Recensione di Family Game, testo e regia di Mimosa Campironi, con Alessandro Averone. Visto al Teatro Argot Studio di Roma
A un certo punto di fronte ai nostri occhi appare una scritta su sfondo nero che ci avverte di toglierci il visore per poter continuare l’esperienza dal vivo. Spostiamo le grandi lenti dagli occhi ed ecco, finalmente, il teatro. Averone è in mezzo a noi, a pochi centimetri da noi, ora sì che ne percepiamo il talento, in quell’andamento recitativo che ha qualcosa di erotico e magnetico. Si strucca, si sveste, si alza dalla sedia a rotelle, si spoglia dei panni da vecchia signora e nei piccoli gesti che accadono nel qui e ora del tempo che si fa carne, per paradosso, dà dimostrazione di tutta l’arretratezza del mezzo tecnico con il quale fino a pochi minuti prima ci ingannavamo di poter fare esperienza dell’arte attorale, un’arretratezza incolmabile se paragonata a questi pochi minuti flesh and blood.
Riavvolgiamo per un attimo il nastro. In questi ultimi giorni che precedono le feste di Natale sono stato spettatore di Family Game VR, programmato al Teatro Argot Studio, nella nota stampa si legge: «Il primo testo teatrale concepito espressamente, per la realtà virtuale, con un finale dal vivo». Siamo nello spazio scenico del teatro trasteverino, non in platea, occupiamo sedie girevoli che ci daranno la possibilità di seguire la visione ruotando a 360 gradi, rimanendo però fermi sul nostro asse. Dopo le spiegazioni del caso circa l’utilizzo del visore e delle cuffie, comincia l’esperienza: siamo in una esterna, in strada, poi apparirà lo spazio chiuso in cui è riconoscibile il teatro; posso guardare il luogo attorno a me, come se fossi al centro della scena. Mi era già capitato di vedere uno spettacolo in VR, qualche anno fa, era La mia battaglia (qui nella versione dal vivo), con Elio Germano e la macchina drammaturgica stupefacente di Chiara Lagani; ricordo che in quel caso, al termine della visione, la prima cosa che pensai riguardava la bassa qualità tecnica generale e soprattutto la scarsa definizione del visore. Sono passati più di due anni e i problemi sono ancora gli stessi: anche nell’opera di Mimosa Campironi sembra di assistere a quei videogiochi di fine anni Novanta in cui alcune parti in grafica filmica si mostravano con una definizione molto bassa data dalle capacità di elaborazione dell’epoca, dunque con tutto il reticolo dei punti esposto. Ora, mentre gli schermi televisivi o quelli dedicati ai videogiochi, come quelli d’altronde delle sale cinematografiche, lavorano a una cura del dettaglio parossistica (in una corsa all’ipervisione che di certo appare anche esagerata), qui siamo all’opposto, con una definizione dell’immagine che il nostro occhio non può non percepire come obsoleta, a rimetterci è la resa estetica del progetto.
Ma qual è allora il senso di un dispositivo che dovrebbe ampliare la nostra esperienza e invece la peggiora? Sempre sulle note stampa si legge: «FAMILY GAME VR è una performance in realtà virtuale pensata per rendere la narrazione interattiva attraverso la contaminazione tra realtà virtuale, gaming e performance live», la comunicazione insomma si focalizza proprio sulla questione tecnica cercando quello stupore un po’ da fiera ottocentesca: di interattivo non c’è nulla se non la possibilità di spostare lo sguardo a 360 gradi, l’immersività è solo visiva perché per quello che riguarda le emozioni siamo all’opposto. Il testo di Mimosa Campironi narra la vicenda di un uomo che perde la famiglia in un terremoto, viene scambiato per un assassino da un carabiniere cialtrone ma incoronato poi come eroe mediatico. L’uomo si rifarà dunque una famiglia prima di essere incriminato per un omicidio – se ho afferrato, perché l’intreccio è davvero troppo frastagliato. Averone impersona tutti i ruoli (scivolando qua e là nella macchietta stereotipata soprattutto per i personaggi femminili) dunque lo spettatore è accerchiato dal volto di quest’uomo rischiando di perdere la bussola di una trama che non si ricompone.
Non è di certo questa la caratteristica più problematica dello spettacolo, che invece va ricercata proprio in quel distacco che si crea tra le immagini e chi guarda. A tal proposito l’autrice nelle note spiega l’idea di «raccontare una storia con le regole del teatro che costringa all’empatia, immergendo il racconto all’interno di uno spazio scenico asettico, anti-empatico, ispirato all’estetica del gaming. Ci sono elementi visivi che rimandano ai videogiochi, ma anche richiami ai mass media per immaginare un’ipotesi degli effetti sull’umano del bombardamento di informazione.» Ed è la storia a non emozionare, a non entrare in risonanza, sia per i problemi tecnici descritti sopra sia per la frammentarietà della drammaturgia. Non aiutano i colori lividi, i viola e i blu sparati sulla scena del teatro Fabbricone di Prato (in cui il lo spettacolo è stato ripreso, prodotto dal Met e da 369gradi); anche l’idea interessante di popolare la storia con un solo attore, il quale grazie alle tecniche digitali può essere presente simultaneamente nei tanti ruoli, si smonta di fronte a un utilizzo spaziale fin troppo semplice: lo schema relazionale con lo spettatore è sempre il medesimo, ovvero quello di una noiosa frontalità. Allora la nuova frontiera dell’immersività, l’interattività, il sogno di essere catapultati in un mondo altro? Per ora è lì, da qualche parte nel futuro, siamo possibilisti; anche perché sarebbe facile, fin troppo banale e retorico, chiudere affermando che tutto questo è già a portata di mano nel teatro dal vivo, nella scena in carne ed ossa.
Andrea Pocosgnich
Dicembre 2022, Teatro Argot Studio, Roma
Family Game
testo e regia di Mimosa Campironi
con Alessandro Averone
disegno luci Massimo Galardini
scene e costumi Paola Castrignanò
make up artist Bruna Calvaresi
musiche Bertrand
produzione Teatro Metastasio di Prato e 369gradi
Testo selezionato da Italian and American Playwrights Project 2020/22