A fine settembre si è tenuta presso i Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo la quarta edizione del Mercurio Festival, curato da Giuseppe Provinzano, dopo il suo riconoscimento a Festival Multidisciplinare per il triennio 2022/2024 dal Ministero della Cultura. Un festival tentacolare, tutto rivolto al presente: non a caso This is a present for you è stato il titolo di questa edizione, che ha riscosso grande successo di pubblico.
Il festival Mercurio nasce a Palermo con l’intento programmatico di porre gli artisti al centro della sua direzione. Ogni anno ciascun protagonista designa un artista da invitare per l’edizione successiva, secondo un meccanismo dinamico e democratico. Non vengono imposti parametri di scelta: l’individuazione del successore è libera e discussa collettivamente. «Ma come terrete assieme le fila del discorso?», ci si chiedeva, più o meno, durante la conferenza stampa. La risposta del curatore, Giuseppe Provinzano, è stata semplice: non tenendole assieme. In realtà, pur nell’eterogeneità delle proposte, è stato possibile individuare tra queste alcune consonanze, alcuni richiami interni che hanno permesso lo svolgersi di un racconto a suo modo unitario. Un racconto che viene da sud, e che dunque doveva essere multiculturale, plurale e variegato. Abbiamo avuto il piacere di percorrerlo un poco dall’interno: ne restituiamo frammenti, sperando che il racconto si racconti da sé.
«Alla fine siamo tutti un po’ malucumminati». Verissimo. È il primo giorno del festival, e la gente si accalca numerosa davanti all’entrata di Spazio Franco. All’interno i posti non bastano: si aggiungono cuscini e panche fino a coprire buona parte del palco. Mauro Lamantia e Sergio Beercock sono al centro della scena, circondati da uno stuolo di osservatori. Le luci li isolano, mentre nella semioscurità intonano una melodia profonda, nostalgica come il ricordo di Itaca. Non è qui che approdano, ma a Petra, misteriosa cittadina dell’entroterra sicano. Lamantia, rimasto solo, si attorciglia su se stesso come una corda annodata: significative le sue possibilità espressive e fisiche. Adesso, il suo corpo è quello di un malucumminatu, di uno storpio condannato alla solitudine. Canti liturgici e canti dei campi delineano un paesaggio familiare anche nella distorsione, che definisce il misterioso personaggio come simbolo tragicomico di un’umanità gemente. Le preghiere di cambiamento vengono infine accolte: il malucumminatu diviene una figura mitica, un veggente aedico. L’uso brillante del dialetto, da maschera popolare, incontra senza ostacoli l’empatia del pubblico, ma troppo brusco appare lo stracanciamento, la metamorfosi dello storpio in vate. La scrittura può ancora uniformarsi, per accompagnare chi osserva in una narrazione più organica delle vicende descritte. Ma già a questo stadio, Petra, liberamente tratto da I fatti di Petra di Nino Savarese, è un piccolo gioiello, che intercetta tra poesia e antropologia il bisogno di un miracolo in cui credere. È bello che il festival sia partito da qui.
È il secondo giorno. Qualche ora prima dello spettacolo, gli argentini Los Picoletos (Dante Litvak e Fabro Tranchida) sono indaffarati dietro le quinte dell’Arci Tavola Tonda. Uno dei due esce allo scoperto, confuso, con le terga blandamente coperte da un fascio di carta igienica. «Tutt’a posto?», chiede Provinzano. «Eh? Sì, sì». Una vita sottoterra è una performance definita, dal foglio di scena, grottesca, umiliante e ridicola: sottoscriviamo. Sul palco è una cucina colma di arnesi, rifiuti, residui di cibo. Qui Los Picoletos, vestiti appunto di carta igienica, manipolano un panetto disgustoso. I ritmi di lavoro sono incalzanti, le comande inverosimili. Siamo nel retro del ristorante di qualche caotico, turistico meridione. Gli immotivati task culinari cui i Picoletos si sottopongono vorrebbero essere il mezzo di una polemica verso la società dei consumi impostasi con la movida. Pasolini è direttamente scomodato, citato da registrazioni e proiezioni su uno schermo. Un video sadomaso, di cui sono protagonisti gli stessi Picoletos e un misterioso master, dovrebbe significare l’abuso del potere sul corpo dei suoi sottoposti. Rispetto alla violenza delle 120 giornate di Sodoma, alla quale il trio vorrebbe rifarsi, si tratta tuttavia di pornografia fine a se stessa. Buone le intenzioni, ma i modi della denuncia sono da ribellione adolescenziale. Strappano certo qualche risolino al pubblico, tuttavia al termine della visione le facce dei presenti sono più perplesse che sconvolte.
Passa qualche giorno. Fuori dallo Spazio Marceau c’è fila. L’accesso è consentito a due persone per volta, e anche qui la gente non manca. Entriamo in un piccolo, caldo ambiente dove ci attendono quattro sedie, disposte ai punti cardinali di quella dove Simona Miraglia attende immobile, arroccata come un’isola sul mare. La sua I-sola/e Singolare/Plurale è una storia di confini affacciati sul nulla e sull’altro. Gli arti della danzatrice si stendono e si ritraggono, come vele sottoposte al governo di imperscrutabili venti interiori: a ogni gesto di apertura corrisponde un arretramento, e viceversa. I-sola/e racconta l’insularità come espressione di una geografia esistenziale, la cui mappatura è esito di un problematico periplo intorno all’ignoto. Perimetrare i propri confini, col corpo, equivale qui a indagare il rapporto tra interno ed esterno, tra individuo e collettività: opposizioni troppo serrate per trovarvi la propria collocazione definitiva. Come previsto dal programma, la performance si conclude in una manciata di minuti, lasciandoci con la voglia di osservarla ancora un poco, ognuno dalla propria prospettiva. Intanto fuori piove, e dopo tanta siccità l’arrivo dell’autunno viene salutato come un evento rassicurante. Al Cre.Zi Plus, dove un piccolo gruppo di donne impasta acqua farina e lievito madre, si svolge la fase finale di Crescente. Sotto la guida di Tindaro Granata, le partecipanti non hanno preso parte «né a un laboratorio teatrale, né a un corso di panificazione», come l’attore tiene a precisare. Piuttosto, attraverso il recupero di tecniche tradizionali, hanno imparato a ricordare storie, a narrarsi, a condividere se stesse e il frutto del proprio lavoro. Tra parole e canti, è come respirare in un piccolo anfratto di macchia mediterranea, dove ancora è possibile fermare il tempo e stabilire legami genuini.
Mediterraneo è conoscere l’altro, l’altra, riconoscendosi ma anche contrastandosi. È questo il tema di Marraya Arrouh (Specchio dell’anima) della compagnia marocchina COL J’AM. La vediamo nel primo giorno di ottobre, allo Spazio Tre Navate. Un uomo dai lineamenti arabi, immerso in una veste cosi ampia da coprire la scena, si muove sul palco come una divinità in un vortice di sabbia e pixel: ruota lentamente intorno al proprio asse, sembra un sufi pensoso. Sonorità berbere ed elettroniche ne accompagnano il movimento, fino all’ingresso in scena di una donna velata da una seconda pelle di tessuto. Evanescente nube di acqua rituale e polvere, la danzatrice riesce a liberarsi dal confine della sua prigione di nylon, dopo averla spinta con gesti spezzati verso l’esterno. Il partner non la riconosce, non ne accetta la libera figura. Tra i due si innesca un complicato rapporto di negazione e dialogo. Lei tenta di avvicinarsi a lui, che continua a volgerle le spalle, e ne itera concitata i gesti. Rimane sola, mentre sul corpo dell’altro, infallibili, si proiettano scritture che non possono essere messe in discussione. Avvalendosi di una forma ibrida tra danza e video-installazione, Marraya Arrouh descrive il problema del rapporto tra i sessi con la fluidità di un romanzo, quanto mai contestuale se si pensa alla recente morte di Mahsa Amini. A sud, nel bene e nel male, esiste sempre un presente da raccontare. Mercurio, con il suo numeroso, stratificato pubblico, ha saputo dimostrarlo.
Tiziana Bonsignore
Mercurio Festival, Palermo, settembre-ottobre 2022
PETRA
Di e con Mauro Lamantia e Sergio Beercock
UNA VITA SOTTOTERRA
Di e con Los Picoletos (Dante Litvak e Fabro Tranchida)
Invitato da Adrián Castañeda
ISOLA/E_SINGOLARE, PLURALE
Di e con Simona Miraglia
CRESCENTE – IL RITO DEL PANE
Esito laboratorio a cura di e con TINDARO GRANATA
Invitato da Deniz Ozdogan
MARAYA ARROUH
Coreografie di Ahlam El Morsli, Wajdi Gagui e Jean-Marc Matos
Danzatori Ahlam El Morsli e Wajdi Gagui
Artista digitale Arnaud Courcelle
Produzione e distribuzione Majid Seddati
Coproduzione Festival Internazionale di Video arte (FIAV), Istituto francese di Casablanca, Istituto francese di Tétouan, Istituto Francese di Parigi Centro di sviluppo coreografico La Termitière – Ouagadougou, EPSON, Casablanca Eventi e Animazione
invitato da K-Danse