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Questa recensione fa parte di Cordelia, dicembre 2022

Giovanfrancesco Giannini fa della scena l’esatta riproposizione della propria interiorità: lo spazio fisico è costruito con supporti video, che a loro volta sono funzionali a evocare lo spazio emotivo rendendolo nello stesso momento comprensibile e condivisibile. L’unico vero elemento scenico e narrativo è un corpo che si scompone e ripropone; un corpo che è evidentemente maschile ed evidentemente tutt’altro. Un corpo che sfugge a quello che dovrebbe essere per chi lo possiede e per chi lo osserva: in contemporanea alla clip di un’esibizione di Dalida, il corpo imita le movenze e le interpreta. Seguendo gli stimoli dei video, il corpo assume forme sempre diverse ma con un volto e uno spirito sempre riconoscibile: diventa agonistico e poi mortificato. Allora il corpo si riconosce in tanti altri corpi e diventa il portavoce di martirii: genuflesso, scagliato, colpito, affannato, affaticato, violentato; esattamente come i corpi in video, sconosciuti e indesiderati. Per effetto perturbante, le percosse diventano la base per una coreografia, forse perché in fin dei conti tutto può diventare bello. E se tutto è bello, allora anche quel corpo può esserlo: basta eliminare quell’unico elemento di distrazione e nasconderlo. Sullo schermo appaiono in sequenza le donne più famose della storia dell’arte; quei corpi rosei e morbidi, simboli e modelli, quelli sì conosciuti e ammirati. Perché non diventare quei corpi? Perché non riprodurli col proprio? Perché non sfuggire alle evidenze per offrirsi con generosità agli altri? (Valentina V. Mancini)

Visto alla Sala Assoli, Napoli; Crediti Un progetto di Giovanfrancesco Giannini; Disegno luci Valeria Foti; Produzione Körper | Centro Nazionale di Produzione della Danza; In coproduzione con Ariella Vidach – AiEP, Santarcangelo Festival

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