Questa recensione fa parte di Cordelia, dicembre 2022
Rimbomba il canto lontanissimo e religioso di una voce ancestrale nello spazio dilatato del Teatro Strehler. Tutto è di un fitto nero tenebra finché una luce bianca, prima debole poi sempre più intensa (curata con minuzia da Giuseppe Filipponio), compare dall’alto e si espande a cono per scendere tagliente sul palco, dove tutto sembra oramai perduto, ricoperto di terriccio e sabbia. Un uomo, stretto nell’esile corpo in una soffocante camicia di forza, vi avanza senza direzione, confuso dallo spazio che lo ingloba e lo atterrisce; la scenografia ne accentua l’enorme vuoto di mezzo in una continua tensione spirituale tra il basso e l’alto. In questo ambiente, onirico negli elementi essenziali che lo compongono, Il sogno di un uomo ridicolo di Dostoevskij da testo diviene immagine. Il concitato flusso di coscienza dell’uomo meschino prende il corpo di Lavia – che traduce, adatta e dirige lo spettacolo già portato in scena negli anni ’90 -, ne ripete gli spasmi, ne amplifica l’ossessione e la mania mentre l’illuminazione ricade drammatica su di lui, come uno spirito pronto a giudicarlo. Del personaggio dostoevskijano riusciamo a percepire tutto il tormento nei passi trascinati, la follia negli occhi arrossati, la consunzione morale nel corpo raggomitolato. Lavia è intenso, modula la sua presenza tonale e scenica nei tratti del monologo e snocciola ciò che del testo dell’autore russo è parola scritta, diviene vita pronta a negarla, sogno che è un incubo tra cielo e terra. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Piccolo Strehler di Milano. Crediti: di Fëdor Dostoevskij, traduzione e adattamento Gabriele Lavia, regia Gabriele Lavia, con Gabriele Lavia, Lorenzo Terenzi, luci Giuseppe Filipponio, fonica Riccardo Benassi, produzione Effimera. Ph Filippo Manzini
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