L’incanto fonico. L’arte di dire la poesia è l’ultimo libro di Mariangela Gualtieri, uscito a maggio scorso per Einaudi. Abbiamo intervistato la poeta.
Per Mariangela Gualtieri la poesia è un fatto acustico e, in quanto tale, originato dalle (e inabissato nelle) profondità del corpo. D’altra parte, come scrive Jacques Lacan ne Le Séminaire XXIII. Le sinthome (1975-1976), l’orecchio è l’unico orifizio del corpo umano che «non può tapparsi, turarsi, chiudersi» e, proprio per questo, diviene canale perfetto per l’istillazione del veleno che uccide il padre di Amleto.
Se l’orecchio è dunque il luogo della vulnerabilità massima, perché non può opporre alcuna resistenza al fatto sonoro, esso è anche il luogo pulsionale per eccellenza, la via attraverso la quale il corpo accoglie la voce e si fa antro sensibile alle sue risonanze. Nel dire poetico, inoltre, il momento dell’emissione e quello dell’auscultazione si fondono: non può esistere costrutto sonoro che rimanga inascoltato (quasi a elidere la discontinuità tra il momento del costruire e quello dell’abitare, tanto attiva in Heiddeger) e l’ascolto è dunque fatto inevitabile e, insieme, condizione di esistenza.
Questa coscienza profonda, che proviene da una sapienza immanente al corpo, sembra chiudere in un unico segno l’esperienza poetica e quella drammaturgica e attorale di Gualtieri: nel 1983 ha fondato a Cesena, insieme a Cesare Ronconi, il Teatro Valdoca e da allora, oltre a scrivere testi da affidare agli attori, ha pubblicato raccolte di poesie e monologhi – Antenata, Fuoco centrale, Senza polvere senza peso, Bestia di gioia, Le giovani parole, Voci di tenebra azzurra, Quando non morivo – destinati a divenire, per mezzo della sua interpretazione, veri e propri riti sonori.
Nel suo ultimo libro, L’incanto fonico. L’arte di dire la poesia, uscito per Einaudi a maggio scorso, Gualtieri prende in esame la questione in termini più espliciti, prossimi quasi alla natura del saggio o del breviario, pur mantenendo, e anzi conducendo a elevazione, le qualità esplorative e sensoriali della sua parola.
Questo tuo libro porta come titolo il frammento di un verso di Amelia Rosselli, una poeta che riappare poi nel testo, accanto ad altri e altre: Dante, Cristina Campo, Paul Celan… Questa idea, di una confluenza di voci poetiche che coesistono alla tua e si perpetuano attraverso la tua, è molto presente nel tuo lavoro (penso a Voci di tenebra azzurra, una sinestesia che viene da Pascoli e a Ringraziare desidero che “espande” la Poesia dei doni di Borges). Le modalità di questo “passaggio di consegne” sono mutate nel tempo?
Sempre più svanisce in me la pretesa di una originalità e sempre più mi sento fatta, modellata, dalle parole che ho amato, dai versi degli altri e delle altre. Questo dialogo con loro, vivi e morti, non può cessare, è sempre vivo, atteso, invocato e dunque in continuo mutamento. Mi viene poi in mente un pensiero di Milo de Angelis in cui si afferma che l’amore è continuare il discorso di un altro. In questo passaggio di consegne vorrei mettere fra i maestri e le maestre che confluiscono in me anche la potente influenza che arriva dalla così detta natura: sottilmente, pur senza parole, opera nella mia sostanza sottile e la cambia e questo cambiamento sempre più lo ritrovo nei miei versi. Gli altri viventi ci sono maestri, non c’è alcun dubbio su questo.
Grande attenzione è rivolta all’atto di imparare a memoria la poesia, un esercizio che, nella lingua inglese e in quella francese, è implicato alla funzione del cuore: by heart e par cœur. Il modo in cui memorizziamo (dunque anche l’imperfezione, la labilità, la selettività e, a volte, l’inganno della memoria) racchiude una forma di sapienza?
Nell’andare a memoria entrano in gioco elementi che troppo spesso trascuriamo. La mia esperienza mi convince del fatto che questa pratica coinvolga in particolare l’emisfero destro del nostro cervello, la misteriosa parte in cui si deposita il canto e tanto altro che riguarda la nostra espressione – persone colpite da ictus all’emisfero sinistro non riescono più a parlare, ma cantano e formulano esattamente tutto ciò che sanno a memoria. Non so se l’andare a memoria racchiuda una forma di sapienza, certo è un’esperienza di grande attenzione e insieme di godimento del corpo che, liberando gli occhi dall’ancoraggio preoccupato al foglio scritto, può spalancarsi verso gli astanti ed essere in piena relazione con loro, con le qualità acustiche del luogo, col proprio sentire, con le parole che sta pronunciando. E soprattutto si può meglio pausare, cioè tessere parole e silenzio in un intreccio che non può essere determinato a priori ma deve avvenire in risposta ad ogni presente. L’andare a memoria cambia la partitura di un testo perché permette un ascolto estremamente più acuto, vigile e carico di godimento. Si trascura troppo, a ridosso dell’argomentazione poetica, il godimento del pronunciare parole pregnanti, necessarie e musicali, questo quasi incantesimo del riscrivere nell’oralità una formula incantatoria, per me magica, efficace come è la poesia.
Uno dei capitoli, Tecnologia sacra, pone al centro la funzione rivelativa della strumentazione tecnologica: «porta rivelazione in quell’enigma di versi che solo per squarci viene a noi, e si lascia intendere da un organo sconosciuto: lo portiamo nel dentro del dentro». Mi ha fatto pensare alle teorie di Walter Benjamin (presente anche lui, nelle pagine finali) che, nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1935), tematizza l’esistenza dell’inconscio ottico e dell’inconscio acustico. Ti appartiene l’idea che esista una dimensione della realtà che (come il “negativo fotografico”) non può essere colta attraverso la percezione “naturale” ma che viene rivelata dal mezzo tecnico?
La tecnica mi sembra sempre più venire a far parte del ‘naturale’ dell’umano. Non abbiamo artigli, corna, denti affilati, radar, morsi velenosi… abbiamo la tecnica a nostra difesa e potenziamento. Senza la tecnica non saremmo sopravvissuti come specie: si va dal sasso lanciato contro un animale più forte, all’alfabeto, genialissima invenzione tecnologica dei sapiens sapiens. La barriera fra naturale e tecnologico mi sembra sempre più ingarbugliarsi. Per quanto riguarda la strumentazione amplificante nei miei concerti, ciò che Benjamin chiamava magistralmente inconscio acustico, viene di certo stimolato da essa, forse nello stesso modo in cui operavano le strutture architettoniche dei grandi interni: si crea un bagno acustico che riconnette con l’arcaico delle caverne risonanti e col sacro delle architetture religiose.
Sempre a questo proposito, è uscito da poco uno studio della psicanalista Ludovica Grassi dedicato alla «natura musicale dell’inconscio» (L’inconscio sonoro, Franco Angeli, 2022). Grassi parla proprio di un «livello arcaico e profondo della vita psichica che si coglie con un tipo di ascolto corporeo e musicale, che include movimento, vibrazione, suoni e ritmi specifici delle funzioni somatiche, incluse la parola e la voce». Lo ho trovato molto vicino a quello che ho letto nel tuo libro, all’idea di emissione come processo di comprensione e significazione e di corpo come “cassa armonica” della parola. È anche interessante questo convergere di scienza e pratica artistica in un pensiero comune. Pensi che potrà provenire dalle scienze cognitive un risveglio di attenzione attorno a questa «arte misconosciuta»?
Mi pare che la Grassi si rifaccia all’acustemologia di Steven Feld, e comunque tutto ciò che riguarda l’udito – tenendo in bassa soglia l’attività visiva – ci rilancia molto all’indietro, prima della scrittura e anche in un mondo di lunghe notti nomadi, di lunghe ombre in cui l’udito doveva essere talmente acuito e attivo da configurarsi come primo senso per la sopravvivenza del gruppo. Mi pare che le scienze cognitive – ma tutta la scienza direi – giochino un ruolo molto importante ora, in primo luogo nel contenere il nostro narcisismo di specie e convincendoci del nostro essere appena arrivati su questo pianeta, quasi specie infante, balbettante e un po’ antiquata nella sua conformazione organica. Come ogni infante, come ogni feto imbozzolato nell’utero materno, dovremmo affidarci all’udito, educare l’orecchio già di suo così esperto di inabissamenti ad alte profondità percettive.
Vuoi parlarci del tuo percorso di scoperta “empirica” dell’Arte Orale?
Ho dedicato a quest’arte gran parte della mia energia attiva, della mia ricerca. Quasi senza rendermene conto ho risposto alla necessità di far entrare la poesia in me attraverso il suono, avvertendo da subito la grevità aggiunta dalla lettura a voce alta o anche silente. Sarebbe per un musicista una grande castrazione leggere gli spartiti senza mai suonarli. Ecco, io pativo e patisco ancora, percependo con forza la musicalità della poesia, pativo il suo mutismo e anche il doverla “suonare” leggendo lo spartito. Che grande differenza fra un musicista che legge lo spartito e uno che va a memoria, quanto più abbandono e vitalità nel secondo. Quanta più maestria e naturalezza pur nell’artificialità del diteggiare uno strumento.
Grassi scrive, a proposito del ruolo del silenzio in musica, che corrisponde al tempo del rinvio freudiano. E che «il contrario di ciò che è continuo, non è il discontinuo, ma l’inatteso». Ma la musica è induttrice di sentimenti senza oggetto e senza nome, mentre la poesia, di fatto, “nomina”. Credi che il silenzio, in queste due arti, possieda alcune funzioni comuni?
Molto bello questo inatteso pensato come contrario del continuo. È sempre risvegliante quando si trova un più preciso contrario di qualcosa.
Il silenzio è la grande miniera di ogni espressione. È un pezzo di natura che va protetto e difeso, come ogni organismo vivente, ora.
Ilaria Rossini
L’INCANTO FONICO. L’ARTE DI DIRE LA POESIA
di Mariangela Gualtieri
edizione Einaudi – Gli Struzzi, Nuova serie
ISBN 9788806254469
prezzo € 14,00
pagine XIV – 152