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Umbria Factory Festival. La fragilità della cura

Umbria Factory Festival, seconda edizione del festival ideato da Zut! di Foligno con la collaborazione di La Mama International di Spoleto, un’occasione per riflettere sul concetto di residenza, com’è cambiato negli anni e cosa offre oggi agli artisti e al dialogo con la comunità. 

Edipo Re (Ph. Elvio Maccheroni)

Una volta le residenze erano una terra di nessuno, o di pochi, impegnati a far vivere i territori di presenze saltuarie, apparizione di artisti in paesi molto spesso privi di un substrato di conoscenza a cui aggrapparsi. Il risultato era allora una sorta di invasione aliena in cui le due civiltà – quella locale e quella artistica – si incontravano e, forse, a volte, si capivano. Ma da qualche anno a questa parte, da quando il sistema residenziale è stato professionalizzato e regimentato, e soprattutto da quando gli operatori hanno iniziato a occuparsi maggiormente di questa relazione pericolosa, la situazione si è modificata e le residenze sono diventate il fondamento stesso dell’esperienza artistica, da un lato per aver mantenuto quella vocazione maieutica che dal nucleo permette di sviluppare l’idea, dall’altro per aver aperto un confronto più maturo con i territori, fornendo un supporto continuativo di affiancamento culturale che sia sì, davvero, una presenza costante e duratura. In una parola, i centri residenziali hanno posto “cura” nella relazione.

Tra le regioni italiane più attente a questa trasformazione, l’Umbria si è segnalata per aver dato vita a progetti importanti di sostegno artistico, un po’ per la vocazione storica dei suoi borghi che dal medioevo esprimono il senso di comunità cittadina, un po’ per la posizione di collegamento centrale verso ognuno dei punti cardinali che irradiano il resto d’Italia. Poteva allora, questo nuovo progetto di coesione tra centri residenziali umbri, chiamarsi con un nome diverso da C.U.R.A.? Il Centro Umbro di Residenze Artistiche dal 2018 tiene assieme cinque soggetti del territorio che a vario titolo si occupano di spettacolo dal vivo (e sono Gestioni Cinematografiche e Teatrali/ZUT! di Foligno, La Mama Umbria International di Spoleto, Indisciplinarte srl di Terni, Centro Teatrale Umbro di Gubbio e Micro Teatro Terra Marique di Perugia), una sorta di officina a più stabilimenti che dispiega il concetto di produzione in un circuito virtuoso, capace di permettere all’espressione artistica di maturare quanto basta per prendere poi la via della scena.

HOW TO_just another Bolero

È da questo humus culturale, dunque, dall’intenzione di mescolare competenze, linguaggi e pubblici, che da un paio di stagioni ZUT! di Foligno – luogo simbolo del territorio come segnalava Lucia Medri già nel 2016 – ha dato vita a Umbria Factory Festival che, da questa edizione 2022, si avvale della collaborazione de La Mama Umbria International di Spoleto. Il festival allora non è più, come accadeva un tempo, un happening, un corpo estraneo lasciato per qualche giorno ad animare una città, ma il risultato di un percorso vitalizzante che affiora quando il pubblico è pronto ad accoglierlo, quando cioè l’intero corso di attività giornaliere di contatto e presenza richiede una apertura della scena a uno sguardo più vasto. Questa attenzione è particolarmente evidente nei lavori presentati: la maggior parte (tra quelli che ci capitano di fronte) hanno come segno comune la precarietà, la forma aperta e non già incasellata in una definizione autoritaria di spettacolo, il desiderio dunque di offrire un’occasione per discutere, quando sembrerebbe di doverli riporre nella propria officina, gli strumenti dell’arte.

Gilgamesh (Ph. Elvio Maccheroni)

Questa cura, questa premurosa forma di attenzione all’oggetto artistico, emerge soprattutto nei lavori di artisti che hanno cercato di abitare lo spazio di prossimità tra l’arte e la comunità; ne è un esempio Un solo respiro, performance collettiva curata da Marco Chenevier tra le strade del centro cittadino, che si espande nello spazio attorno e confronta continuamente la corporeità pensata della coreografia con il movimento involontario dei passanti, talvolta curioso e altre derisorio, continuamente in bilico tra cercare e rifiutare una relazione. Una ancor più profonda premura per la corrispondenza e la delicatezza è nel progetto presentato in forma di studio che C.L. Grugher dedica all’Edipo Re di Sofocle, abitato da una coscienza dell’opera in cui già Pier Paolo Pasolini aveva rintracciato quel legame intimo, segreto, tra fragilità (ma lui la chiama poeticamente “innocenza”) e l’evidenza inaggirabile della conoscenza. In una scena spogliata di idee soverchianti vanno i corpi segnati da una ferita più o meno visibile, attori che non sono lì ad interpretare personaggi ma che sono semplicemente persone, arricchite da una sofferenza almeno pari alla propria sensibilità; Edipo è allora un testo indicibile, se ne avvertono soltanto gli echi in altre parole, quelle urgenti che il dolore fa emergere da un vuoto che non appare, ma che forte si avverte in queste voci.

Gilgamesh (Ph. Elvio Maccheroni)

Prima che la serata concludesse negli spazi di Zut con il Gilgamesh di Fossick Project, affascinante attraversamento dell’epopea sumera che mette in dialogo la ricerca musicale elettronica di Marta Del Grandi con le illustrazioni live di Cecilia Valagussa, la danza di Emanuele Rosa e Maria Focaraccio ha portato invece una proposta più compiuta: How to – Just another Boléro si sviluppa dal capolavoro di Ravel che stimola a partire da un loop una serie di immagini coreografiche, due corpi si cercano, si completano o si respingono secondo naturali accadimenti dell’intreccio umano, si lasciano scorrere pelle contro pelle perché sia infine indistinto il punto di contatto e distacco tra l’uno e l’altra. È strano come sembri proprio questa duplicità del contrasto l’immagine più precisa per definire la ricezione di un festival performativo artistico all’interno di una comunità: corpi che si avvicinano curiosi di parlare lingue diverse, che si respingono per la stessa caratteristica del non capirsi, a fronte delle lingue diverse. La soluzione? Considerare che la causa e l’effetto, l’amore e la distanza, siano un’unica coinvolgente danza.

Simone Nebbia

Umbria Factory Festival, Foligno – Ottobre 2022

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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