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Sulle frequenze della realtà. Prima Onda a Palermo

A Palermo si è tenuta, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, la terza edizione di Prima Onda Fest. Diretto da Sabino Civilleri, e curato da Manuela Lo Sicco, Giovanna Velardi e Valeria Fazzi, il festival si è svolto nei luoghi di una periferia “non povera, ma poco frequentata”, come giustamente osservato da Civilleri.

Foto di Remigio Schifano e Giovanna Cusenza

Il Prima Onda Fest di Palermo, giunto alla sua terza edizione, è frutto della sinergia tra diverse realtà. L’associazione Genìa, promotrice e organizzatrice dell’evento, comprende vari artisti e collettivi, quali: la compagnia Civilleri/Lo Sicco (di Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco, tra i fondatori della SudCostaOccidentale di Emma Dante), PinDoc, diretta da Giovanna Velardi (qui curatrice della sezione dedicata alla danza), Area Madera di Claudio Collovà. Cosa non da poco, riuscire a portare avanti un discorso collettivo in un contesto, quello siciliano, non sempre favorevole al dialogo (ne parlavamo qui). Rispetto alla precedente edizione, diffusa in differenti aree urbane, quest’anno Prima Onda si è concentrata sull’area sud-est di Palermo. Qui i contributi del FUS, mediati dal Comune a favore degli spettacoli dal vivo nelle periferie, hanno innescato varie iniziative volte al ripensamento delle borgate marinare marginalizzate prima dal boom economico, poi dalla gentrificazione. In genere, pare che gli operatori si stiano ponendo rispetto a tale opportunità in modo consapevole, in un’ottica rivolta non solo al consumo immediato, ma alla crescita sul medio-lungo termine. Per Prima Onda ciò ha comportato la scelta di spazi certo non usuali al pubblico consueto: i quartieri Brancaccio, Romagnolo, la foce del fiume Oreto, tappe di una topografia negata, hanno ospitato performance, incontri e laboratori aperti alla cittadinanza. Non a caso, la selezione di spettacoli ai quali abbiamo assistito, curata da Manuela Lo Sicco (Ubu 2021 come miglior attrice), seppur nella varietà degli esiti, si è presentata come momento di riflessione politica sul ruolo dell’individuo nel contemporaneo, sondato attraverso poetiche e media molto differenti.

Foto di Remigio Schifano e Giovanna Cusenza

Nel buio della sera, la sala dell’ecomuseo Mare Memoria Viva si riscopre luogo di nuove possibilità. Da anni, la struttura si offre quale strumento di “rigenerazione umana” attraverso una didattica finalizzata al coinvolgimento partecipe degli abitanti di zona. Qui si è tenuta Josefine, della formazione Bartolini/Baronio. Lo spettacolo nasce da una domanda: qual è il ruolo del teatro, e in genere delle arti, nel presente? Bartolini e Baronio hanno trovato la risposta in un atto responsabilità: l’invito alla lotta, all’opposizione attiva. Josefine, ovvero il popolo dei topi è il titolo di un racconto kafkiano, la cui protagonista è una cantante capace di indursi e indurre in uno stato di grazia: anche una colonia di topi, impegnati nello svolgimento di mansioni continue e disumanizzanti. Bartolini, seduta a uno scrittoio schiarito da un lume, legge e commenta i brani kafkiani, quasi con affetto nei confronti delle parole e di chi le ascolta. Intanto, Baronio agisce sulla scena come ratto incerto, impegnato in attività minime e ripetitive, tratteggiate con il gusto di una delicata pantomima. Ma quando il canto, l’arte, aprono un varco di bellezza nell’acritica monotonia imposta dal sistema, Baronio si spoglia di orecchie e addome posticcio, diviene un uomo con la sua esperienza, le sue speranze tradite e forse ancora realizzabili. La performance del collettivo cileno LasTesis, El violador eres tu!, contro la violenza di genere, viene proiettata alla fine sul velatino alle spalle dell’attore, che a sua volta la ripete al di là della cortina. È un memento: l’arte deve tornare a essere intervento nella realtà delle persone.

Foto di Remigio Schifano e Giovanna Cusenza

Josefine pone l’esperienza di Bartolini e Baronio all’interno di un discorso più ampio, nel quale l’interprete si offre quale rappresentante di una classe intellettuale chiamata all’azione. Ben più complicato appare il senso dell’esperienza personale raccontata da We are not Penelope di Vuccirìa Teatro. Joele Anastasi, Nuno Nolasco, Antonio L. Pedranza descrivono la loro relazione sentimentale mettendosi a nudo, in senso letterale, sul palco. I performer dialogano, tra sigarette e fiori come in una specie di film almodovariano, intorno a se stessi, imponendo agli spettatori una seduta psicoterapica che utilizza il palco per compiersi. Si chiedono se questo possa considerarsi un atto politico e, sulla base degli applausi, scroscianti, pare che il pubblico sia stato convinto. Ci giriamo un po’ perplesse per indagare le espressioni dei presenti. Qualcuno capta l’indecisione: «E tu chi saresti? La giuria?». Interessante osservare come, in fondo, i vecchi siano stati superati da nuovi principi di autorità, comunque escludenti il dubbio. La sottomissione della scena alle proprie esigenze psichiche forse riesce a imporre nuove narrazioni, ma al contempo può ottenere un risultato imprevisto: l’ulteriore affermarsi dei luoghi di cultura canonici quali luoghi deputati alla legittimazione delle espressioni umane. Masturbarsi pubblicamente, cosa che Antonio L. Pedranza ha fatto o mimato (è lo stesso), di spalle, sul palco, è un atto consentito dal solito, tacito accordo che regola il gioco teatrale: è la scena a concederlo, fuori da essa non sarebbe possibile e Pedranza sarebbe oggetto di adeguate cure. Lavori come We are not Penelope non destrutturano alcuna forma artistica tradizionale e, ammettiamolo serenamente, superata la stagione neoavanguardistica, esternazioni di questo tipo non sconvolgono più nessuno: il teatro ha infine incorporato tali bravate, riducendole a consuetudine. Comunque sia, esiste una differenza, nemmeno troppo sottile, tra esibirsi ed esibizionismo: è la questione, assolutamente attuale e contemporanea, che We are not Penelope pone suo malgrado.

Foto di Remigio Schifano e Giovanna Cusenza

Su tale tema si soffermano, invece consapevolmente, i Teatringestazione, presenti con il loro “dispositivo” Not Found, adottato nell’ambito di Monàs. La sostanza reale delle cose. Nel lavatoio del Centro di Accoglienza Padre Pio, a Brancaccio, ambiente rustico, in pietra, si è tenuta la prima fase di questo progetto. Anna Gesualdi premette: «Ci teniamo a precisare che non si tratta di uno spettacolo». A turno, i presenti si osservano e si lasciano osservare, proiettati su una coppia di schermi posti uno di fronte all’altro: i loro movimenti appaiono rallentati fino a sparire. Ciò che veniva osservato era soltanto una parvenza della realtà, una “micro-società” compresa entro le volatili coordinate di uno spazio-tempo inesistente. Il dispositivo, nato dalla lettura di Debord, ha oltretutto messo in rilievo la propensione della persona comune rispetto alla possibilità di esibirsi. Con sempre maggiore facilità le persone coinvolte indugiavano davanti alla loro immagine, articolando i movimenti in cenni di danza sempre più controllati: chi è entrato nel dispositivo ne è uscito con difficoltà, trattenendosi oltre i tempi previsti. Nonostante la natura concettuale dello strumento, Monàs ha coinvolto un pubblico ampio e particolarmente interessato. Se la società dei consumi spinge verso forme di spettacolo nei quali l’uso della tecnologia è finalizzato al solo intrattenimento, Teatringestazione impugna questi strumenti per indagarne criticamente i presupposti. Una scelta sulla quale riflettere.

Tiziana Bonsignore

Prima Onda Fest, Palermo – ottobre/novembre 2022

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