Recensione. Dal 1 al 22 dicembre il Teatro Piccolo di Milano ospita il nuovo spettacolo di Liv Ferracchiati HEDDA. GABLER. come una pistola carica, un lavoro che si basa sulla disattesa dall’originale testo di Ibsen per indagare i meccanismi di verità e di finzione nella drammaturgia.
È il 1890 quando Henrik Ibsen scrive Hedda Gabler. È il 1891 quando il dramma va in scena per la prima volta, al Königlichen Residenztheater di Monaco di Baviera. La reazione stizzita del pubblico ne decreta un certo – temporaneo – fallimento, testimone di una società ottocentesca ancorata alle tradizioni, che fatica a riconoscersi nella controversa protagonista. Tuttavia, negli stessi anni, l’irrisolta complessità identitaria di Hedda e delle altre donne ibseniane riesce a raggiungere anche chi è “periferico alla maggioranza”: Lou Andreas Salomé, scrittrice e psicoanalista di origini russe, ne rimane affascinata e scrive un libro per reinterpretare in forma poetica le figure femminili dello scrittore norvegese. In Figure di donne, rende i personaggi veri, soggetti non più immaginari ma realmente esistenti, tanto è colpita dalla loro viscerale ricerca di emancipazione e dalla capacità di trascendere, nella penna di Ibsen, le barriere stantie della convenzione.
Il nuovo lavoro di Liv Ferracchiati si pone su una strada parallela: la riscrittura del dramma dilata il carattere dei personaggi attraverso l’innesto di elementi biografici appartenenti agli attori. A partire da questa scelta, il regista usa la convenzione come modello di un passato da superare, ma che continua a tenere i fili allacciati con il presente, allo scopo di reinventarlo. A distanza di anni, e di numerose rappresentazioni, Ferracchiati si immerge, dunque, in una nuova traduzione del dramma ibseniano assieme ad Andrea Meregalli, per poi riportarlo in scena al Teatro Piccolo di Milano attraverso “un tentativo personalissimo” di rappresentarlo, nelle parole di Claudio Longhi. Di HEDDA. GABLER. come una pistola carica Ferracchiati cura la regia (la dramaturg di scena è Piera Mungiguerra), lo fa con una vena creativa che caratterizza la sua poetica artistica, nell’intenzione di creare una “disattesa” rispetto al testo originale e costruire un’opera che vi si affianchi e vi proceda pari passo. «Intravedo un punto di contatto tra me e un classico – spiega il regista nelle note di sala – Mi interessa sviluppare quella trama, ma anche ripercorrere le dinamiche sceniche dell’autore, ampliandole attraverso la mia scrittura. Desidero rivivere e narrare di nuovo quella storia, intrecciandola al mio sguardo, ma sempre seguendo l’autore che, nella maggior parte dei casi, ha scritto un testo dall’architettura perfetta». L’espediente che trova consolida un meccanismo sperimentato in opere precedenti, che qui disegna un elaborato incastro di autofinzione, biografismo e drammaturgia originale, a cui mescola vicende e personaggi di un’altra opera ibseniana, Quando noi morti ci destiamo, che tornano nella rappresentazione come ospiti senza dimora. È l’urgenza a portarli sul palco, all’interno di una storia che non gli appartiene, di un racconto di cui non dovrebbero essere protagonisti; eppure, Irene (Giulia Mazzarino) e Arnold (Liv Ferracchiati) aprono e chiudono la drammaturgia e cercano di abitare la scena con i loro interrogativi, con la disillusione di una storia d’amore inconsumabile tra modella e artista, tra musa e creatore, tra capacità di cogliere o fuggire la vita per rappresentarla.
In scena la luce si diffonde, cambia le tonalità e trasforma il registro teatrale: ora siamo in un salotto borghese, fatiscente nella descrizione dei personaggi ma nella visione spettacolare composto da fragili strutture. Questo scollamento tra testo e immagine ripercorre quello che sussiste nello scontro tra apparenza e realtà: invece di una casa solida e sicura, l’ambiente finemente costruito da Giuseppe Stellato è un’effimera architettura di cartone. E di cartone sono il divano, il tavolo, l’abatjour, le sedie, il pianoforte. Di cartone è la sottile impalcatura sospesa come un alone tragico sopra i capi dei personaggi. L’arredamento, dislocato su diverse piattaforme, subisce durante la pièce incessanti trasformazioni a scandirne la divisione in atti: avanza, si compatta, si separa, retrocede. Hedda Gabler (Petra Valentini) vi si muove sopra leggera nella sua camicia da notte in delicata seta, quasi sempre senza scendervi, come se il suo spazio vitale fosse una terra calpestabile delimitata e imposta, una prigione in cui finge affabilità e accondiscendenza, mentre invece nasconde insofferenza e noia. Ma è quando subentra alla sua inappagante vita coniugale con Jørgen Tesman un uomo del passato, sregolato e affascinante come Ejlert Løvborg, che Hedda inizia a manovrare i fili della vicenda, mettendo in atto con meschinità una serie di falsi equivoci e sotterfugi.
Il dramma si compirà con due suicidi e due colpi di pistola ma la tensione insita nel personaggio femminile, giocata tra freddezza calcolatrice e perturbante desiderio di emanciparsi, resa nelle luci di Emiliano Austeri, finirà per essere mitigata dai continui sconfinamenti dell’invenzione drammaturgica nel testo originale ibseniano. Nella reinvenzione teatrale del regista, Hedda sembra rivestire un ruolo secondario: sarà infatti lo sdoppiamento di attori/personaggi a prendere ironicamente il sopravvento, dominando con protagonismo l’attenzione del pubblico, portato a ricercare da un lato la verità nell’autofinzione, dall’altro la forma del linguaggio nell’irrisolta dicotomia tra arte e vita. Così, all’interno del valoroso cast, Renata Palminiello (zia Tesman) vuole intervenire più spesso nella vicenda e aumentare la propria presenza attoriale, Francesco Alberici (Jørgen Tesman) vuole portare in scena più elementi biografici, Alice Spisa (Thea Elvsted) chiede di avere capelli dai boccoli dorati, Antonio Zavatteri (giudice Brack) discute del proprio ruolo tra attore e personaggio e Liv Ferracchiati (Ejlert Løvborg) interviene, commenta e giustifica la propria incapacità empatica per la mancata specializzazione attoriale. All’interno della sovrastruttura narrativa che viene a crearsi, cucita con abilità su più livelli testuali ed interpretativi, il sarcasmo colpisce lo spettatore partecipe del gioco, lo afferra per la lucida consapevolezza che trasmette, poiché calato precisamente nelle fratture del dramma. Ed è sullo sfondo di questa disputa attoriale, che resta il gesto ultimo di Hedda Gabler, donna sola e forse più marginale in questa nuova regia di quanto l’abbiamo mai conosciuta, ma indiscutibile «forza antisociale tesa a negare tutte le forze conservatrici su cui la società si fonda». E incontenibile. Come una pistola carica.
Andrea Gardenghi
HEDDA. GABLER. come una pistola carica
Visto al Teatro Piccolo Studio Melato di Milano – dicembre 2022
uno spettacolo di Liv Ferracchiati
con scene tratte da Hedda Gabler di Henrik Ibsen
traduzione di Andrea Meregalli e Liv Ferracchiati
dramaturg di scena Piera Mungiguerra
aiuto regia Anna Zanetti
assistente volontario alla regia Riccardo Vicardi
scene Giuseppe Stellato
costumi Gianluca Sbicca
luci Emiliano Austeri
suono spallarossa
consulenza letteraria Andrea Meregalli
lettore collaboratore Emilia Soldati
con (in ordine alfabetico) Francesco Alberici, Liv Ferracchiati, Giulia Mazzarino, Renata Palminiello, Alice Spisa, Petra Valentini, Antonio Zavatteri
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Uno spettacolo penoso. Attrici e attori che non sanno recitare. Parlano come fossero in pizzeria con gli amici. Non scandiscono le parole e usano il microfono nascondendo il viso.
Il peggio è proprio lui Liv Serracchiani, presuntuoso e confuso nelle sue esposizioni noiose.
Spettacolo che non coinvolge, non riporta alla grande opera di Ibsen e fa uso di modernizzazioni inutili tipo una canzone di Lucio Dalla cantata malissimo e il termine “cazzate”. Povero Ibsen e povera Valeria Moriconi, che interpretò Hedda con intensità in un’altra vera versione di quest’opera. Serracchiani mai più. Me lo segno.
Ferracchiati non Seracchiani mi scuso per l’errore.