Un ultimo sguardo da Romaeuropa Festival, dove ha debuttato Penelope di Martina Badiluzzi con Federica Carruba Toscano, una densa e felice riscrittura che non teme la tradizione del mito. Recensione.
È assurdo pensare di progettare una casa a partire dal corridoio? Oggi si tende sempre più a farne a meno: intercapedini di risulta, spesso buie, poco utilizzabili secondo una logica di ottimizzazione degli spazi. Eppure un tempo il corridoio era la spina dorsale dell’architettura, il tronco dell’albero, il ritmo di un racconto fatto di stanze. Che l’ambiente dedicato al transito sia oggi trascurato può apparire un paradosso, forse il sintomo di una rimozione, in un tempo fatto di dati e flussi in convulso scorrimento. Dovremmo restare più saldamente dove si passa, in quel luogo eccentrico dove Martina Badiluzzi ha incontrato la sua Penelope, Federica Carruba Toscano – e l’incontro ha generato un groviglio di scrittura e di corpo in cui appare sin da subito difficile trovare i margini fra le parole e la bocca, le mani e la penna. «…hai deciso di lasciare le tue stanze e vivere in questo corridoio» dice la protagonista, all’esordio di questo monologo che tutto sembra tranne un monologo, tante sono le voci di questa Penelope che esonda e si ritrae fra memoria e desiderio, fra il mito, con le sue microstorie, e la sua decostruzione.
Proprio ieri Viviana Raciti introduceva la sua sostanziosa riflessione sull’Orestea di Enzo Cosimi con le parole del coreografo: «L’eroe è adesso frantumato, rotto, in rovina, è il risultato di ciò che io sento della società». Vale lo stesso per questa Penelope, sola, in piedi in mezzo ad un corridoio? Qui una poltrona color cuoio è il trono di Itaca, e il sole del mediterraneo è disseminato in decine di piccoli bagliori asteriscati sul fusto cromato di sette ventilatori, secondo l’icastica, efficace visione di Fabrizio Cicero. Il loro fruscio è la brezza isolana, ma ciascun vento spira in direzioni opposte: il mito ha pulsioni contrastanti e c’è forse più di (una) Penelope davanti a noi. Non si tratta solo di ricentrare la prospettiva del racconto in un punto di vista femminile, come nella commovente opera di Margaret Atwood (Il Canto di Penelope), cui Badiluzzi fa riferimento, la riscrittura passa attraverso l’espansione del corpo narrante, che attraversa tutta una genealogia di voci del racconto per dissotterrarne la fisionomia emotiva, psicologica, politica: «…l’Odissea di Omero non è l’unica versione della storia. Il mito aveva tradizioni orali e locali, poteva essere raccontato in modo diverso a seconda del luogo di provenienza. Io non ho tratto il materiale per questo libro solo dall’Odissea, soprattutto per quanto riguarda i particolari sulle origini di Penelope, sugli anni giovanili, sul matrimonio e sulle voci scandalose che circolavano sul suo conto».
Se nella riscrittura di Atwood la moltiplicazione del punto di vista slitta verso le dodici ancelle impiccate, nello spettacolo Penelope diventa figlia di Polifemo (e dunque in qualche modo Odisseo stesso), poi Circe, le sirene, infine Argo, assecondando una sete di corpi che abita tanto la scrittura che l’altissima presenza scenica di Carruba Toscano, in grado di sostenere con intensità l’intera durata dello spettacolo. L’acme di questa transustanziazione è il banchetto del padre-Polifermo, che griglia e divora le amiche vocianti di una Penelope tornata bambina, ne sgretola le ossa fra le mascelle, pela i corpi dai vestiti in giù in un rito orgiastico e incestuoso che sfiora lo snuff per evocare una mascolinità patriarcale e chiassosa che tuttavia non resta stigmatizzata da una facile dialettica del femminile-contro-tutti. La scena madre del dramma è infatti un altro banchetto, dove Penelope incontra un Ulisse maturo, tronfio e bellissimo, al tavolo di un ristorante vista-mare. Qui i proci abitano nella cagnara gogliardica di un vicino tavolo di soli ragazzi, o nel corpo sensuale d’uno scanzonato cameriere che, inconsapevole, duella con l’eroe per diventare il soggetto erotico delle attenzioni di Penelope. Così avvertiamo finalmente (e, sì, ne godiamo, con un’empatia tutta corporea alla sensualità della scena) la canzonatura della retorica misogina che vuole una Penelope castrata, eroina fedele al telaio.
La tensione narrativa volge tutta à rebours, in un processo in cui la memoria riscrive sé stessa e ci mostra, nel suo (ri)farsi, la possibilità di tornare sui banchi di scuola e puntare la penna, rileggere il classico hackerandolo, masticarlo a bocca aperta e sorriderne così come, durante lo spettacolo, si ride di gusto. Badiluzzi e Carruba Toscano riescono così nell’operazione di orientare il nostos dal paesaggio al corpo, un corpo che canta, grida, divora, in lotta con la semplice ma potentissima scena, ricorrendo ad una metodologia femminista senza peraltro ricorrere a formulari che non siano filtrati sapientemente attraverso la lingua della rappresentazione. Si avvertono le parole di Donna Haraway: «Scrivo per sostenere la visuale che proviene da un corpo, un corpo sempre complesso, contraddittorio e strutturato, scrivo contro la visuale dall’alto, da nessun luogo, dalla semplicità […] il femminismo ama le scienze e le politiche dell’interpretazione, traduzione, del balbettio, e della comprensione parziale […] le scienze del soggetto multiplo, che possiede una visione (almeno) doppia […] in uno spazio sociale non omogeneo e sessuato». Tutta Penelope si scrive in quel corridoio, spazio “non omogeneo”, dove si transita sostando. L’eroina, dunque, non è come l’eroe di Cosimi “frantumato, rotto, in rovina”; anzi, al contrario, è ciò che dai lembi di questa rovina ci parla e si parla, e semmai non è un’eroina – è troppo intelligente, complessa e umana per esserlo. Questa Itaca non è un’isola, è non certo per sempre.
Andrea Zangari
PENELOPE
Regia e drammaturgia Martina Badiluzzi
con Federica Carruba Toscano
progetto sonoro Samuele Cestola
disegno luci e scene Fabrizio Cicero
costumi Rossana Gea Cavallo
consulenza artistica Giorgia Buttarazzi
aiuto regia Arianna Pozzoli
ufficio stampa Marta Scandorza
curatore del progetto Corrado Russo
produttore generale Pietro Monteverdi
una produzione Oscenica