Recensione. Ferito a morte è il più conosciuto e riconosciuto romanzo di Raffaele La Capria, scrittore, saggista, giornalista napoletano scomparso lo scorso giugno, pochi mesi prima del suo centesimo compleanno. Dopo il debutto al Mercadante di Napoli a ottobre – al margine del quale è nata una serie di incontri di approfondimento tematico – un allestimento con la regia di Roberto Andò e l’adattamento di Emanuele Trevi è in scena a Torino, per arrivare poi a Perugia, Roma,Milano, Cesena e genova
Napoli è regno unico che ne contiene miriadi di altri, dimensione definitiva che schiude una serie di piani sfumati e sfumanti l’uno nell’altro, dominio i cui confini si abbattono alle porte di piccoli, sterminati imperi introflessi. Una moltitudine e un deserto, la profondità dei fondali e la vertigine del cielo che prova a farsi spazio nelle feritoie urbane, la luce adamantina a ferire la vista, il buio degli antri sempre nuovi a sibilare dietro la nuca. Quando Raffaele La Capria vince il Premio Strega con Ferito a morte è il 1961, a distanza di tempo racconterà come per gli anni successivi, incontrando vari giurati, si troverà costretto a sentirsi dire da ciascuno di essere stato determinante per la vittoria di un solo punto (su Giovanni Arpino) “facendo finta di crederci”. Il romanzo esce quando La Capria si è già trasferito a Roma, grossomodo nello stesso periodo in cui a muoversi verso la Capitale saranno anche Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Pasquale Prunas. A balzare agli occhi, allora come adesso, sono alcune delle peculiarità che hanno fatto di Ferito a morte un caposaldo della lettura italiana del Novecento e lo hanno facilmente assimilato ai canoni dell’avanguardia letteraria, senza tuttavia sottrarlo dal divenire un’opera trasversale: romanzo di formazione, ritratto socio-urbano, spaccato napoletano di cui molti identificano il macroverso ne Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese. La città di Ferito a morte non è quella neorealistica, non è quella dei vicoli disperati, delle umanità diseredate dell’umano, delle chiamate da un balcone o da un basso all’altro. Almeno così sembra. Perché è una Napoli che pare venir fuori da certe foto in bianco e nero, cadere dagli album di una vita, dai terrazzi con l’affaccio al Golfo, qualche calcio al pallone, la mano sulla spalla di un amico a favore della macchina fotografica e il sorriso che si proietta sulla scapola lungo un braccio retroflesso fino a una giacca estiva mantenuta solo con un indice, i raffioli del Bar Moccia, l’inflessione che cantilena tra una parola in italiano e l’altra per sfociare solo raramente in qualche espressione o termine di vernacolo un po’ frusto, in genere utile a sottolineare o enfatizzare un momento dialettico, i circoli di ritrovo tra i già nobili, i non più ricchi e gli ormai alto-borghesi, magari qualche partita a chemin de fer, la salsedine sulla pancia che si vede chiara controsole asciugandosi sulla barca dopo un bagno estivo, l’attrezzatura da pesca, le vacanze a Capri, l’attesa della funicolare che sale per vedere finalmente comparire il viso atteso, la piazzetta e Marina Piccola, Anacapri dove le case costano meno.
Oggi arriva sui palcoscenici con un cast di una quindicina di attori diretti da Roberto Andò e con l’adattamento di Emanuele Trevi, in una coproduzione di Teatro di Napoli, Fondazione Campania dei Festival, Ert e Teatro Stabile di Torino. Il lavoro nasce prima della scomparsa dell’autore avvenuta lo scorso giugno e su suggerimento dello stesso, quindi nulla pare avere a che fare con iniziative celebrative tout court. Nell’intervista di Attilio Scarpellini contenuta nel programma di sala Trevi, che ha intrattenuto con La Capria (Dudù come lo chiamavano gli amici) un rapporto di anni, dice: «[…] Raffaele per me è stato un po’ come Lucignolo sulla strada di Pinocchio, che lo tenta, ma anche che lo converte e lo costringe a cambiare strada. […] non si tratta di usare il teatro per leggere un testo, men che meno di ritagliare dei dialoghi. Si tratta di offrire un punto di vista che nella letteratura e nel cinema non c’è, di leggere da un punto di vista drammaturgico, cioè attraverso la concretezza artigianale del teatro […]». In questo senso l’orditura di Trevi sceglie di non stravolgere un nucleo di partenza già complesso, e permette di trovare e ritrovare diversi elementi conosciuti a chi abbia frequentato il romanzo una o più volte, seguendone bene o male l’articolazione, fatte salve alcune interpolazioni dovute alla traduzione appunto della narratività letteraria in linguaggio della scena, alcune elisioni e delle micro sfasature come la compressione che interessa il finale.
Si direbbe che il protagonista del romanzo sia Massimo De Luca, il suo sentimento per Carla, la sua casa a Palazzo Medina (che poi è Palazzo Donn’Anna), la preparazione e la vigilia della sua partenza per Roma, quindi vi si vedrebbe un alter ego dell’autore. Oppure si direbbe che protagonista sia il tempo, che passa nella distinzione tra storico e cronologico, che torna nella chiusura di un cerchio, o che sia “la città che ti ferisce a morte o t’addormenta”, Napoli e il suo mare, l’impoverimento dei fondali, i luoghi che la puntellano durante e subito dopo la Guerra, la trasformazione della morfologia urbana subita sotto le mani di Achille Lauro. Ancora si potrebbe dire che ad essere davvero protagonista del romanzo sia la classe dirigente e la “classe media”, le abitudini, il circolare barcamenarsi tra un habitus menti e l’altro, una certa stasi e un certo disinteresse prospettico, una sostanziale incapacità di riflessione e comprensione storico-sociale, un’inclinazione politica invertebrata. Non si sbaglierebbe in nessun caso e altri, forse, se ne potrebbero aggiungere. Sarà questa l’alchimia di un testo che tiene insieme nelle sue pur poche pagine la malinconica armonia del “poetico litigio” in cui La Capria sintetizza il suo rapporto con Napoli e l’inclemenza di una bomba fatta esplodere dall’interno, l’intelligenza di chi sa che è più efficace decostruire un sistema da dentro che picconarlo da fuori, che l’efficacia dell’esposizione spesso non necessita della violenza della sconfessione. A rendere Ferito a morte un testo poroso, permeabile alla performatività, alla “teatrabilità” sarà la musica che si plasma nella parola, organizzata strutturalmente in modo talmente specifico da essere osservabile dalla suddivisione testuale alla scelta dei lemmi (basti pensare solo all’utilizzo di termini tecnici nelle descrizioni dedicate alle sensazioni uditive di Massimo) sino all’utilizzo della punteggiatura, e che si avvera nella polifonia delle voci, nella versificazione caleidoscopica delle prospettiva e delle individualità narrative. Eppure il testo ha conosciuto poche trasposizioni.
All’ingresso in sala, oltre l’arco di proscenio, un letto singolo campeggia avanti a destra, affiancato da un comodino su cui poggia un lumetto di fattura liberty. Quando il sipario si apre prende corpo una dimensione la cui definizione progressiva si gioca in un complesso di proiezioni, rifrazioni e azioni dirette, una successione che procede per singole situazioni e si riannoda al filo unico di un racconto intermittente, vocato a una suggestione estetica quasi memoriale. Una balconata incorniciata da una lastra di specchi inclinati che ne azzerano la parzialità visiva rialzata e frontale sormonta il (primo) livello del palco in cui prende corpo un sistema per quadri ove strutture semoventi atte a definire le singole situazioni avanzano e arretrano, scompaiono, si aprono e si chiudono, si ridefiniscono con qualche suppellettile come a voler costruire specifiche scatole ottiche. Le proiezioni si stagliano su pannelli di velato semitrasparente, mettendosi a tratti in reazione con la composizione sovrapposta dell’immagine all’occhio, per definire un’atmosfera, forse un immaginario. Un’architettura scenica discretamente complessa, che rende dinamico lo spazio non solo nelle intenzioni e cerca di restituire le scene d’interno e quelle d’esterno. Una certa cromia cangiante o certe sfumature chiare si imprimono più nette su alcune brune al fondo col beneplacito della luce chiara naturale che si alterna ai toni freddi e quelli caldi di scene specifiche. È un mare scuro quello che Andò sceglie nei video di Luca Scarzella, apparentemente lontano dall’iridescenza che si trae da certe pagine di La Capria e che pure forse riprende una distinzione contenuta ne L’armonia perduta: «I giorni dell’acqua chiara erano per me la Felicità, quella che possedevo e non so più dire come fosse. Era un rapporto tra la chiarità dell’acqua e il mio cuore, tra la bellezza della giornata e la mia aspettativa. […] Ormai i giorni dell’acqua chiara, quei giorni, sono finiti e non solo perché il mare di Napoli non è più quello di una volta ma perché anche io non sono più quello di una volta, e per me ci sono ormai soltanto i giorni dell’acqua torbida […]». A un cast numeroso e “spesso”, compatto, ma per un verso anche “eterogeneo”, si demanda il compito di tenere la misura generale di una qualità della presenza che beneficia dell’esperienza e della buona centratura di interpreti come Andrea Renzi e Paolo Mazzarelli e forse risente a tratti o di un’affettazione di maniera o della spinta su stilemi di ammiccamento attoriale un po’ sfiancati, senza tuttavia crolli eccessivi.
In una leggibilità generale abbastanza omogenea rimangono agli occhi di chi scrive un paio di difficoltà su alcune aggiunte che ineriscono alla semantica teatrale messa a confronto col testo di partenza. Se infatti lo sdoppiamento scenico di Massimo che vede il Massimo adulto (Andrea Renzi) distinto dal Massimo giovane (Sabatino Trombetta) risulta immediatamente comprensibile e di base si articola lungo tutta la durata della messinscena senza stridori in una costruzione alternata calibrata con consapevolezza, più oscura resta la dinamica del momento del pranzo domenicale, ove ciascuno siederà a un tavolo singolo. Tale restituzione del solipsismo posturale a riprodurre l’arroccamento o forse diremmo la chiusura a un ascolto, alla condivisione reale o semplicemente l’incapacità di distacco dalla propria prospettiva rischia di apparire quasi disorientante nei regolari e continui cambi di posto. Parimenti resta sospesa la necessità di anticipare con un passaggio sulla balconata assistito dal cameriere del circolo la comparsa della figura della nonna nella scena immediatamente precedente quella iniziale dello stesso pranzo. Tuttavia, se il romanzo di La Capria è ancora in grado, più di sessant’anni dopo, di aprire e raccontare una ferita, la reale domanda da porsi e che qui rimane sospesa è su quanto questo allestimento sia in grado di parlare al presente, di far saltare dall’interno il sistema dello sguardo rassicurato degli spettatori delle “platee degli stabili” per rivolgerlo verso sé stessi nel dubbio di quanto sia profonda quella ferita, o di quanto sia addormentata.
Marianna Masselli
Prossime date in calendario tournée
Torino, Teatro Carignano, 8 – 13 novembre 2022
Perugia, Teatro Morlacchi, 16 – 20 novembre 2022
Roma, Teatro Argentina, 10-15 gennaio 2023
Milano, Teatro Strehler, 17-22 gennaio 2023
Cesena, Teatro Bonci, 26 – 29 gennaio 2023
Genova, Teatro Ivo Chiesa, 8 – 11 febbraio 2023
FERITO A MORTE
di Raffaele La Capria
adattamento Emanuele Trevi
regia Roberto Andò
con Andrea Renzi, Paolo Cresta, Giovanni Ludeno, Gea Martire, Paolo Mazzarelli, Aurora Quattrocchi, Marcello Romolo, Matteo Cecchi, Clio Cipolletta, Giancarlo Cosentino, Antonio Elia, Rebecca Furfaro, Lorenzo Parrotto, Vincenzo Pasquariello, Sabatino Trombetta, Laure Valentinelli
la voce di Roger in inglese è di Tim Daish
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Daniela Cernigliaro
video Luca Scarzella
suono Hubert Westkemper
coreografie Luna Cenere
aiuto regia Luca Bargagna
assistente alle scene Sebastiana Di Gesù
assistente ai costumi Pina Sorrentino
direttore di scena Sandro Amatucci
capo macchinista Fabio Barra
macchinisti Nunzio Romano, Domenico Riso
datore luci Giuseppe Di Lorenzo
elettricista Diego Contegno
fonico Italo Buonsenso
tecnico video Alessandro Innaro
sarta Francesca Colica
amministratrice di compagnia Angela Carrano
foto di scena Lia Pasqualino
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Fondazione Campania dei Festival, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale