Milanoltre sembra essere tornato agli antichi splendori, con una programmazione attenta anche alla disseminazione della performance nei luoghi della città, alla formazione delle nuove generazioni in parallelo a un programma pieno di rischiose novità. Uno sguardo su Kristo di Roberto Zappalà, Heres: nel nome del figlio di Ezio Schiavulli e sul lavoro di Frédéric Tavernini tra masterclass e spettacoli.
Così tante sedie in danza non si vedevano dagli anni 90 del secolo scorso. Con pure tutto il tempo lungo richiesto per la loro disposizione. Roberto Zappalà poteva dedicarsi a replicare il grande e meritato successo dell’ultimo lavoro su Bach, con infinite variazioni di quel modello compositivo, in cerca di nuovi allori. Invece, colpisce il coraggio (che simpatizza con la sprovvedutezza) di volersi avventurare in un allestimento tutto teatrale, teatro fisico un po’ «vecchia scuola» nonché di grande pretesa drammaturgica, gettando lo sguardo ironico e feroce sulle miserie dell’umanità nostra, nelle forme di quei «Cristi inferiori di oscure speranze» di cui anche parlava Apollinaire. Non ha funzionato granché, va detto sùbito, e sola resta la grande onestà, anche scellerata ma lecita, di assecondare un obbligo meditativo, una necessità compositiva sentita dal coreografo siciliano come indifferibile.
Kristo – quadri di dubbia saggezza ha debuttato in prima assoluta al Festival Milanoltre, mirabilmente interpretato da Massimo Trombetta, il quale sopporta su di sé il peso punitivo di un testo verbosissimo e interminabile, recitato tutto enfacé, ricolmo di citazioni pensosissime ma sospese ogni tanto da battute ironiche e dubbi rassicuranti, cucito insieme da Nello Calabrò. Un kafkiano povero cristo d’oggidì, «penitente quasi come un San Gerolamo», cagante pensoso (in scena c’è un water…), rabbioso e sanguinolento, ma anche ciclista (d’epoca Alfred Jarry) rockstar e quant’altro, circondato solo da «alcune donne in transito» (di volta in volta suore, puttane etc.). Io credo che in questa Babilonia, Roberto Zappalà, che è uomo di frontiera e di trincea, ci ricorda di dubitare, di non rivendicare insegne, dogmi e integralismi incapaci di raccontare la complessità che siamo, ognun* di noi. Complessità fatta anche di viltà e di miseria, ma che sono tutte proprietà dell’umano.
Di grande interesse performativo è stato invece il lavoro di Ezio Schiavulli, dal titolo Heres: nel nome del figlio. Lui stesso è in scena a combattere con il gruppo di batteria e percussioni di Donato Manco e Dario De Filippo (su composizioni originali di Anne Paceo), nei limiti drammaturgici, ideologici e idealistici della sindrome di Peter Pan e della solitudine di Telemaco nelle nuove generazioni. (Ma di nessun interesse, occorre ribadire, l’intervento introduttivo della psicanalista di turno che ha prevaricato la bellezza della visione, costringendone la comprensione attraverso la difesa di una lettura edipica, indotta e repressiva, compromettendo l’aspetto in assoluto meno negoziabile di uno spettacolo di danza: la libertà di vederci ognun* quel che meglio può, e crede). Questo di Schiavulli è dunque un bellissimo assolo percussivo e di grande proposta fisica, in cui il rapporto padre-figlio esplode in una fisicità dinamica, piena di mille soluzioni relazionali e continuamente in dialogo con lo spazio. In una mirabile mobilità che non avrebbe dovuto asservirsi a questioni poco esigenti, in termini performativi, come l’eredità transgenerazionale o la lettura di Recalcati. Il corpo di Schiavulli in scena avrebbe dovuto dissolvere ogni ideale regolativo del sistema paterno; il corpo di Schiavulli in scena avrebbe dovuto rompere ogni limite, e liberarsi del Padre-Capitale con tutta la sua oppressiva economia del desiderio; il corpo di Schiavulli in scena avrebbe dovuto rendere riconoscibile, finalmente, una nuova soggettività. Senza padre.
«When engage your body you learn where you are going»: è la consegna d’avvio della masterclass tenuta da Frédéric Tavernini per i centri di formazione associati al festival: «ognuno costruisce la propria estetica»; «la tecnica è per tutti mentre la personalità è solo per gli esseri umani»; «occorre servire la coreografia come persone e non come burattini». Questi sono gli statement attraverso i quali Tavernini ha fatto lezione, in un gioco di composizione e scomposizione di pose e microsequenze balanchiniane, per i felicissimi partecipanti, ma poi perfettamente confermati in Portrait of Frédéric Tavernini, l’assolo che gli ha cucito addosso Noé Soulier, accompagnandolo al pianoforte in un collage musicale approntato da Matteo Fargion. Mentre nel dittico Le Royaume des Ombres e Signe blanc per il ballerino Vincent Chaillet, Soulier fa letteralmente esplodere la consolidata relazione fra parola e gesto, fra vocabolario del movimento e significato interpretativo, pur attingendo costantemente alla tradizione accademica del balletto ma in una nuova logica capace insomma di disordine e di rivolta.
Stefano Tomassini