Questa recensione fa parte di Cordelia, ottobre 2022
Lyotard in Discours, figure (1971) parla di una «base silenziosa nella vita della carne»: l’aprirsi, in essa, di uno spazio vacante, l’entità (e la coscienza ferma) di un ulteriore, di qualcosa che superi l’idea di corpo come luogo di elezione dell’evento. È attorno a una simile ipotesi che Satiri di Virgilio Sieni sembra muovere l’inchiesta, impegnando il nostro sguardo in un esercizio di trascendenza. I danzatori, Maurizio Giunti e Jari Boldrini, sulla scena nuda disegnano sequenze di grazia che movimentano le forme della statuaria greca, richiamano la densità dei gruppi scultorei, il creaturale e doloroso librarsi delle carni. Ma vi è, soprattutto, il ricomporsi di un’armonia naturale, che pare avvolgere i corpi chiudendo, in un segno superiore, le corrispondenze accanto agli scarti, alla dualità insanabile, ai tratti nei quali la dialettica si fa più scoscesa e più tragica. Il segno superiore è musicale: il terzo corpo, della violoncellista Naomi Berrill, si inscrive nella scena donandole, a un tempo, il perimetro sonoro di esistenza. Le Suite n. 3 in Do Maggiore, BWV 1009 e n. 4 in Mi bemolle Maggiore, BWV 1010 di Bach tracciano, nella relazione con il silenzio e con gli interventi vocali di Berrill, la morfologia sulla quale la performance si schiude e si dispone. Si tratta di una struttura che condivide con la civiltà antica il carattere dell’evidenza quieta e del mistero che trafigge: il sentimento di una distanza che, proprio come in Ode su un’urna greca di Keats, realizza ancora il prodigio, tramutando la contemplazione in meditazione. (Ilaria Rossini)