Recensione. Filippo Dini porta in scena Il crogiuolo di Arthur Miller, testo del 1953 e ambientato nel 1692 a Salem, con la traduzione di Masolino D’Amico. Visto al Teatro Quirino di Roma, date tournée a Napoli, Ancona, Trento, Lugano
Che Il crogiuolo attraverso la storia delle streghe di Salem parli dell’epoca grigia in cui Arthur Miller cercava di difendersi dal maccartismo è risaputo. L’autore americano utilizzava una tecnica conosciuta fin dagli antichi greci, usata in abbondanza da Shakespeare e da tanti altri, ovvero la possibilità di trovare nel passato uno specchio deformante del presente. E in questo caso, la tremenda storia delle streghe del paesino del Massachusetts rende ancora più evidente il pensiero di Miller sulle condizioni democratiche del proprio paese. D’altronde l’autore di Morte di un commesso viaggiatore doveva sentirsi accerchiato se pensiamo che a portarlo alla sbarra fu l’amico e divo di Hollywood Elia Kazan.
Resistendo alle tentazioni di ambientazione ai giorni nostri – possibilità che porrebbe una serie di quesiti circa la credibilità di molti passaggi – Filippo Dini risponde con una scelta di rigore, ma anche foriera di suggestioni simboliche: la scena di Nicolas Bovey ci indica una neutralità degli spazi; muri neri, sezioni architettoniche scure come la pece che si muovono, spinte dai tecnici, per comporre i diversi luoghi della storia e le pareti delle case che dovrebbero rappresentare il piccolo villaggio tra il 1692 e il 1693. Ma dai costumi di Alessio Rosati capiamo subito che non siamo ai tempi dei pionieri: vestiti a fiori per le donne, larghe giacche per gli uomini più importanti, tuniche da prete moderne; siamo proprio negli anni Cinquanta, il testo è del 1953. Qui sta il passaggio registico più interessante e nobile dello spettacolo, la volontà di restituire a Miller e al suo tempo quella storia, facendogli fare naturalmente una torsione quasi distopica dato che lo strumento di giudizio e di legge, ai tempi delle streghe di Salem, era la Bibbia. Eppure il dominio teocratico che sottomette il libero arbitrio e la razionalità scientifica tra le casette di legno non è così lontano dalla nostra epoca, “…non siete capaci di dire una sola parola senza nominare l’Inferno” afferma John Proctol rispondendo all’ennesima sfuriata biblica del reverendo Parris; si pensi ai rigurgiti antiabortisti in molti stati americani, all’antiscientismo e allo scetticismo vissuto in pandemia nei confronti della medicina.
Ecco allora che nella produzione del Teatro Stabile di Torino, vista al Quirino di Roma e in tournée in numerose piazze, l’ensemble diretto da Dini si muove con abilità e a proprio agio tra i meccanismi drammaturgici di Miller e le interpretazioni registiche – Virginia Campolucci nei panni di Abigail, la giovane che accusa per vendetta mezza cittadina, è una bellissima scoperta, Andrea Di Casa è magistrale nella voce e nel corpo del reverendo Parris -, come in certi inserti di scrittura scenica: la folle e parossistica danza iniziale nella quale le giovani donne che poi verranno accusate di stregoneria si agitano come in preda a un tarantismo misterioso, la presentazione dei personaggi e degli antefatti con un’avanzata epica delle attrici e degli attori in proscenio (qui Dini fa recitare al giudice ormai invecchiato l’introduzione di Miller) e l’epilogo a suon di chitarra elettrica (suonata in presenza da Aleph Viola), con la grande bandiera americana che viene tirata giù dal muro su cui era appesa. È vero che il testo di per sé non dà tregua, il ritmo è altissimo e le tensioni tra i personaggi sono sempre sul punto di scoppiare, ma nella direzione di Dini questa tensione scoppia frequentemente verso due direzioni che a tratti rischiano di risultare scelte ripetitive e un po’ facili: la lite continua, che poi tecnicamente vuol dire interpreti spesso urlanti, e la ricerca del comico ad abbassare la gradazione, specialmente quando la scena è occupata proprio da Dini. E invece è nelle scelte piccole, nei momenti di dialogo pacato che emergono i toni migliori, come tra John Proctol (interpretato dal regista) e la moglie Elisabeth interpretata da una superba Manuela Mandracchia (è lei anche nella maschera della vecchia Rebecca Nurse), grazie alla solita vocalità, elegante e precisa.
C’è una registrazione radiofonica nell’archivio di Radio Tre, del 1962, risalente all’allestimento di Luchino Visconti, con un cast di altissimo livello, certo erano altri tempi, altri pubblici, ma non c’era necessità da parte del maestro milanese di cercare la risata di alleggerimento o lo scontro perenne. All’ascolto, quella messinscena appare come una tragedia che si snoda lentamente, nella quale le urla quando arrivano tranciano l’aria, e fanno davvero paura perché appaiono in una dimensione generale di maggiore controllo. Ora, in questo giudizio e in questo accostamento c’è di certo il gusto di chi scrive, d’altro canto bisogna riconoscere il successo di platea dell’ensemble torinese protagonista di una grande opera. Rimane intatta la riflessione dello spettacolo circa un mondo in cui gli individui sono incapaci di leggere gli avvenimenti secondo un piano logico e razionale. Le giovani donne di Salem da un certo momento passano al contrattacco, cominciano ad accusare gran parte della popolazione femminile della cittadina: nel loro atteggiamento si mescolano rivalsa sociale, piccole vendette, divertimento puro – quel male per il male che le porta a interpretare stati d’animo di estrema sofferenza, inventando possessioni demoniache come neanche una talentuosa allieva dell’Actors Studio saprebbe fare. Quali sono oggi le nostre streghe di Salem? Chi è in grado di manipolare l’opinione pubblica creando impalcature complottistiche e inventando nemici? Dobbiamo saper leggere il nostro tempo, anche quando, per dirla con Shakespeare, appare evidentemente “fuori sesto”.
Andrea Pocosgnich
Teatro Quirino, Roma – Novembre 2022
Prossime date in tournée
Napoli | Teatro Mercadante dal 29 novembre al 4 dicembre 2022
Ancona | Teatro delle Muse dall’ 8 all’11 dicembre 2022
Trento | Teatro Sociale dal 15 al 18 dicembre 2022
Lugano | Teatro LAC dal 21 al 22 dicembre 2022
IL CROGIUOLO
di Arthur Miller
traduzione Masolino d’Amico
con (ordine alfabetico) Virginia Campolucci, Gloria Carovana, Pierluigi Corallo, Gennaro Di Biase, Andrea Di Casa, Filippo Dini, Didì Garbaccio Bogin, Paolo Giangrasso, Fatou Malsert, Manuela Mandracchia, Nicola Pannelli, Fulvio Pepe, Valentina Spaletta Tavella, Caterina Tieghi, Aleph Viola
regia Filippo Dini
scene Nicolas Bovey
costumi Alessio Rosati
luci Pasquale Mari
musiche Aleph Viola
collaborazione coreografica Caterina Basso
aiuto regia Carlo Orlando
assistente scene Francesca Sgariboldi,
assistente costumi Veronica Pattuelli
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Teatro Stabile di Bolzano
Teatro di Napoli – Teatro Nazionale
In accordo con Arcadia & Ricono Ltd
per gentile concessione di ICM partners c/o ICM Partners c/o Concord
Theatricals Corporation
Purtroppo la cifra stilistica di Dini regista è spesso “urlata”, basata su toni eccessivi, forti, deflagranti. Questo spettacolo, ottimo sotto tanto punti di vista, sarebbe stato perfetto con un registro lievemente più”frenato”. Ma resta uno dei migliori della stagione, indubbiamente