna indietro: i personaggi ripercorrono a ritroso i propri passi e tornano al punto di partenza. Una scelta sicuramente ben meditata che cerca di evitare la retorica tradizionale, le reiterate conclusioni sociali sul nucleo famigliare, ma che inevitabilmente finisce per perdere a tratti l’attenzione del pubblico che vorrebbe scavare quella materia pulsante, giungere in profondità, avvicinarsi e piangerne, raccogliere il dolore o farne un riso, folkloristico, più spontaneo. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Fontana di Milano. Crediti: Libretto, testi, musiche, regia Gipo Gurrado Coreografie e movimenti scenici Maja Delak, Con Andrea Lietti, Giovanni Longhin, Ilaria Longo, Nicola Lorusso, Roberto Marinelli, Marco Rizzo, Elena Scalet, Paola Tintinelli, Scene e costumi Marina Conti, Audio Stefano Giungato Hindie Hub. Produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale. Ph Michela Piccinini
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#ROMA
DOPPELGÄNGER
Nato dall’invito di Maurizio Lupinelli, “colui che cammina accanto a te” ovvero Doppelgänger è un progetto di unione innanzitutto, che vede l’incontro della storica compagnia di danza Abbondanza/Bertoni (Antonella Bertoni e Michele Abbondanza) con Nerval Teatro, di Maurizio Lupinelli e Elisa Pol. In scena, Francesco Mastrocinque e Filippo Porro, nudità coperte solo da due culotte dai colori tenui, inserite in un palco vuoto, illuminato dall’alto da cinque fari sagomatori: caravaggesche le campiture giallognole che danno densità plastica ai movimenti. Un sentirsi graduale, lento, avvicina i due corpi in una relazione somatica, come definita dalle note di regia, è una conoscenza espansa, che dall’intimità del singolo comprende la complessità di entrambi. Un equilibrio costruito attraverso il gesto, in azione e reazione, dolcemente, a volte istintualmente, senza ingerenza alcuna. I due dondolano in pose materne, amicali, si guardano, si urlano, si sostengono, giocano, l’uno per l’altro con la propria natura. Entrambi definiti o incerti, fragili e forti, disabili e abili. A squarciare il buio, sostenuti dalle distensioni sonore di Orlando Cainelli che definiscono, tanto nel pieno che nel vuoto, suoni, rumori e versi, i danzatori si muovono insieme nell’accoglienza di un abbraccio, nell’estasi precaria di un salto, avanzano come fossero La Pietà Rondanini, immobili in un movimento imperituro. Si dicono dietro le quinte, e lo sentiamo forte in platea, della loro stanchezza, «Come stai?», parlano delle loro famiglie e vite personali, «Ho un figlio»; estratti del processo creativo, delle lunghe prove in cui Francesco ha insegnato e donato a Filippo e viceversa. Il lavoro con la disabilità in Doppelgänger si annulla e sublima allo stesso tempo perché l’altro sono due, sono sia Francesco che Filippo, nella mutua riconoscibilità e accettazione delle mancanze di entrambi e nella compenetrazione di energie. Assistiamo a un’opera marmorea di danza e amore vivi, che incanta e commuove. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Palladium durante Orbita |Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza; di Michele Abbondanza, Antonella Bertoni, Maurizio Lupinelli; con: Francesco Mastrocinque, Filippo Porro, disegno luci e direzione tecnica: Andrea Gentili; produzione: Compagnia Abbondanza/Bertoni, Armunia/Festival Inequilibrio, Nerval Teatro con il sostegno di MiC. Foto Piero Tauro
C’È VITA SU VENERE
Presentato al Teatro Quarticciolo per un focus sulla Compagnia Abbondanza Bertoni nell’ambito della stagione di danza Orbita, C’è vita su Venere è un solo coreografico su cui svetta l’eleganza “d’argento” di Antonella Bertoni, che, assente da diverso tempo sulle tavole come interprete, così definisce la propria forma. L’idea di ritorno è da intendersi in doppia accezione: non solo per la qualità del suo gesto quanto per una sorta di vicinanza metaforica con il cuore stesso dello spettacolo, esemplificazione possibile del ciclo vitale che, dalla nascita, approda all’abbandono del campo perché viva un’altra vita. Dal primo tempo sulle note del Cigno di Camille Saint-Saëns ma con scatti improvvisi da gallina (minuziosa maschera realistica in formato gigante di Nadezhda Simenova), il corpo in tailleur e tacchi rosa si prepara languido e serafico al suo compito procreativo. Una morte in poltrona che diventa nuova vita – Michele Abbondanza nelle note di regia fa riferimento alla fenice che risorge dalle sue ceneri, sebbene questa immagine arrivi qui un po’ farraginosa – ma che, una volta piombato l’uovo gigante da covare, lascia solo frenesia nelle azioni della figura, che adesso si muove su un ritmo elettro-ethno-pop sguaiato e caciarone ((le elaborazioni sonore sono di Orlando Cainelli). In un mondo stucchevolmente rosa, questa nuova creatura mitica sembra raccontarci della costrizione al multitasking, che non è il superamento della logica patriarcale quanto l’ennesima condanna della donna ad essere “di più”, all’iper produttività in cui, oltre alla cura dell’altro, rimangono gli oggetti stereotipati del femminile, dall’ambiente della cura domestica a quella della cura estetica o dell’intrattenimento mondano. La resa è un abbandono se la vita sul pianeta Venere è questa, c’è ancora spazio per un’ultima metamorfosi: il mostro dalle quattro gambe ma con il volto finalmente svelato va via e lascia spazio alla nuova vita, forse, nella speranza che si verifichi un cambio di intenti. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo durante Orbita |Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza; di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni; con Antonella Bertoni; disegno luci Andrea Gentili; elaborazioni sonore Orlando Cainelli; tecnico di tournée Claudio Modugno; maschera e oggetti di scena Nadezhda Simenova; abito Chiara Defant; organizzazione, strategia e sviluppo Dalia Macii; foto Tobia Abbondanza.
VIA DEL POPOLO
Una sagoma di cartapesta sospesa sul fondale ricorda gli orologi liquefatti di un celebre dipinto di Dalì. “Che brutto”, penso, “sembra fatto da un bambino”. Saverio La Ruina entra in scena al Teatro Basilica passando sotto quel piccolo manufatto naive, poi incede dubbioso fra le candele che tracciano a terra un crocicchio. Il suo passo è quello leggero di sempre, indeciso, imperfetto. È il suo passo, non quello di un personaggio. La storia è una strada: Via del Popolo è l’asse principale di Castrovillari, la via interna di una Calabria interna lontana per antonomasia – lontana quasi per assunzione culturale, forse per segreto autocompiacimento, più irraggiungibile di quanto, di fatto, orografie e infrastrutture consentano. Eppure Castrovillari fu il riflesso di una civiltà metropolitana per la famiglia La Ruina, scesa in città dal Pollino negli anni ‘60. Via del Popolo, coi suoi due bar, il falegname, il dottore, il macellaio, il sarto, è la metonimia di tutto il paese, che è la metonimia della vita del protagonista, che forse è la metonimia di qualcos’altro che intuiamo appena, anche se Castrovillari la conosciamo poco. La Ruina, attraverso la potenza della sua intonazione flautata, antica, ci porta a convegno coi volti della strada, a ogni incontro abbiamo l’impressione rassicurante di affondare l’indice nelle caselle di un calendario dell’Avvento, di performare un rituale che compiendosi nel tempo mira a congelarne lo scorrere solo per fallire e, fallendo, diventare poesia. Ma l’immaginario dello spettacolo nulla concede a vernacolarismi o facili nostalgie: una volta tanto, questo sud non è il Sud, ma un luogo di piccole storie emancipate da stereotipi asfissianti. La realtà squarcia la narrazione pescando nel profondo di figurazioni ancestrali eppure radicate nel proprio esserci, come il padre ottantenne perduto e ritrovato, a distanza di un giorno, appisolato in un fosso. Tutto per capire che quel brutto orologio di cartapesta l’ha fatto un bambino. (Andrea Zangari)
Visto al Teatro Basilica, Roma. Crediti: di e con Saverio La Ruina, disegno luci Dario De Luca, collaborazione alla regia Cecilia Foti. Audio e luci: Mario Giordano, Allestimento: Giovanni Spina. Dipinto: Riccardo De Leo, Amministrazione: Tiziana Covello, Produzione: Scena Verticale, Organizzazione generale: Settimio Pisano.
AGNELLO DI DIO
Agnello di Dio è la prima drammaturgia dello scrittore Daniele Mencarelli, già premio Strega Giovani. Il motore del testo è l’attenzione verso il malessere delle nuove generazioni, mista ad una sorta di confessione di impotenza: un’autoaccusa generazionale che si serve dello sguardo giovanile, ma non riesce a dargli voce. Samuele (Alessandro Bandini) è un diciassettenne di buona famiglia schiacciato dalle aspettative del suo contesto sociale. Iscritto alla prestigiosa scuola cattolica che frequentò anche suo padre e dove il suo futuro sembra già scritto, usa un compito in classe per confessare il proprio disagio. Suo padre Marco (Fausto Cabra, molto efficace nei panni del borghese in carriera benpensante e affettato) e la preside Suor Lucia (Viola Graziosi, austera e compassata) cercano di comprenderne le ragioni. Tutto lo spettacolo, ambientato nel grande ufficio della preside, è l’asfissiante proposta di aiuto di chi non sa ascoltare, troppo impegnato a proteggere la propria maschera sociale. Pur incalzato dalle domande dei due adulti, Samuele non riesce mai davvero ad avere la loro attenzione: si ribella, ma poi ritratta le proprie confessioni, ripete più volte che forse hanno ragione loro. Il focus della narrazione si sbilancia sempre più verso gli adulti, per poi chiudersi con un definitivo spostamento su di loro, come dimostra sul finale la rivelazione sul passato della preside. Se questa drastica virata conferma la direzione dell’accusa – non sono i giovani ad essere degenerati, la colpa è degli adulti - al contempo non fa che rubare ancora una volta la scena al ragazzo, alla verità del suo malessere. La regia di Piero Maccarinelli lavora a rendere dinamica una drammaturgia di per sé statica, che non riesce a celare la stretta parentela con il romanzo. Sono le ripetute apparizioni di Suor Cristiana (Ola Cavagna) a rompere e rinnovare il ritmo. L’anziana suora è anche l’unica capace di offrire, in un semplice biscotto, conforto, vicinanza ed empatia a Samuele. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Parioli. di Daniele Mencarelli. Regia Piero Maccarinelli. Con Fausto Cabra, Viola Graziosi, Alessandro Bandini e con Ola Cavagna. Scene, costumi Piero Maccarinelli. Musiche Antonio Di Pofi. Luci Cesare Agoni. Consulenza scenografia Anna Maria Gallo. Consulenza costumi Bruna Calvaresi. Assistente alla regia Irene Careri. Produzione Centro Teatrale Bresciano
I MANOSCRITTI NON BRUCIANO
Sotto a un cono di luce, dietro il velo che separa la scena dalla platea, troviamo l’ambizioso e un po’ arrogante autore Ivan Bezdomnyj (Anton de Gugliemo) e, di bianco vestito, il consulente Woland (Francesco Petti), malefico deus ex machina, rivelatore dell’umana debolezza, e di quanto questa possa essere tratta in inganno per l’ottenimento del potere, e quindi della redenzione. La drammaturgia e regia di Alessandra Chieli per I manoscritti non bruciano, adattamento de Il maestro e Margherita di Michail Bulgakov al debutto romano, si biforca, come lingua diabolica, in una struttura complessa che tenta di restituire l’ambivalenza delle ambientazioni originali, quella della Mosca anarchica degli anni Trenta che imprigiona in un manicomio il Maestro (Emilio Barone), e quella dei fatti di Gerusalemme al tempo di Ponzio Pilato e del processo a Gesù. Dispiace constatare che nonostante l’interrogazione storico politica di uno dei testi capisaldi della letteratura russa, e la sua attualizzazione in un presente compromesso dall’invasione della Russia in Ucraina, l’interpretazione attorale, suddivisa in diversi ruoli per i quattro interpreti, non riesce a sostenere il testo, né dà spessore psicologico ai personaggi, soggiogati da una struttura troppo elaborata; la voce e canto di Chieli (anche interprete di Margherita) riescono tuttavia a distinguersi per pulizia e intenzione. Apparizioni e sparizioni si alternano in una serie poco organica di scene bidimensionali, staccate le une dalle altre, prive di ritmo, faticose da seguire per la fumosità della narrazione e per l’affastellamento virtuosistico dei tempi del racconto. Se non fosse per la scrupolosità con la quale è stato pensato l’impianto sonoro, confezionati i costumi, regolato il disegno luci, montate le proiezioni, l’attenzione dello spettatore andrebbe dispersa poiché non è drammaturgicamente chiara l’intenzione che soggiace alle finalità di questo lavoro, forse ancora tenuto in scacco dalla visionarietà di Bulgakov. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Tor Bella Monaca Testo e regia Alessandra Chieli; Supervisione drammaturgica Francesco Petti; con Emilio Barone, Alessandra Chieli, Anton de Guglielmo, Francesco Petti; direttore tecnico e luci Emilio Barone; supervisione tecnica generale - Stefan Schweitzer; musiche originali – Francesco Petti e Emilio Barone; sonorizzazione, immagini e montaggio Alessandra Chieli; costumi Armida Kim; assistente di scena Emma Tramontana.
DISPREZZO DELLA DONNA
Ci sono due artisti, provenienti dal magmatico mondo dell'underground romano dei primi anni 2000 (quello delle ultime cantine, degli spazi sociali e alternativi…), instancabili per la dedizione e la passione impiegate nel lavoro di scavo tra le forme e i temi con cui riempiono ogni volta la loro valigia di teatranti, sono Elvira Frosini e Daniele Timpano. La Storia è da sempre al centro delle loro ossessioni (con Ottantanove, sulla Rivoluzione francese, hanno vinto un premio Ubu alla drammaturgia): nell’ultimo, Disprezzo della donna, l’affondo sui materiali storici è, per certi versi, ancora più radicale. Lo spettacolo è infatti costruito attraverso la giustapposizione di testi e manifesti del Futurismo nei passaggi in cui al centro della riflessione c’è la questione femminile. Frosini e Timpano lo descrivono anche come “uno spettacolo femminista, composto da materiali che non lo sono affatto”; ma soprattutto questo lavoro è una sfida teatrale, assurda e geniale allo stesso tempo: i due si presentano in scena, marcando subito l’inversione comica sulla quale appenderanno il serissimo lavoro sui testi, con un completino ginnico che sembra uscito da qualche anime sulla pallavolo (canottiera arancio e leggins fucsia); non recitano solo a voce i testi ma costruiscono una linea interpretativa fisica, un piano performativo - che in fin de conti è una risposta proprio all’anelito di dinamismo della cultura futurista - indicato negli ironici titoli di testa come “Declamazione dinamica e sinottica”. L‘irriverenza poetica del testo fa sorridere e riflettere, per poi emergere nella sua dimensione musicale: il pubblico viene così stimolato da un flusso continuo, dalle improvvise esplosioni fisiche o vocali, dai cambi di tono. Come nel finale, desolato e bellissimo, tratto dalle parole oniriche di Benedetta Cappa Marinetti: una favola nera nella quale un padre mura finestre e spiragli che potrebbero liberare la vitalità e la forza spirituale delle figlie.
Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo, novembre 2022, drammaturgia, regia e interpretazione Elvira Frosini e Daniele Timpano, Disegno luci Omar Scala, Disegno del suono Lorenzo Danesin, Costumi Marta Montevecchi, Collaborazione alla drammaturgia e regia Francesca Blancato, Organizzazione, Laura Belloni. Produzione Gli Scarti, Frosini / Timpano – Kataklisma Teatro
THE SHOW
La sala del teatro Fortezza Est è uno spazio che resta insospettabile, collocata com’è dietro al bancone della libreria antistante. Perciò quando al pubblico assiepato tra gli scaffali viene concesso l’ingresso, ci si sente come in procinto di scoprire un qualche segreto, di ascoltare una confessione. Elisa Denti, protagonista di The Show, entra in scena senza entrare in scena, accoglie il pubblico con confidenza, disponendolo ad ascoltare una storia.
Quasi impercettibilmente diventa Adele, nei suoi pantaloni della tuta. Insieme a lei entriamo in una palestra, ne sentiamo gli odori e i rumori, sul filo dei pensieri di una donna comune, lucida e disincantata. Una scommessa di un gruppo di amiche - forse non davvero amiche - l’ha portata lì: con lei lo spettatore vive il lieve disagio misto a curiosità di chi si accosta per la prima volta a qualcosa di nuovo, mantenendo le distanze per poi ritrovarsi al centro. Il wrestling femminile è lo sport che si pratica in quel luogo, e prima che Adele possa chiedersi se fa per lei è già sul ring. Lì impara che la ripetizione è una forma di crescita, che un nome e una faccia possono assomigliarsi e che dentro di lei, sonnecchiante, c’è un animale da scoprire e liberare. Il wrestling, sport che tanto ha in comune con il teatro, si conferma un efficace escamotage per la costruzione di un personaggio e del suo paesaggio interiore, i saliscendi dell’anima, il contatto con il proprio intimo e sopito ruggire. Si potrebbe descrivere The Show come una storia di formazione, non priva di spunti ironici e tenerezza, la cui semplicità – pochi elementi, anche sulla scena – è quella tipica delle storie ben raccontate. La drammaturgia di Manuela De Meo dispone personaggi e situazioni in modo fluido ed efficace. La regia di Luigi D’Elia sceglie di raccogliere il tutto nella voce, negli sguardi e nei piccoli gesti evocativi di Denti, fino all’exploit finale che forse potrebbe osare di più nella durata e nell’intensità del climax raggiunto. (Sabrina Fasanella)
Quasi impercettibilmente diventa Adele, nei suoi pantaloni della tuta. Insieme a lei entriamo in una palestra, ne sentiamo gli odori e i rumori, sul filo dei pensieri di una donna comune, lucida e disincantata. Una scommessa di un gruppo di amiche - forse non davvero amiche - l’ha portata lì: con lei lo spettatore vive il lieve disagio misto a curiosità di chi si accosta per la prima volta a qualcosa di nuovo, mantenendo le distanze per poi ritrovarsi al centro. Il wrestling femminile è lo sport che si pratica in quel luogo, e prima che Adele possa chiedersi se fa per lei è già sul ring. Lì impara che la ripetizione è una forma di crescita, che un nome e una faccia possono assomigliarsi e che dentro di lei, sonnecchiante, c’è un animale da scoprire e liberare. Il wrestling, sport che tanto ha in comune con il teatro, si conferma un efficace escamotage per la costruzione di un personaggio e del suo paesaggio interiore, i saliscendi dell’anima, il contatto con il proprio intimo e sopito ruggire. Si potrebbe descrivere The Show come una storia di formazione, non priva di spunti ironici e tenerezza, la cui semplicità – pochi elementi, anche sulla scena – è quella tipica delle storie ben raccontate. La drammaturgia di Manuela De Meo dispone personaggi e situazioni in modo fluido ed efficace. La regia di Luigi D’Elia sceglie di raccogliere il tutto nella voce, negli sguardi e nei piccoli gesti evocativi di Denti, fino all’exploit finale che forse potrebbe osare di più nella durata e nell’intensità del climax raggiunto. (Sabrina Fasanella)
Visto a Fortezza Est. Un progetto di Elisa Denti e Manuela De Meo. Scritto da Manuela De Meo. Con Elisa Denti. Regia Luigi D’Elia
#MANFREDONIA
NATALE IN CASA CUPIELLO
«Quanno nascette Ninno a Bettlemme/No 'nc'erano nemmice pe la terra, /La pecora pasceva cu 'o lione;/Cu 'o capretto - se vedette/'O liupardo pazzeà;/Ll'urzo e 'o vitiello/E co lo lupo 'n pace 'o pecoriello». Ci sono canti meningei, suoni che s’insinuano tra le fibre cerebrali, che si appongono alle orecchie, che restano sfumati e presentissimi fino ad assumere una plasticità, una corporeità memoriale. Natale in casa Cupiello è testo eduardiano tra i più conosciuti, fucina di espressioni, battute sentite e ripetute, proposte e riproposte anche nella vulgata comune, opera della Cantata dei giorni pari all’interno della quale si ravvisa un prodromo di quella difficoltà di comunicazione che sarà poi una delle cifre più proprie dei lavori del dopoguerra, della Cantata dei giorni dispari. Il Natale prodotto dal TAN (beneficiando di un periodo inusuale di preparazione dovuto all’emergenza sanitaria) lungo una via delicata, trasognata, progressiva, quasi impalpabile a tratti, come solo può essere infine la terebrante tenerezza dell’abbraccio di un angelo, lascia affiorare possente il tema del passaggio. Sia esso dal vecchio al nuovo, da un tempo all’altro, da una generazione all’altra, dalla vita alla sua fine, dalla parola alla sua assenza, dai padri ai figli, dentro e fuori dalla messinscena. Perché fra il ricordo, la visione onirica e il presente eterno di un presepe familiare che si disgrega per ricomporsi e viceversa si incunea il lascito, raccolto qui da Luca Saccoia (ideatore insieme a Vincenzo Ambrosino con la regia di Lello Serao) che nei panni e nel letto di Tommasino lascia riaffiorare l’interezza della vicenda e del testo insieme a una compagnia di marionette corporali, pupi ad abitare la dimensione dello spazio definita dall’alchimia cosciente di Tiziano Fario. Ci sono canti, suoni meningei, come matrici la cui origine, temporalità o necessità non serve definire, sembra essere stata da sempre ed è ora, tutte le volte in cui arrivano, se vanno e tornano. «Quanno è tutto - niro e brutto / Comme 'a pece, tanno cchiù / Lo tiene mente, / E 'o faje arreventà bello e sbrannente». (Marianna Masselli)
Visto al Teatro Comunale Lucio Dalla. Da Eduardo de Filippo; da un’idea di Vincenzo Ambrosino e Luca Saccoia; spazio scenico, maschere e pupazzi Tiziano Fario; con Luca Saccoia; manovratori Salvatore Bertone, Paola Maria Cacace, Lorenzo Ferrara, Oussama Lardjani, Irene Vecchia; luci Luigi Biondi, Giuseppe di Lorenzo; costumi Federica del Gaudio; musiche originali Luca Toller;
#NAPOLI
CADO SEMPRE DALLE NUVOLE
Entra in scena un baldanzoso Giuseppe Burgarella nelle sembianze di Ninetto Davoli, subito pronto a occupare il suo posto al pianoforte. La scena si apre su un paesaggio cedevole e incompleto, fatto di irte pendenze, sedute di fortuna e impalcature arrugginite; un cartellone pubblicitario si delinea come occhio sul mondo. Francesco Saponaro trasforma il palcoscenico in una delle vie polverose di borgata, stracci di città note e terribili in pellicole come Accattone e Mamma Roma. Sul palco, Mauro Gioia e Claudia Gerini riproducono l’esperienza poetica di Pier Paolo Pasolini accettando di assumerne alcune rappresentazioni: il poeta, i borgatari, la prostituta, la madre addolorata, la maschera, Otello, la critica. A muovere gli attori, un impianto da spettacolo musicale costruito attorno alla produzione meno nota di Pasolini, quello delle sue canzoni. Il pastiche di immagini, citazioni e cadenze romanesche restituiscono un’idea confusa di un percorso intellettuale complesso, di una visione problematica rispetto ai tempi e di una vasta produzione di scritti non sempre condivisibili; l’esperienza di una vita intellettuale non può essere compressa in formule più o meno appetibili, non può diventare un prodotto. Che straniamento sentir parlare di consumo, di lotta, di fascismo a un pubblico per lo più anziano di impelliciate e professionisti. I due interpreti non riescono a far altro che dar suono alla voce del poeta, senza che le parole abbiano un senso effettivo; ne escono slogan, frasi a effetto, affermazioni fuori contesto e fuori storia. Mauro Gioia, troppo didascalico e troppo impegnato in vuote declamazioni, non riesce a impersonare il poeta. Claudia Gerini, tra un vorticoso cambio d’abito e l’altro, non riesce a reggere il confronto di una grande interpellata: quel fugace richiamo ad Anna Magnani non è assolutamente un omaggio. La poesia si studia da quella giusta distanza che è anche amore, nel migliore dei casi la poesia si vive; non si sbiglietta. (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro Mercadante, Napoli; Crediti: Un progetto di Mauro Gioia; Drammaturgia Igor Esposito; Elaborazioni e musiche originali Pasquale Catalano; Regia e spazio scenico Francesco Saponaro; Con Claudia Gerini, Mauro Gioia; Pianoforte e direzione musicale Giuseppe Burgarella
GAETANO COSÌCOMÈ
Gaetano (Filippo Luna) racconta la sua personalissima storia. Non è più giovanissimo, e vive in Germania; siciliano, di famiglia tradizionale, non vive da solo ma i suoi familiari non lo sanno. Il padre però si chiede quand’è che troverà una compagna, magari una bella tedesca; la madre lo guarda, si lascia sfuggire qualche affermazione lapidaria a denti stretti, sospetta. Gaetano è rinchiuso in una gabbia senza muri: potrebbe uscirne in qualunque momento, la decisione spetta a lui. Costretto e insofferente, sempre in bilico tra ricordi in un dialetto stizzoso e in un italiano carezzevole. Di un racconto tanto coinvolgente, tanto comune, tanto classico, conforta la capacità di comprensione e compassione nei confronti di individualità che non si toccano mai, ma si colpiscono mortalmente; conforta, per paradosso, che la comprensione arrivi da chi ne avrebbe più bisogno. Non è un martirio, quello di Gaetano; è la consapevolezza dei limiti altrui, compresi i propri. Filippo Luna assume i corpi di una famiglia di persone sole, e gestisce le singole emotività con una dolcezza disarmante; mai toni sopra le righe, mai macchiettistico, mai un giudizio a deformargli la bocca. Lì dove è presente una cosciente contestualizzazione, non può sussistere una posizione manichea e morale. Si prova una sofferente tenerezza tanto nelle conversazioni con il compagno, presente come calda luce che tira la testa di Gaetano fuori dalla gabbia, quanto le discussioni e gli scontri con i genitori che gli sfibrano e innervosiscono il corpo in scatti di dolore. L’esperienza di vita non è ordinata in formule di ingabbiamento identitario che fanno di quell’esperienza un simbolo esemplare. Il pubblico non è mai messo nelle condizioni di subire una narrazione che impone distanze di merito, ma può avere la possibilità di accogliere un vissuto. Non c’è alcunché di eccezionale in quello che viene raccontato. Cosa importa se Gaetano vive con un uomo? Esiste ben altro che lo rende ciò che è. (Valentina V. Mancini)
Visto a Ridotto del Mercadante, Napoli; Crediti: Di Salvatore Rizzo; Regia Vincenzo Pirrotta; Con Filippo Luna; Musicista Maurizio Capone; Scene Marianna Antonelli; Disegno luci Ciro Petrillo; Direttore di scena Antonio Gatto; Scene in collaborazione con Accademia di Belle Arti di Napoli – Corso di Scenografia per il teatro; Foto di scena Ivan Nocera; Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale.
#BOLOGNA
NELL’IMPERO DELLE MISURE
Quattro donne, un solo cuore: quello dell’inafferrabile poeta russa Marina Cvetaeva. Il dispositivo teatrale che la contiene, nel lavoro di Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi di Ateliersi, è un gioco di disgregazione e ricomposizione continua di un’identità palpitante, inquieta eppure solida e fiera, inafferrabile. L’invito è rivolto ad un duplice ascolto: della parola indomabile della poeta che non accetta etichette, ma più profondamente del fluire della sua anima molteplice. Le quattro interpreti, tenute insieme da un intenso e ininterrotto scambio di sguardi, offrono il proprio cuore al racconto tramite un elettrocardiografo che ne misura il battito a vista, rimandando continuamente alla compresenza emotiva di vita e morte. Nell’impero delle misure, Marina Cvetaeva, smisurata, ha le guance rosse d’innocenza di Margherita Kay Budillon, la forza pacata ed elegante di Fiorenza Menni, la giocosa e tenace mano sul pianoforte di Francesca Lico, lo sguardo deciso e fiero di Angela Baraldi. Andrea Mochi Sismondi, unica presenza maschile, insieme guida ed è guidato, condensando nella sua persona l’universo delle relazioni di una donna tutta protesa verso la bellezza, ma fedele solo a se stessa fino all’estremo. Poesia e carne, altezze e abissi, straordinario e quotidiano convivono costantemente in un meccanismo fluido di corpi che giacciono, che pacatamente si spostano, occupando ogni possibilità che la scena offre loro. La selezione di testi in versi e in prosa, in dialogo con un paesaggio sonoro ininterrotto e mai didascalico, riesce a condensare senza affanni cronologici biografia e poetica, tanto coincidenti nella vita multiforme e tragica della Cvetaeva. Una piccola candela tremula racconta la forza prorompente di una fede, quella nella scrittura, che non necessita di alcuna rivendicazione; delicata, pacata e ineluttabile come la neve, presuntuosa come l’amore. Si lascia la sala con l’anima protesa a quell’ideale umano, a quella moltitudine coerente, a quel vibrare di voci e suoni sospesi nel tempo. (Sabrina Fasanella)
Visto ad Atelier Sì. Di e con: Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi. E con: Angela Baraldi, Margherita Kay Budillon e Francesca Lico. Elaborazione ed esecuzione musicale: Angela Baraldi (voce), Francesca Lico (pianoforte), Fiorenza Menni (progetto sonoro) e Vincenzo Scorza (elettronica). Foto: Margherita Caprilli.
X-MACHINE
Nel vivace spazio di AtelierSì di Bologna è passato un esperimento minuzioso e audace dal titolo x-machine, firmato da Federica Amatuccio e Andrea Gianessi (Teatro dei Servi Disobbedienti, qui un'intervista recente). La regia/scenografia di una e la direzione musicale/sound design dell’altro usano come reagente un terzetto di performer e musicisti composto da Federica Furlani, Jacopo Giacomoni e Marco Puzzello. Note e dissonanze di viola, sax e tromba sono tutt’uno col corpo di queste tre abili figure, che invadono, attraversano, distruggono e ricreano uno spazio affollato di sedie. Gianessi – acuto ierofante dietro alla consolle – raccoglie il suono catturato da un microfono ambientale per costruire una grammatica macchinica in grado di portare sulla scena un’attendibile immagine del funzionamento interno di uno qualsiasi dei dispositivi che quotidianamente usiamo. «Un dispositivo – si legge nei materiali – è una relazione di forze, di saperi e di poteri». La mediologia della performance raccoglie il più ampio ragionamento sui media come minacciosa interfaccia del mondo. Nomi come Walter Benjamin, Jean Baudrillard, José Ortega y Gasset, hanno nutrito Byung-Chul Han e i teorici della filosofia digitale, che guardano alla materialità del medium come sorgente di una nuova razionalità digitale. La scena può farsi campo d’analisi privilegiato per nuove prospettive sulla progressiva scomparsa della realtà. Uno studioso come Vincenzo Del Gaudio, scomparso troppo presto, aveva raccolto alcune premesse in un luminoso volume, Théatron, e sarebbe rimasto affascinato da questo esperimento. La drammaturgia di movimenti e gesti, tra cluster di note, dissonanze e inaspettate armonie sciolte nella totale incomunicabilità dei corpi, compone un doloroso e frastornante apologo didattico: in un flusso performativo, l’essere umano (occupi scena oppure platea) si perde tra algoritmi misteriosi e la sua individualità si frantuma contro un muro di suono, che fa perdere la capacità stessa di pensare. (Sergio Lo Gatto)
Visto ad Atelier Sì, Bologna; crediti regia e scenografia Federica Amatuccio; direzione musicale e sound design Andrea Gianessi; musiche: Federica Furlani, Jacopo Giacomoni, Andrea Gianessi, Marco Puzzello; costumi: Martina Mondello, con la collaborazione di Solidea Colussi e Pinuccia Marchisio
THE GARDEN
Sette le virtù e i vizi capitali, sette i bracci della Menorah e le divinità mitologiche della Cabala ebraica; sette sono i sacramenti del Cristianesimo e gli attributi di Allah; ma anche sette i chakra e i passi del Buddha verso la Consapevolezza. In ogni viaggio di scoperta, questo numero pianta una vera e propria giungla di simboli. Sette sono gli schermi installati a sfondo della creazione The Garden, firmata da Fanny & Alexander e, dopo il debutto a Romaeuropa Festival 2021 e un giro all’estero, giunta ad Ateliersi di Bologna per un’ultima tappa nel dicembre 2022. Luigi De Angelis (ideazione, regia, drammaturgia, video) firma una complessa immersione nell’universo del dolore e del martirio, animando un polittico digitale con sette possibili icone, tra sottili rimandi alla cronaca recente e simbologie più minute e non prive di ironia. La voce di Claron McFadden e il live looping di Emanuele Wiltsch Barberio guidano una meditazione di suoni e di sguardi suddivisa in stanze, una «galleria di lamentazioni e memorie musicali» – così da note di regia – che frequenta Bach, Monteverdi, Nina Simone e altre modulazioni di sofferenza. Respiro ampio ed emissione chirurgica, McFadden sfrutta una vertiginosa versatilità per diventare amplificatore emozionale. L’intervento di Barberio sulle melodie, che crea sorprendenti canoni e multiple armonizzazioni, aiuta a snodare una rapsodia intima, addolorata e dolorosa, precipitando lo spettatore in uno scavo nelle profondità dell’animo, dove la coscienza incontra il crocevia delle responsabilità individuali. Il duo ravennate (trent’anni nel 2022) compone un ennesimo enigma, disseminando di indizi cognitivi un viaggio di visione e ascolto che mostra i diversi strati del “mestiere di vivere”: ogni giorno ci crocifiggiamo e, scriveva Michel Serres, «nessuno salva nessuno e nessuno viene salvato». Il paesaggio emotivo e la ferita che provoca viaggiano alla stessa velocità, sfruttando l’intensità del disegno e dell’esecuzione, di sopraffina complessità. (Sergio Lo Gatto)
Visto ad Ateliersi, Bologna; Crediti Ideazione, regia, drammaturgia, video Lugi De Angelis; Costumi (video) Chiara Lagani; Vocals Claron McFadden; Live looping Emanuele Wiltsch Barberio; Regia del suono Damiano Meacci; Video Performers Andrea Argentieri, Mirto Baliani, Ilenia Carrone, Marco Cavalcoli, Mirko Corciari, Consuelo battiston, Gianni Farina, Adama Gueye, Chiara Lagani, Bet Lihem, Joshua Maduro, Roberto Magnani, Fiorenza Menni, Mauro Milone, Marco Molduzzi, Stefano Toma; Produzione Fanny & Alexander