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Fratellina, Scimone Sframeli. Nell’assurdo, come ricominciare?

Dopo circa quattro anni di, lenta, lavorazione ha debuttato in prima assoluta al Fabbricone di Prato, Fratellina della compagnia Scimone Sframeli. Recensione

Foto di Gianni Fiorito

Una solitudine piena e una pienezza solitaria a riempire il vuoto che ci circonda, a renderlo palpabile, per averlo nelle mani e giocarci con le parole; precise e semplici, bellissime nel ritmo che pesa la quantità delle sillabe, il loro giustapporsi e seguirsi, una prosodia che diventa cantilena infantile, ma non ingenua. Fratellina, il testo di Spiro Scimone si prende spazio nella scenografia di Lino Fiorito e, diretto da Francesco Sframeli, si dispensa nelle voci dei due fondatori della storica compagnia messinese come in quelle di Gianluca Cesale e Giulia Weber, da ormai più di dieci anni a loro fianco, come in Amore, Premio Ubu 2016 come miglior progetto drammaturgico e miglior allestimento scenico.

Fratellina, una crasi senza genere, è l’ultimo lavoro del duo siculo beckettiano che è stato presentato in prima assoluta a metà dicembre al Fabbricone di Prato. La scena potrebbe essere divisa a metà per simmetria, due strutture ferrose ed esili di colore verde sono rispettivamente due letti a castello, quattro in tutto, chiusi con delle tapparelle. Letti-finestre dai quali, al suono di una sveglia, si alzano Nic (Scimone) e Nac (Sframeli). Il primo, sul letto in alto, tirando la corda fa risalire la sveglia e calare uno specchio davanti al letto in basso, dove Nac si specchia. «Schifo!», e lo ripete con la stessa fermezza e fissità che non può non ricordarci quel «Finita!»  di Clov all’inizio di Finale di partita di Samuel Beckett. Nac si guarda e si fa schifo, convintamente. E allora Nic cerca di consolarlo, a suo modo, rassicurandolo con un rassegnato «Di mattina, Nac, facciamo sempre schifo, di mattina». Ed è proprio lo schifo la realtà di fatto, e il fatto, storico, di partenza, quella convinzione abietta della riprovazione, del guardare la propria immagine nel vetro e non accettarla: l’uomo guarda l’uomo e si fa ribrezzo, metonimia per dire che è tutta l’umanità ad essere «veramente» ripugnante. In questo angolo di tempo il sole e la luna, «che non si raddrizza», sono di cartone e il fondale è un acquerello, a ricordare quello spazio siderale azzurrino che vorrebbe proiettare lo sguardo più in là ma l’occhio ci sbatte contro, perché è solo un telo senza profondità. Qui «in un posto dimenticato da tutti» ci sono Nic e Nac che vogliono «cercare un’altra realtà», dove, chissà, accettarci così come siamo e in cui essere anche migliori.

Foto di Gianni Fiorito

Nel letto in alto di destra, il Fratellino alza la propria tapparella. Nic e Nac lo vedono: «Perché i poveracci, ogni giorno che passa, aumentano di più, aumentano sempre di più e nessuno riuscirà a contarli perché, molti poveracci, non si vogliono far vedere…non vanno più in giro per non farsi vedere… Anche quel poveraccio lì». Così da due i personaggi diventano tre: vestito con giacca e cravatta, abiti che si uniformano alla complementarietà dei colori in scena, e anche lui con le pantofole ai piedi, Fratellino (Cesale) si alza in piedi sul letto e saluta Nic e Nac. Tesi tutti gli uni verso gli altri con amorevolezza trepidante e voce placida, accentata giusto per rispettare la modulazione delle frasi. E in questo incontro con il dirimpettaio che si palesa dichiaratamente quell’incrinatura nelle cose del reale, quella fragilità di vetro, illuminata da un sole di carta i cui raggi freddi e obliqui si rifrangono sui due parallelepipedi (luci di Gianni Staropoli). Queste figurine umane sono ferme nei loro rettangoli, poggiati su coperte di pile: si muoveranno solo nel primo cambio scena, ma a contraddistinguerli resta la fissità sonnolenta della postura, ricurva per uscire da quella porzione di spazio e affacciarsi oltre. Noi nelle nostre case, noi attraverso gli schermi, noi nelle meschine comfort zone. A distanza, coltivando e proteggendo «l’illusione che posso stare sereno mentre, invece, nella realtà, se mi avvicino a qualcuno, io, non posso più stare sereno…nella realtà, per stare sereno, io, mi devo allontanare, mi devo sempre più allontanare», dice Fratellino.

Foto di Gianni Fiorito

A dare completezza alla simmetria del testo e della scena che lo rappresenta, ecco Sorellina (Weber) che alza l’ultima tapparella per rispondere all’angoscia di Fratellino preoccupato per lei perché suo marito, che aiutava gli altri regalando i suoi vestiti, è stato chiuso nell’armadio da due individui e venduto al mercato dell’usato. Nella difficoltà di relazionarsi, nella reverenza di parole usate per giungere all’altro senza però invaderlo nella sua intimità, all’interno di una dinamica educata della relazione, la necessità di salvare il cognato di Fratellino per tirarlo fuori dall’armadio diventa l’obiettivo attorno al quale i quattro si stringono per dimostrare vicendevolmente la loro empatia. Tale sentimento è infatti il filo che tiene uniti i protagonisti, che sono in ascolto di quello che si dicono e cercano di soddisfare i desideri e placare i timori, gli uni degli altri. «Io, gli insulti pesanti non li sopporto più…io, quando vengo insultata pesantemente, soffro tanto, soffro davvero tanto». La bruttezza dell’esterno irrompe a più riprese nella finzione di questo altro mondo in cui la cortesia della lingua, che ha bisogno di tornare sugli stessi significati delle parole per ripeterle ad alta voce affinché tutti ne comprendano l’intenzione, possiede una funzione consolatoria e umana, carezzevole appunto: «Noi, adesso, come grazia, vorremmo avere un semplice tocco…vorremmo avere un tocco leggero, come una carezza». Ed è proprio una mano tesa verso la confusione e l’incomprensione di questi tempi, Fratellina, è l’assurdo ragionevole e lungimirante che spiega quello che non riusciamo a capire delle assurdità del reale.

E dove trovare questa cura? In questo posto dimenticato dove però si possono «ritrovare tante cose dimenticate», o fuori di qui? Nic, Nac, Fratellino e Sorellina la troveranno in un altro luogo, abbandoneranno questo per entrare in un’altra, assurda, dimensione, quella dell’armadio, un topos della narrazione d’infanzia, in cui sono custoditi altri mondi, potenziali e sconosciuti, nei quali però non si ha la paura di stare insieme. «Sì Nac, il silenzio ha ancora voglia di dirci qualcosa. Se ritroviamo di nuovo quei colori noi potremmo ricominciare a colorare tutto, a colorare tutte le cose sbiadite».

Lucia Medri

visto al Teatro Fabbricone, Prato – dicembre 2022

FRATELLINA

di Spiro Scimone
regia Francesco Sframeli
con Francesco Sframeli, Spiro Scimone, Gianluca Cesale, Giulia Weber
scene Lino Fiorito
costumi Sandra Cardini
disegno luci Gianni Staropoli
assistente alla regia Roberto Zorn Bonaventura

in collaborazione con Istituzione Teatro Comunale Cagli

produzione Teatro Metastasio di Prato, Compagnia Scimone Sframeli

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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